Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Milano, Labor, 1945

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso, quarantasei tavole in tricromia, quarantasei tavole in rotocalco fuori testo e quarantasei disegni episodici di Giambattista Galizzi, Milano, Labor, 1945

Gli editori, con questa pubblicazione dell’ “Orlando furioso” si propongono lo scopo di offrire la nuova genialissima interpretazione artistica del fantasioso pennello di G.B. Galizzi che già si impose agli ammiratori delle edizioni artistiche, che sentono vivo il culto del bello, con la illustrazione dei Santi Evangeli, del Poema dantesco [sic] e dei Promessi sposi.

Così un anonimo portavoce della “Labor” introduceva il lettore a un’edizione del capolavoro ariostesco evidentemente allestita ‘in funzione’ delle tavole del pittore bergamasco Giovan Battista Galizzi (1882-1963). Queste ultime, a propria volta, dovevano soddisfare pienamente il «culto del bello» di un pubblico piccolo o medio-borghese suscettibile di scandalizzarsi ancora (1945) per le ironiche oscenità del Furioso. Gli editori non esitarono infatti a sforbiciare con disinvoltura intere novellette, sottolineando nello stesso tempo solo il lato pio della considerevole opera illustrativa di Galizzi, che contava invece anche titoli come The life and death of John Falstaff, i Contes drôlatiques di Balzac, le Notti dello Straparola – oltre naturalmente al suo capolavoro, il Pinocchio per la Sei di Torino (1942). Galizzi, senz’altro uno dei più importanti illustratori della prima metà del secolo, era un noto e premiato pittore sacro, ricercatissimo per chiese e cappelle di città e campagna, ma anche notevole caricaturista e disegnatore satirico (in quest’ultima veste aveva messo, durante la Grande Guerra, la sua matita al servizio della propaganda anti-austriaca).

Un artista ‘laureato’, dunque, non mancante di nessuna unzione ufficiale, accademica o ecclesiastica; eppure, chi guarda oggi le sue tavole non può che venir preso da una netta sensazione di inquietudine. Questo Furioso, ad esempio. La prima impressione – purché molto distratta – può anche essere quella d’una vivacità fiabesca, un vignettismo raffinato e popolare insieme, spirante la grazia ingenua di quei vecchi libri illustrati per l’infanzia passati ‘da bambino a bambino’ per due o tre generazioni. Basta indugiarvi un poco, però, ed ecco apparire inverecondi affioramenti di inconscio e sarcasmi neri, in mezzo ai quali l’ingenuità e il candore permangono, ma nel modo in cui potrebbero essere simulati da un libertino.

Questo Furioso di Galizzi è uno spettacolo notturno: la selva, il vago labirinto del gioco dell’oca cavalleresco vi diviene la foresta oscura del romanzo gotico, con tanto di alberi contorti; è una fiaba dell’orrore: l’illustratore inventa ad esempio un ippogrifo altrettanto grande e mostruoso del mostro con cui combatte; è, infine, una favola di animali. Si avverte nell’animo di Giovan Battista un fondo di cupo moralismo, che combinato alla sua formazione simbolista e alla pratica del disegno satirico, lo rendono sensibile alle metafore zoologiche (spesso visualizzate) così frequenti nel dictatus del poema, e alle scene allegoriche in cui agiscono personificazioni di vizi. In queste ultime emerge chiaramente l’influsso di Goya, uno dei punti di riferimento del fare pittorico del nostro. I disastri della guerra, i mostri generati dal sonno della ragione sono in effetti le chiavi prevalenti con cui Galizzi affronta le battaglie dei cavalieri, e non pare strano, se si pone mente all’anno di pubblicazione di questo libro. Tutto il suo immaginario è del resto pregno di crudeltà, stemperata magari dal grottesco, ma quasi mai dal comico puro. Raramente egli scherza, e quando lo fa è pungente, popolaresco, un po’ greve. Nell’illustrazione al canto XXXIV Astolfo appare come un contadinotto, còlto mentre contempla – tra l’incredulo e il divertito – i contenitori dei senni perduti, a loro volta simili a vasi di conserve impilati sullo scaffale di una dispensa. Tratto arguto: tra i nomi che vi sono scritti sopra scorgiamo, accanto a quelli di Orlando e di Ariosto, anche la firma dello stesso Galizzi.

In generale non vi è leggerezza, bensì terragna solidità nelle sue figure, a cominciare dai cavalli che sono grossi, pesanti, quasi da tiro. I personaggi agiscono su sfondi campestri, rurali o strapaesani un po’ da realismo fascista, salvo quando l’Ariosto descrive architetture fantastiche: in quel caso abbiamo torri metafisico-razionaliste o edifici à la De Chirico. Da certe trovate visionarie, come l’apparizione fantasmatica di Atlante e del suo palazzo, potrebbe aver tratto ispirazione persino il Buzzati pittore e fumettista. Nei paesaggi, pur senza compiacimenti estetizzanti (come si vede da certi chiari di luna desolati, nettamente anti-romantici) avvertiamo la lezione dell’inevitabile Dorè. La conoscenza dei suoi predecessori è del resto, da parte del coltissimo Galizzi, più che probabile: in certi incroci geometrici di lance e costruzioni manieristiche di corpi – a volte vere e proprie citazioni – si può ravvisare addirittura l’influsso delle illustrazioni più antiche, cinque-settecentesche, del poema ariostesco.

A un deciso processo di ‘abbassamento’ sono sottoposti anche il tema amoroso e il fascino delle figure femminili. Prendiamo il caso di Alcina e Angelica. Galizzi dedica una tavola a colori alla rappresentazione di un’Alcina nel pieno del suo splendore artificioso, reso con stilemi decadenti e liberty e Kitsch tra Aubrey Beardsley e Mariano Fortuny, facendola seguire subito dopo da una scura tricromia in cui la maga, nella stessa posizione, appare quale estenuata strega o vecchiarda: e il raffinatissimo tendaggio color oro finemente pieghettato che la incorniciava è ora ridotto a un sipario stracciato. D’altra parte, l’idillio amoroso più proverbiale della letteratura italiana evoca tutto un eden di normalità. Angelica è «quasi brutta, priva di lusinga», Medoro porta chiaramente sul volto i segni della recente malattia; in un angolo, un amorino dallo sguardo perfido sembra prevedere per loro un futuro ménage piccolo borghese ambientato non certo nel favoloso Catai, ma semmai nell’Italia ‘laboriosa e povera’ degli anni Cinquanta.

Bibliografia

Anni Trenta. Arte e cultura in Italia, catalogo della mostra, Milano, Mazzotta 1982.

I pittori bergamaschi dell'Ottocento, IV, Bergamo 1992.

C. Basta, schede in La grande decorazione a Brescia tra Ottocento e Novecento, Brescia, Grafo, 1990.

C. Basta, voce Giovanni Battista Galizzi, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1998.

P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, Firenze, Usher, 2010, sub vocem.

The research leading to these results has received funding from the European Research Council under the European Community’s Seventh Framework Programme (FP7/2007-2013) / ERC Grant agreement n. 295620: ERC Advanced Grant 2011, Looking at Words Through Images: Same Case Studies for a Visual History of Italian Literature.