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Nel film La rabbia (1962), Pasolini taglia e rimonta pellicole di un vecchio cinegiornale, commentandole con due voci fuori campo, in prosa e in versi. Non è un documentario storico, come a volte viene erroneamente considerato, ma un esperimento cinematografico di grande interesse ancora oggi. Per la tecnica usata, e per i contenuti politici di analisi della società, esso è simile a quello che un decennio più tardi realizzerà Guy Debord con il film La société du spectacle, ma per la forma poetica e per la visione della Storia, Pasolini ci porta in tutt’altra dimensione, raramente praticata al suo tempo e anche nel nostro. Una dimensione tragica che sussume anche il politico dentro al suo più ampio orizzonte. La mia ipotesi di lettura è che questo singolare esperimento di montaggio ricrei, con i mezzi specifici del cinema, la potenza lirica ed etica dell’antico coro tragico.

Pasolini shot several screen adaptations of ancient Greek tragedies such as Medea by Euripides and the Oresteia by Aeschylus. But with La rabbia (1962) he does something different and something more: he does not adapt an existing tragedy for the screen, but recreates the very form of ancient tragedy through specific filmic techniques and especially through its most distinctive device: the montage. As in ancient tragedy, the newsreel footage that Pasolini edited for the film stages the conflicts, joys and mourning losses of the recent history of mankind, captured from a broad, planetary and universal perspective. The voice-over commentary takes on the role of a tragic chorus.

1. Per il film La rabbia, realizzato nel 1963, Pasolini non ha girato una sola scena. Ha usato esclusivamente delle vecchie pellicole di un cinegiornale degli anni ’50, intitolato Mondo libero,[1] e fotografie tratte dai giornali. Le ha selezionate, montate e accompagnate con un commento scritto appositamente per il film, che è in parte in versi in parte in prosa, ed è letto rispettivamente dalle voci fuori campo di Renato Guttuso e di Giorgio Bassani.

Per comprendere il senso dell’operazione, occorre innanzitutto richiamare alla mente i cinegiornali di un tempo, brevi filmati che mostravano notizie e varietà, e che venivano proiettati nelle sale cinematografiche prima del film principale. Erano un po’ come i telegiornali di oggi – sono scomparsi alla fine degli anni ’50, quando la televisione li ha soppiantati. Anche Mondo libero, durato circa un decennio, era cessato nel ’59. Oggi i cinegiornali sono considerati documenti storici importanti, essendo spesso le uniche registrazioni audiovisive degli eventi del tempo. E infatti molti documentari storici hanno attinto a quei repertori: in Italia, per esempio, si può ricordare All’armi siam fascisti! di Cecilia Mangini e Lino Micciché, con testo di Franco Fortini, un’analisi critica della presa di potere da parte del fascismo, realizzato nel 1961, due anni prima della Rabbia.[2]

Ma Pasolini usa quei materiali di repertorio in un modo assai diverso. Non li considera dei documenti, e ancor meno delle ‘immagini-verità’. Anzi, egli è ben consapevole della loro banalità e della loro falsità, come si legge in questa dichiarazione, fatta da Pasolini durante la lavorazione del film, dopo aver visto 90.000 metri di quelle pellicole:

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Il testo che qui riproduciamo è la prefazione al volume di Corinne Pontillo "Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia" (Duetredue Edizioni, 2015). La monografia, basata sull’indagine delle interazioni tra l’opera pasoliniana e il linguaggio fotografico, costituisce il primo numero della collana “I quaderni di Arabeschi”. Il saggio di Marco Antonio Bazzocchi ne ripercorre criticamente temi e passaggi salienti, mettendo in evidenza gli aspetti innovativi nell’ambito di una puntuale contestualizzazione delle diverse fasi della produzione dell’autore.

 

Come ormai sappiamo dagli sviluppi dell’ermeneutica degli ultimi anni, l’opera di un autore non è né un sistema perfetto né un ente chiuso né una costruzione fondata su una architettura solida. L’edizione delle opere di Pasolini condotta da Walter Siti e Silvia De Laude ha contribuito in modo definitivo a scardinare limiti e confini tra i singoli testi, portando alla luce un continuum di scritture dove quello che sembrava definito e collocato in una fase specifica della produzione pasoliniana mostra invece ripetuti legami con quanto lo precede e quanto lo segue. L’opera di Pasolini è dunque un magma, e lo è molto prima del momento in cui l’autore adotta questo termine, nei primi anni Sessanta.

