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Siamo all’inizio di Uccellacci e uccellini: Totò e Ninetto, comparsi da un’indefinita strada della periferia romana, arrivano in un isolato casolare adibito a bar. Mentre Totò ordina da bere, Ninetto non resiste alla tentazione di aggregarsi ai ragazzi che, di fronte a un juke-box, stanno ballando sulle note di uno scatenato rock. Prima gli rivolge la parola il compare più effeminato, che a un certo punto, senza spiegazioni, si ritirerà dal ballo; poi si unisce anche il capelluto barista, che mostra a Ninetto i quattro passi della disordinata coreografia del gruppo. Nelle inquadrature frontali, come nell’immagine, i ragazzi sembrano muoversi su una sorta di improvvisato palcoscenico, da recita paesana, in cui la tenda a frange della porta funziona da quinta per l’entrata e l’uscita dei personaggi. Ne scaturisce un’accentuazione dell’aspetto iconico-performativo dei corpi nonché del significato ludico del ballo, interrotto soltanto dall’arrivo dalla corriera che riporta i ragazzi alla realtà: mentre la musica continua a suonare, li vediamo – in campo lungo – allontanarsi dal bar e rincorrere a perdifiato il mezzo che li sta lasciando a piedi.

Siamo anche a metà circa degli anni Sessanta; il film, ideato nel 1965 e presentato al Festival di Cannes l’anno dopo, segue di non molto una dichiarazione rilasciata da Pasolini nell’ambito dell’inchiesta sulle canzonette promossa da Vie nuove nel 1964:

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