4.3. Dall’album Pasolini/Callas

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A cavallo tra anni Sessanta e Settanta Pasolini e Maria Callas si frequentano in modo assiduo per ragioni di lavoro e non solo. I fotografi sono all’opera. Certi scatti restano nella memoria, consegnati per sempre agli archivi: un bacio sulla bocca in aeroporto, per la gioia dei rotocalchi che cercarono di alimentare prevedibili equivoci. E poi: in spiaggia a Sabaudia; ad Aleppo; in Cappadocia e a Grado, nel caldo dell’estate del 1969, lei in pesantissimi costumi di scena e lui, come di consueto, senza una traccia di fatica o sudore, in abiti candidi e freschi, mentre la dirige sul set; in motoscafo d’estate a Trigonissi; e ancora in Mali, in compagnia di Moravia e Morante, in altre educative peregrinazioni, come si addiceva a quei compagni di viaggio (registriamo le reciproche adattabilità: lei che si piega a dormire in branda con la Maraini, lui che fa altrettanto con lo yacht “Cristina”); le conferenze stampa e la prima parigina di Medea. E così via.

Tra tutte le serie che compongono l’album Pasolini/Callas trattengo questo scatto fatto al volo, in prossimità della prima parigina di Medea. Non certo una bella foto. Ma una foto in cui nessuna ‘posa’ è possibile. Di fronte agli obiettivi, esposti alle luci dei flash, la Callas e Franco Rossellini in primo piano, dietro PPP, pressappoco irriconoscibile, (auto?)confinato quasi a bordo campo, forse titubante, a confermare una generale perplessità che investe quasi tutte le immagini catturate in occasioni mondane con la cantante. È come se il singolo scatto raccogliesse su di sé un certo timore per l’uso pubblico che l’intero album PPP/Callas avrebbe potuto generare. Timore non infondato. Perché è l’interezza dell’album che, a quasi mezzo secolo di distanza, riverbera significati non previsti. Più gli aneddoti e gli scatti fotografici aumentano intorno a questo binomio improbabile, più mettiamo in fila i momenti di lavoro sul set, di intimità al riparo dalle serate mondane, di raccoglimento e confessione dei reciproci ‘conflitti interiori’, e più aumenta la vertigine dell’Inautentico. Ecco dunque PPP che dipinge per la musa e la ritrae utilizzando gli elementi della Natura come petali, terra, frutta macerata e succhi di fiori (pare che Nadia Stancioff, assistente della Callas e fucina di aneddoti non so quanto volontariamente maligni, abbia sentito il poeta sussurrare senza ironia una frase in seguito foriera di interpretazioni dietrologiche impossibili da ricordare qui: «Questo è fare arte. Ora deve asciugare al sole per ventiquattr’ore. Ne farò tre soltanto, e uno sarà per te»). Ed ecco le poesie e i versi che lui le dedica. E quando questi verranno senza indugio sparpagliati in più sedi editoriali (Su Nuovi Argomenti, in appendice alla sceneggiatura di Medea e in sezione apposita in Trasumanar e organizzar) e i critici taceranno distratti, PPP si auto-recensirà polemicamente su Il Giorno del 3 giugno 1971, indisposto almeno in apparenza a sospettare dietro al silenzio una qualche forma di cortesia.

In particolar modo, con la distanza del tempo trascorso e per uno strano scherzo del caso, mi pare che l’album PPP/Callas sia a rischio di contaminazione con schegge di due immaginari lontanissimi dalla legacy pasoliniana.

In primo luogo una tranche di mitologia dannunziana. Con tutte le differenze che intercorrono tra la coppia D’Annunzio/Duse e la partnerschip Pasolini/Callas, neppure sfuggono i punti di contatto. Tra i quali: la parabola del poeta che riplasma una nuova figura nella creatura del palcoscenico, la diva che si scopre ‘umile’ materia nella mano del poeta, l’epistolario incrociato, la voglia di corrispondenze tra spiriti eletti. Ora, tutti sappiamo quanto PPP abominasse D’Annunzio in pubblico e in privato. Ma Carmelo Bene non è stato l’unico a leggere dietro il rifiuto un esempio di angoscia dell’influenza, anche se è stato uno dei più chiari ad affermarlo: «Bastava farne il nome e volavano i piatti, con tutte le tovaglie […] Era un suo côté, il Vate, che voleva rimuovere. Glielo ripetevo. S’incazzava di più …».

In secondo luogo, e se possibile ancora più inaspettatamente, troviamo un’immagine pacificata dell’omosessualità. Ben difficile conciliare la visione di Pasolini come campione della gayness antisociale con le foto di una coppia così poco queer: lei nei panni di una odierna fag hag, lui in quella del sessualmente innocuo gay friend.

Sappiamo quanto sia presente sulla scena pubblica la corrente degli studiosi di Pasolini che non perde occasione per mostrarsi preoccupata: l’eredità del poeta sarebbe in pericolo, minacciata dagli avversari di ieri e di oggi o, più tragicamente, dall’oblio e da una società non più interessata a riconoscere un certo profilo di intellettuale. Ma se l’immaginario canonico pasoliniano resiste così bene su più fronti, compreso quello delle interferenze appena messe in gioco con leggerezza (se non in salsa piccante) e queste stesse interferenze le sa trattare per ciò che in parte anche sono – cioè come tendenziosità, facezie o azioni di disturbo – lo si deve probabilmente al fatto che si è dimostrato capace di resistere a tutto. E quindi resisterà ancora.

 

Bibliografia

P.P. Pasolini, ‘Appendice a Medea’, in Id., Medea. Un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1970.

P.P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971.