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Dal romanzo Teorema al film lo strumento della ‘nuova iniziazione’ di Pietro passa dall’osservazione di Wyndham Lewis, fondatore del vorticismo, alla folgorazione visiva di Francis Bacon. Non cambiano solo immagine ed epoca, a cambiare è il senso. Lewis è un esempio fra i tanti della scarnificazione estetica e formalista delle avanguardie in opposizione alla storia dell’arte studiata al liceo; Bacon è invece corpo artistico pulsante, che approda all’invenzione di uno stile innovativo sulla base di una profonda tensione, trovando nella creazione di una nuova forma la risposta a una realtà contemporanea alienante. La cinepresa mostra per primo, e con maggior insistenza, i Tre studi per figure ai piedi di una crocifissione dipinti da Bacon nel 1944, cioè un ‘classico’ trittico, riferito a un ‘classico’ soggetto come la crocifissione, ma plasmato in modo sconvolgente a causa del corto circuito tra la macerazione interiore dell’artista e la distruzione fisica dovuta alla guerra. Pasolini affida a Bacon il compito di essere non la semplice occasione della scoperta di una diversità formale, ma la dimostrazione di un rapporto tra tensione interiore, sguardo sul mondo e forma nuova; complessità che si perde dopo la partenza dell’Ospite e la privazione del sacro, con l’approdo a un inquieto e sofferto ma ormai vuoto avanguardismo.

Nel mistero delle figure di Bacon uscite da un tragico incubo (o macerate nella sofferenza del corpo desiderante, come nelle Two figures in the grass, che rappresentano un rapporto omosessuale, su cui la cinepresa insiste), Pasolini spia i riverberi dei propri incubi, riconoscendo la consonanza lontana di un pittore-fratello, così come da poco aveva riconosciuto in poesia la sintonia col ‘fratello’ Ginsberg. Una fratellanza istintiva, evidente anche nell’opera pittorica di Pasolini, come ha notato per primo Fabien Gerard, quando per l’Autoritratto col fiore in bocca del 1947 ha parlato esplicitamente di «sconcertante [...] anticipazione del tocco distorto di Francis Bacon». Gli autoritratti dei due artisti mostrano, infatti, una speculare consonanza di volti deformati da campiture cromatiche che riflettono passioni inesprimibili, fra sensualità e sofferenza.

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Nel corso della prima metà degli anni Quaranta del Novecento il giovane Pier Paolo Pasolini, fortemente tentato come è noto dalla poesia e dalla pittura, partecipando anche a qualche mostra collettiva regionale nel Friuli dove viveva in quegli anni, prima d’estate poi definitivamente (come ricorderà nel 1968 intervistando Ezra Pound per la tv italiana, «allora io disegnavo, dipingevo perché anche in quel momento fra ermetismo e pittura [...] c'era una stretta unione»), realizzò una serie di autoritratti (sottoinsieme del più cospicuo numero di autoritratti che ricorre lungo tutto il suo corpus grafico – e non solo grafico), per lo più disegni, che rivestono un certo interesse per la definizione di quel rapporto con l’immagine e la visione che sarà carattere eminente di tutto il suo percorso creativo. Sono infatti raffigurazioni di un pittore al cavalletto, visto di profilo o di tre quarti (conservati in gran parte al Fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux di Firenze, uno accompagnato dalla scritta «Paolo dipinge»); più uno (oggi al Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia), nel quale il poeta si raffigura come pittore di spalle, su un foglio diviso in due parti (su quella sinistra c’è, completato, il vaso di fiori che vediamo Pasolini dipingere in progress nel lato destro), sormontato dalla scritta «IO PITTORE PASOLINI» (come Filippo De Pisis, pittore sempre amato dallo scrittore, scriveva talvolta dentro alcune sue tele «W PIPPO POETA») – ritrovato tra le carte del pittore friulano Federico De Rocco, che fece in quell'epoca da guida al poeta per le tecniche pittoriche (e al quale Pasolini avrebbe dedicato negli anni successivi diversi interventi critici e testi poetici). Questo disegno, sia pure tra gli esiti meno felici della grafica pasoliniana (e da alcuni neppure considerato di sua mano), è particolarmente interessante, poiché sembra quasi anticipare in embrione alcune delle strategie attuate negli anni successivi dallo scrittore-regista per realizzare una messa in scena metalinguistica di sé all'interno della propria opera, attraverso la mediazione del riferimento pittorico (ambito nel quale Pasolini notoriamente era dotato di una competenza non episodica, a partire dagli studi universitari di storia dell’arte condotti a Bologna, proprio negli anni cui risalgono questi disegni, sotto la guida di Roberto Longhi).