Saggi critici come questo di Corinne Pontillo confermano e anzi rafforzano tali ipotesi di lavoro. Mettendo al centro della ricerca un aspetto che sembrava marginale, o perlomeno riconducibile a pochissime opere, la fotografia, Pontillo dimostra invece con pazienza e infinita attenzione ai testi che c’è un ‘problema’ fotografico quasi in ogni momento dell’opera dell’autore, dalle prime pagine friulane (in prosa e in versi) agli ultimi, grandi abbozzi degli anni Settanta.

Per capire fino in fondo l’importanza di questa ricerca, dobbiamo innanzitutto considerare il legame che viene identificato alla radice delle prime opere di Pasolini, in particolare in alcune prose friulane, cioè la presenza di un dispositivo della visione che funziona come dispositivo della memoria, anche là dove non si tratta di vero processo memoriale. L’intero mondo friulano, quel mondo che solo una prospettiva semplificante ha sempre identificato con un paradiso esistenziale, acquista così una dimensione nuova: il microcosmo Friuli, i corpi che popolano questo mondo, il desiderio che l’autore proietta sui corpi e sulla lingua che li definisce, sono già da sempre una realtà vista attraverso un filtro, percepita nella distanza, fissata attraverso un obiettivo. In altre parole, Pontillo ci porta a considerare che il Narciso friulano è il prodotto di un effetto visivo già compromesso con il dispositivo fotografico: è colui che ci guarda dal fondo di un’immagine dentro la quale si trova rinchiuso, e non ha possibilità di toccare il mondo se non attraverso il suo sguardo prigioniero. L’espressione che Pontillo usa per definire questo primo momento della produzione di Pasolini, «pulviscolo di frammenti narcisistici», dice già tutto: ogni aspetto del mondo friulano è frammento, segmento, particella, esattamente come è frammento il corpo dell’autore che usa con abilità la sua fotografia del libretto universitario quando decide, alla fine della sua carriera, di riscrivere l’intera produzione friulana invertendone il segno e facendone emergere il negativo che all’origine era stato occultato.

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Nell’ambito della 72/a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, grazie al restauro effettuato dal laboratorio L’immagine ritrovata della Cineteca di Bologna, nella sezione Venezia Classici sarà presentato l’ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. In occasione della proiezione di questa versione restaurata, che si svolgerà i prossimi 10 e 11 settembre, il seguente contributo offre un approfondimento sulle reazioni di intellettuali e scrittori di fronte alla prima visione del film, avvenuta alla fine del 1975. Tra voci di malessere, di disagio, o addirittura di rigetto fisico, l’opera estrema di Pasolini rivela la capacità di imprimere un segno nello spettatore, attraverso sequenze piene di suggestivo, raggelante fascino.

C’è stato un momento nella produzione di Pasolini in cui i corpi dei giovani e il sesso hanno cessato di custodire e di rivendicare una propria sacrale incorruttibilità. L’autore, che nella vita e nelle opere aveva incarnato e trasfigurato in forma di poesia le tensioni più puramente progressiste degli anni Cinquanta e del decennio successivo, rintraccia nella liberalizzazione dei costumi avviata tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta una bieca imposizione, tanto più sinistra e pervasiva quanto più coperta dalla maschera di una falsa tollerabilità. La natura incontaminata dei corpi e l’amplesso come atto di ribellione al potere, ultimi baluardi ancora pieni della loro fisica espressione nell’ambientazione al passato della Trilogia della vita, nelle riflessioni mature di Pasolini subiscono anch’essi un’inesorabile trasformazione:

L’orizzonte poetico dell’autore si proietta, dunque, verso toni più gelidi e disincantati, che spianano il terreno a un’ultima, disarmante prova cinematografica:

Alle soglie della sua scomparsa, Pasolini lascia in eredità ai giovani le sequenze di un film insopportabile, chiuso com’è tra lo scorrere di una rara eleganza estetica e l’efferatezza degli atti violenti che vengono compiuti. Salò o le 120 giornate di Sodoma, adesso restaurato grazie all’intervento del laboratorio L’immagine ritrovata della Cineteca di Bologna e prossimamente presentato nella sezione Venezia Classici nell’ambito della 72/a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è l’emblema della mercificazione dell’uomo perpetrata dal potere consumistico; il romanzo di Sade e l’ambientazione nei tempi e nei luoghi della Repubblica Sociale Italiana si pongono come pregnante metafora della riduzione del corpo a cosa causata dal dilagare del sistema neocapitalistico. È lo stesso Pasolini a darne conto in occasione di una autointervista:

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L'obiettivo del convegno (Paris-Amiens, 26-27-28 maggio 2015) è stato indagare la dialettica ‘oppositiva’ e complementare tra scrittura e immagine negli scrittori italiani del XX secolo, affrontando in profondità le strette relazioni che intercorrono tra la parola scritta e l'immagine statica (pittura) e in movimento (cinema).

La linea d’indagine principale è stata dedicata agli autori formatisi sotto il magistero di Roberto Longhi, la cui riflessione è risultata determinante non solo per tracciare una nuova mappa della pittura italiana da Giotto a Morandi (a lui si deve la riscoperta novecentesca di Caravaggio) ma anche per rinnovare il metodo d'analisi e lo stile della critica d'arte. Scrittori quali Pasolini, Bassani, Testori, Bertolucci, Anna Banti sono esplicitamente debitori del metodo longhiano nell'analisi dell'immagine, quella ricerca della trama compositiva delle forme e dei colori volta a far emergere la ‘polisemia’ della realtà e della sua rappresentazione. La critica d'arte di Longhi si caratterizza infatti per una particolare capacità evocativa, fondata sulla restituzione, per mezzo delle parole, del dato formale al fine di porre in evidenza dettagli marginali talora trascurati; è così conferita una nuova dignità a quelle scuole periferiche la cui corretta valutazione era stata in precedenza inficiata dalle idee estetiche predominanti (asse Roma-Firenze). La seconda area d’analisi ha esplorato gli scrittori non legati direttamente a Longhi ma che situano comunque al centro della propria scrittura la riflessione sull'immagine e sulla visione: Carlo Levi, Sciascia, Parise, Calvino, Manganelli e Moresco.

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Interamente basato sull’impiego di materiale di repertorio, La rabbia (1963) di Pier Paolo Pasolini mostra una successione di sequenze in movimento e di immagini fisse, sia pittoriche che fotografiche. Restringendo il campo d’indagine al rapporto con la fotografia, il contributo analizza i contesti in cui le foto fanno la loro apparizione nel film, individuando delle costanti tematiche, musicali e visive. La maggior parte delle immagini raffigura cadaveri di civili uccisi in guerra ed è strettamente legata, dunque, ad una disarmante manifestazione della morte violenta e anonima. Sebbene non sia possibile disporre di dichiarazioni dell’autore relative alla dialettica tra i filmati e le immagini fotografiche, il saggio propone un’ipotesi interpretativa sulla relazione tra le sequenze mobili e il congelamento fotografico dell’istante all’interno di un’unica tessitura, la sublimazione lirica espressa ne La rabbia delle contraddizioni di un’intera civiltà

Entirely based on the use of archive material, Pier Paolo Pasolini’s La rabbia shows a sequence of moving and still images, both pictorial and photographic. Narrowing the scope of the survey to the relationship with photography, the essay analyses the contexts in which photos appear in the film, identifying thematic, musical and visual constants. Most images illustrate corpses of civilians killed in war and they are closely related to a disarming expression of violent and anonymous death. While it will not be possible to have statements of the author on the dialectic between footage and photos, the essay proposes an interpretative hypothesis concerning the relationship between mobile and fixed sequences in a single text: the contradictions of an entire civilization lyrically expressed in La rabbia.

1. Note sulla genesi

L’inizio degli anni Sessanta rappresenta per Pier Paolo Pasolini un momento di intensa esplorazione di diverse forme espressive. Dal realismo di Accattone all’inchiesta di Comizi d’amore (1963-1964) fino allo stile da reportage dei Sopraluoghi in Palestina (1963-1965), la prima metà del decennio testimonia una tensione sperimentale che si manifesta anche attraverso le ibridazioni tra linguaggio filmico e giornalistico. Nella produzione di Pasolini la dilatazione dei codici oltre la verbalità della letteratura contempla anche una modulazione interna al linguaggio audiovisivo e una ricerca di strumenti espressivi nuovi, adatti alle necessità dei messaggi che si intende comunicare. È un contesto che offre terreno fertile all’esperimento verbo-visivo de La rabbia (1963).