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Il volto di Pasolini si erge, frontalmente, dinnanzi all’osservatore con la tagliente severità del poeta che guarda le cose e le trasforma in opera di poesia. Accattone, invece, interpretato da Franco Citti e ritratto alle spalle del regista, condensa nella sua triste posa l’immagine di un sottoproletariato senza speranza, in cui non si dà redenzione ma solo morte.

Il film, commenta Levi nella Prefazione alla sceneggiatura, «è, con chiara evidenza, l’opera di un poeta», in cui risalta un’«autenticità diretta», garantita non tanto dalla scelta di personaggi «veri» quanto «da una identificazione che non consente diaframmi estetizzanti». A ciò concorre un uso sapiente della «soggettiva libera indiretta» che mescola – come si evince dal saggio Il cinema di poesia, confluito poi in Empirismo eretico – lo sguardo dell’autore con quello del personaggio, al fine di sganciare dai moduli prestabiliti del cinema ‘classico’ il nuovo cinema di poesia, fondato sull’esigenza di unire la mimesi del personaggio alla libertà di stile propria dell’autore. Si effonde così nell’opera una vena espressionistica fatta di «rumore e furore» che scorre in modo sotterraneo lungo tutto l’arco della narrazione per affiorare nei suoi momenti più intensi. «Due volte – chiarifica Levi – scoppia, assurda e inattesa, una risata, che è il grido della vitalità pura nei momenti più neri di un mondo di solo bisogno».

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Pochi anni dopo i mirabili inserti manieristi della Ricotta (1963), Pasolini giunge con La Terra vista dalla Luna (1967) alla sua prima pellicola interamente a colori. Terzo capitolo del film a episodi Le streghe, a cui collaborarono anche Luchino Visconti, Mauro Bolognini, Franco Rossi e Vittorio de Sica, La Terra vista dalla Luna è una delle opere cinematografiche di Pasolini maggiormente innervate dalla ricerca – e dalla messa in scena di tale ricerca – di una continua traslazione di significato da un sistema di segni a un altro. La stessa sceneggiatura testimonia tale aspetto. Forma testuale di per sé ancipite, che Pasolini intende anche più in generale come struttura autonoma e insieme allusiva rispetto a un altro medium, la sceneggiatura è conservata, infatti, anche in una versione a fumetti (quasi che il rapporto tra film e colore avesse bisogno, nuovamente, di essere filtrato attraverso un ulteriore mezzo espressivo coerente con il contesto dell’opera: qui il fumetto, nella Ricotta il dipinto). Una nota premessa alla seconda redazione dattiloscritta della sceneggiatura precisa del resto che il testo va letto pensando «alle ‘comiche’ di Charlot o Ridolini, o ai fumetti di Paperino». Queste tavole a colori, create da Pasolini «ripescando certe sue rozze qualità di pittore abbandonate», presentano a loro volta uno statuto ibrido: rifacimento parziale della sceneggiatura in cui vengono precisati dialoghi e didascalie, esse costituiscono al contempo anche un abbozzo di storyboard per la prima parte del film, una sequenza di appunti visivi per la caratterizzazione, alla maniera di Fellini, di sfondi e personaggi, e un fumetto vero e proprio. La sperimentazione del fumetto, anzi, aveva assunto per Pasolini un carattere di autonomia tale da indurlo a progettare – come attesta una lettera a Livio Garzanti del gennaio 1967 – un nuovo esito narrativo, anch’esso compiuto e insieme transitorio rispetto all’orizzonte della trasposizione filmica:

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Le scene 10 e 11 della sceneggiatura del Vangelo secondo Matteo sono dedicate a un momento cruciale della vita di Maria e Giuseppe e dell’infanzia di Gesù: la cosiddetta Fuga in Egitto, che leggiamo in Matteo, 1, 13-15.

L’episodio di Matteo è preceduto da I magi (2, 1-12) – che si conclude con la partenza di costoro senza che reincontrino Erode (12: «Avvertiti poi in sogno di non ritornare da Erode, per un’altra via tornarono al loro paese») – ed è seguito dalla Strage degli innocenti (2, 16-18).

Le due scene pasoliniane, ponendosi in immediato collegamento spaziale e logico-narrativo, costituiscono una sequenza, dove si rispetta la concatenazione diegetica del testo di Matteo anche nella contestualizzazione.

Alla spoglia, severa asciuttezza della fonte, tesa come una corda e in grado di riassumere nella solare nettezza del proprio rigore stilistico mondi e sovramondi, certezze e misteri, la lettera della parola e il suo simbolismo concettuale, subentra il soggettivismo liricheggiante, che mentre racconta allude, mentre commenta sconfina. Matteo può considerarsi un cronista-memorialista inteso a predicare, con persuasiva efficacia riverberante, il Verbo, mentre Pasolini è un letterato-narratore-poeta (ormai anche di cinema) che in piena consapevolezza retorica cerca il raptus epico-lirico.

Gli oggetti «perduti nel pallore antelucano» (si noti l’intensità puramente evocativa dell’inciso), i rumori sinesteticamente «pallidi», il «mondo che appena si ridesta», compongono un quadro di vago e trasognato entroterra mnestico, dove la necessità del partire richiama quella di ‘Ntoni nel capitolo finale dei Malavoglia.

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Il cinema di Pasolini nasce da una fascinazione bruciante per corpi e luoghi: lo ha fatto capire meglio di tutti una mostra organizzata nel 1981 da Michele Mancini e Silvano Perrella, in cui una serie di dettagli ossessivi delineava una autentica retorica del linguaggio non verbale, del gesto e del paesaggio. E non possiamo dimenticare certo gli interventi polemici del Pasolini politico contro la de-realizzazione e la smaterializzazione dell’epoca contemporanea, a cui contrapponeva lo scandalo del corpo. Eppure esiste nel suo cinema anche una componente opposta, latente ma incisiva, che è bene indagare oggi, proprio perché i 40 anni dalla morte ci consentono una visione della sua opera più distaccata dall’ideologia apocalittica. È un’attrazione per l’incorporeo, o ancor più per quella categoria della spettralità, con cui Žižek legge oggi l’epidemia dell’immaginario; negli ultimi anni ne è scaturita una prospettiva di ricerca, al punto che si è parlato di una nuova, ennesima svolta, lo spectral turn. Penso a tutti i momenti in cui Pasolini accentua il carattere fantasmatico del cinema e l’ineffabilità del corpo, smaterializzando l’immagine con violenti controluce, travelling a mano, uso di ombre. È una dialettica fra corpi e fantasmi che è stata sintetizzata forse nella maniera più efficace da Fabio Mauri, nella performance in cui ha proiettato sul corpo dell’amico-poeta alcune celebri sequenze (Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini, Bologna 1975).

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Care amiche, cari amici di «Arabeschi»,

ho pensato a lungo alla vostra proposta e alla fine ho deciso di mandarvi quattro fotografie di pagine di poesia. Proprio così: ho riprodotto quattro pagine del libro di Pasolini che mi è più caro, pagine un po’ ingiallite, che la riproduzione restituisce nella materialità della grana della carta, delle pieghe e degli svolazzi, con le mie sottolineature e qualche nota a margine.

Alcune righe di giustificazione, ve le devo.

In nessun luogo come nella poesia vedo manifestarsi in modo così netto la facoltà di Pasolini di ‘vedere le cose’ e di essere ‘visionario’: da qui, e non da altro, viene quello che avete chiamato il suo «spiccato interesse per la dimensione visuale».

In una nota (1962) in margine a La rabbia, riprodotta in Le regole di un’illusione, Pasolini dichiara:

C’è quindi in Pasolini, fin dai primi anni della sua attività cinematografica, la coscienza che essa si colloca nell’alveo della sua esperienza poetica.

Ricordo quello che Moravia disse, subito dopo la morte dell’amico: hanno ammazzato un poeta (cito a memoria). Non ha detto un intellettuale, un regista, un polemista. Ha detto un poeta.

Si impoverisce la portata di tutto quello che Pasolini ha fatto nella critica, nel romanzo, nel cinema e nel giornalismo se non si parte dal suo modo originario di esprimersi nella poesia, di vedere attraverso lo sguardo della poesia. Ho messo in quest’ordine i generi nei quali si è espressa l’attività artistica e intellettuale di Pasolini perché, secondo una scala di valore e importanza, io metto al primo posto la poesia e, di seguito, la critica letteraria, il romanzo, il cinema e, infine, il giornalismo.