Nel 1962 il produttore Gastone Ferranti propone allo scrittore-regista di riutilizzare il materiale di repertorio di un suo cinegiornale a cadenza settimanale, «Mondo libero» (1951-1959). L’autore accetta di raccontare gli eventi degli ultimi anni della storia contemporanea, anni del benessere in nuce e di disillusione politica, durante i quali il partito comunista paga lo scotto del 1956; l’invasione sovietica dell’Ungheria e la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Kruscev nel corso del XX Congresso del PCUS hanno generato infatti un clima di instabilità ideologica. Pasolini prende visione di quelle immagini e l’autenticità di cui sono portatrici, dietro la maschera della retorica ufficiale, lo induce a ideare una innovativa trasfigurazione:

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La stagione cinematografica si è aperta nel segno della letteratura con due film dedicati a Pasolini e Leopardi, che tanto hanno fatto discutere data la peculiarità dei personaggi e il punto di vista attraverso cui la loro opera (e il loro destino) vengono raccontati. A distanza di qualche mese, ma ancora nel vivo del dibattito, dedichiamo ai film di Ferrara e Martone una serie di zoom nel tentativo di ‘distillare’ la temperatura emotiva e le direzioni di sguardo di due opere controverse ed espressive.

 

Scoppia la voce della Callas (l’aria di Rosina, dal Barbiere: «Una voce poco fa») e sale, su nel cielo piombo, sale sopra il cadavere, sul fango, sul sangue, sugli stracci. Pasolini è morto. Abel Ferrara decide di riscattare l’atrocità del cadavere con la voce della Callas. E forse conosce i versi meravigliosi di Trasumanar: «La lietezza esplode / contro quei vetri sul buio / Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce / è un ritorno dalla morte». Così quella morte sembra avvolta da molteplice pietas femminile: Callas, fuori, la cugina Graziella, la madre Susanna, l’amica Laura in casa. Quella voce della Callas potrebbe riscattare la morte. Sale nel cielo. Non capiamo bene il perché dell’aria di Rosina: casualità? allusività («lo giurai, la vincerò!»)?, ma quel che importa è la voce: c’è la voce della Callas, non c’è, nel film, la voce di Pasolini. Ci manca. Era forse inevitabile: sarebbe stato caricaturale, fasullo, kitsch, riprodurre quella voce un po’ strozzata, dolce, educatissima, con il lieve accento emiliano. Dafoe parla con un’altra voce. E qui Pasolini ‘ci’ manca. Ma non basta la voce della Callas per confortare gli amabili resti. Segue poi l’inquadratura azzurra del cielo dell’EUR, il palazzo fascista, la statua virile dello Stadio (già comparsa all’inizio del film). Uno squarcio di azzurro nel buio piombo dell’ultima notte e dell’alba successiva. Il cielo azzurro e le nuvole. Come Totò e Ninetto, che vedono le nuvole nel cielo, capitombolati nei rifiuti (Che cosa sono le nuvole?) e scoprono la «ineguagliabile bellezza del creato». Le nuvole e il cielo, guardati però da terra, in mezzo ai rifiuti, nella discarica: e così Ferrara fa vedere il cielo (a noi spettatori) mentre il cadavere di Pasolini, rivolto a terra, il braccio di traverso sul petto, non può vederlo. Cielo azzurro, marmo bianco, EUR: cioè fascismo. In un gioco perverso, il regista lega insieme virilità e luce. Come a dire che anche Pasolini (e in effetti fu così) si era confrontato col fascismo, lo aveva vissuto, attraversato, riassunto nell’ultimo anno di vita come metafora del Nuovo Potere (Salò).