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La cosa a cui l’uomo ha più diritto è la vacanza, l’evasione, la sparizione, la solitudine.

P. P. Pasolini, Petrolio

 

 

1. Accattone è all’osteria con i suoi amici magnaccia, ubriaco fradicio. Si sente male, si abbatte sul tavolo e il Napoletano, che è accanto, gli solleva la testa per i capelli e lo guarda: ma lui, pallido come un morto, non lo sente perchè ha un mancamento, uno «sturbo» che gli fa chiudere gli occhi e impedisce ogni comunicazione.

2. Franco Citti con gli occhi chiusi e la testa inclinata, come la Santa Teresa di Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria, evoca precisamente un’esperienza di estasi: il suo malore lo proietta fuori dal mondo, lo solleva da terra come la levitazione di Emilia in Teorema. Non a caso, allora, la sequenza dell’osteria si conclude proprio a questo punto con un taglio netto: il Napoletano lascia ricadere la testa di Accattone e la narrazione riprende subito dopo, con il protagonista che beve a una fontanella tornando sotto il sole alla sua «bicocca».

L’estasi è un’esperienza comune a molti personaggi pasoliniani, che escono così dall’universo degli uomini per incontrare l’intensità, la profondità e la verità. Il fatto che questi momenti estatici, per definizione transitori e non ripetibili, coincidano spesso con la sfera del basso corporeo (l’ubriachezza in Accattone, il sesso in Teorema o in Petrolio) non sottrae loro l’aureola dell’eccezionalità e anzi ne accentua il carattere rivelatore. Gli occhi che non vedono di Accattone sono gli stessi di Edipo in Edipo re (ancora Franco Citti) e diventano l’immagine stessa di uno sguardo che scavalca il presente, proiettandosi all’interno e sprofondando in un’altra dimensione: il «paradiso interiore» del divino, del sogno o del futuro.

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Sulla base di una ricerca d’archivio in corso, il saggio avanza alcune riflessioni preliminari sul trattamento che la censura cinematografica dell’Italia repubblicana ha riservato alla rappresentazione dell’omosessualità, dall’iniziale vagheggiamento di un divieto assoluto al subentrare di più complesse negoziazioni a partire dalla fine degli anni Cinquanta, fino al profilarsi di una possibile riabilitazione del soggetto.

This essay presents first results of an ongoing archival research on homosexuality and Italian cinema in the after war period. It analyses how film censorship dealt with the representation of homosexuality, first trying to interdict it and then, from the late 1950s, negotiating its depiction in more refined manners, eventually envisaging the possibility of withdrawing it from the list of forbidden topics since the early 1970s.

 

A partire dal secondo dopoguerra, lo sforzo della censura di contrastare la diffusione di contenuti cui viene applicata la terminologia sinonimica oscenità/pornografia/immoralità investe un territorio esteso di soggetti e di materiali, in cui il cinema rappresenta un tassello centrale ma non esclusivo. Si può ricavare un’idea di tale estensione da un fascicolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, intestato «Pubblicazioni immorali»,[1] in cui sono inclusi incartamenti relativi al primo decennio del dopoguerra: riviste illustrate, teatro, televisione, arte (sotto accusa i disegni di Salvador Dalì per la Divina Commedia commissionati nel 1949 dal Poligrafico dello Stato) e persino decalcomanie da «applicare a moto-scooter e calendarietti». E ovviamente il cinema: un sottofascicolo riguarda il divieto d’importazione della rivista Paris-Hollywood (che tra il 1947 e il 1973 con il cinema intrattiene per la verità un rapporto piuttosto pretestuoso, sfruttando quali pin-up per le sue copertine attrici americane frammiste a una miriade di modelle anonime); un secondo riguarda invece la proiezione di film propriamente pornografici, nel corso di serate clandestine organizzate da privati in casa propria (ma anche nella sala di una gelateria, dopo l’orario di chiusura) grazie alla compiacenza di un operatore che prestava competenze e pellicole, a sua detta senza scopo di lucro. L’irruzione della polizia, organizzata a seguito della segnalazione di un quotidiano romano, ha esiti tragicomici: si scontra infatti con l’impossibilità di procedere al preventivato arresto di tutti i convenuti (uomini e donne), a causa della presenza fra il pubblico di «membri del Corpo Diplomatico e personalità politiche».[2]

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