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Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

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The long relationship between Paolo Benvenuti and Virgilio Fantuzzi is the story of a fascinating confrontation between a filmmaker and a film critic who comes from widely different cultures and hold apparently opposite ideas on religion. Nonetheless, even if from different sides, they have been able to meet on the common ground of narrative ethics and intellectual rigor through which they basically ask the same question to a movie. This paper reconstructs the phases of such a relationship and analyzes Benvenuti’s feature films as the possible point of convergence between these different sensibilities

I miei rapporti personali con Paolo Benvenuti hanno inizio con una lite furibonda. Avevo visto e rivisto Il bacio di Giuda, film che esercitava su di me uno strano fascino, ma che si presentava come un enigma del quale non riuscivo a trovare la soluzione. Lui a Pisa, io a Roma, ci incontravamo di tanto in tanto in quel periodo, sempre per riprendere il solito, interminabile battibecco. Io pensavo, e mi sbagliavo, che la soluzione dell’enigma avrebbe dovuto fornirmela lui. Ma le nostre discussioni, che culminavano inevitabilmente con l’affermazione cocciuta, da entrambe le parti, di verità apodittiche, reciprocamente inconciliabili, non mi consentivano di pervenire a una conclusione accettabile.

1. Una fede diversa

Secondo Paolo, Gesù, protagonista del suo primo lungometraggio, che, per modestia, cede all’antagonista l’onore del titolo, non è un personaggio storico, ma metastorico. Da sacerdote e gesuita come sono, ritenevo che fosse mio dovere sostenere nelle nostre discussioni esattamente il contrario. Nulla togliendo alla dimensione metastorica del personaggio Gesù, che è assolutamente evidente, il fatto che Cristo debordi, come ogni cristiano sa, dai limiti della storia per farsi contemporaneo (nei secoli e nei millenni) di tutti coloro che in lui credono e a lui si affidano, non esclude che, quando era vivo in quel lembo di terra che si chiama Palestina, dentro la storia ci sia stato, e come! «Crucifixus – sono parole del Credo – sub Pontio Pilato passus et sepultus est». Muro contro muro. Il confronto finiva lì.

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Il 10 ottobre del 1959 sulle pagine di «Vie Nuove» Pasolini firma un articolo (La colpa non è dei teddy boys) in cui prende posizione sul fenomeno dei teddy boys, avviando quella lunga inchiesta sulla nuova gioventù che lo condurrà nei decenni successivi alla polemica sui i fatti di villa Giulia, al Discorso dei capelli e poi giù fino a Petrolio e a Salò. L’occasione è data dal convegno sul disagio giovanile che si era tenuto a Venezia a settembre di quello stesso anno e che pare offrire a Pasolini, non per i risultati dei lavori ma come fatto in sé, la spiegazione del caso in questione. La «presunzione pedagogica», la «cecità reazionaria», lo «sciocco paternalismo», la «superficiale visione dei valori» e il «represso sadismo» della società italiana messi a fuoco in quella sede sono a suo parere la causa della presenza in tante città di «una gioventù insofferente e incattivita». Pasolini riprende e fa sue le osservazioni di Musatti, che sottolinea la natura conformista, borghese e moralistica della ribellione dei giovani. Analizza poi le differenze della «gioventù traviata» del Nord e del Sud del nostro paese evidenziando la dimensione moralistica e borghese dei teddy boys, «prodotto della società neocapitalistica irrigidita moralisticamente nelle sue sovrastrutture» dell’Italia settentrionale. In altra occasione scriverà: «i teddy boys sono numericamente proporzionali agli elettrodomestici: là dove non è reperibile nemmeno un elettrodomestico non è sicuramente reperibile nemmeno un teddy boy» («Nuova generazione», 21 novembre 1959). In realtà, però, l’interesse sociologico di Pasolini non si può scindere del tutto dalla passione per l’universo giovanile, che è la matrice originaria dei tanti ritratti e delle tante storie friulane e romane che popolano i suoi versi, i suoi romanzi e i suoi primi film. È all’interno di questo contesto che va collocata, infatti, la stesura della sceneggiatura della Nebbiosa, realizzata nel 1959 su commissione del produttore milanese Tresoldi, il quale poi decise di non utilizzarla per il film Milano nera, diretto nel 1963 da Gian Rocco e Pino Serpi. Il testo, per la prima volta proposto nella sua versione integrale dal Saggiatore (a cura di Graziella Chiarcossi, con la prefazione di Alberto Piccinini e la nota al testo di Maria D’Agostini), aggiunge un tassello importante al capitolo altrettanto significativo dell’apprendistato pasoliniano della scrittura per il cinema e offre un inedito ritratto della gioventù milanese degli anni Sessanta.

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