Nel corso della prima metà degli anni Quaranta del Novecento il giovane Pier Paolo Pasolini, fortemente tentato come è noto dalla poesia e dalla pittura, partecipando anche a qualche mostra collettiva regionale nel Friuli dove viveva in quegli anni, prima d’estate poi definitivamente (come ricorderà nel 1968 intervistando Ezra Pound per la tv italiana, «allora io disegnavo, dipingevo perché anche in quel momento fra ermetismo e pittura [...] c'era una stretta unione»), realizzò una serie di autoritratti (sottoinsieme del più cospicuo numero di autoritratti che ricorre lungo tutto il suo corpus grafico – e non solo grafico), per lo più disegni, che rivestono un certo interesse per la definizione di quel rapporto con l’immagine e la visione che sarà carattere eminente di tutto il suo percorso creativo. Sono infatti raffigurazioni di un pittore al cavalletto, visto di profilo o di tre quarti (conservati in gran parte al Fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux di Firenze, uno accompagnato dalla scritta «Paolo dipinge»); più uno (oggi al Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia), nel quale il poeta si raffigura come pittore di spalle, su un foglio diviso in due parti (su quella sinistra c’è, completato, il vaso di fiori che vediamo Pasolini dipingere in progress nel lato destro), sormontato dalla scritta «IO PITTORE PASOLINI» (come Filippo De Pisis, pittore sempre amato dallo scrittore, scriveva talvolta dentro alcune sue tele «W PIPPO POETA») – ritrovato tra le carte del pittore friulano Federico De Rocco, che fece in quell'epoca da guida al poeta per le tecniche pittoriche (e al quale Pasolini avrebbe dedicato negli anni successivi diversi interventi critici e testi poetici). Questo disegno, sia pure tra gli esiti meno felici della grafica pasoliniana (e da alcuni neppure considerato di sua mano), è particolarmente interessante, poiché sembra quasi anticipare in embrione alcune delle strategie attuate negli anni successivi dallo scrittore-regista per realizzare una messa in scena metalinguistica di sé all'interno della propria opera, attraverso la mediazione del riferimento pittorico (ambito nel quale Pasolini notoriamente era dotato di una competenza non episodica, a partire dagli studi universitari di storia dell’arte condotti a Bologna, proprio negli anni cui risalgono questi disegni, sotto la guida di Roberto Longhi).
Il pittore ritratto di spalle mentre dipinge, a fianco dell’opera stessa che sta dipingendo (ma in due spazi concettualmente separati – non si tratta di un ennesimo esempio di ‘quadro nel quadro’, topos riconoscibile piuttosto nell’anta del ‘dittico’ che comporta l’autoritratto), quasi una sorta di equivalente concettuale (e temporale) di una proiezione anamorfica (le due ante del ‘dittico’ sono distinte anche tecnicamente, una ad acquerello e una a pastello), sembra infatti il prototipo di uno strategico autoritratto metaforico pasoliniano, attivato nel corpo stesso delle proprie creazioni, traslando la propria presenza fisica al loro interno per il tramite del riferimento ad opere d’arte esplicitamente riconoscibili (e sicuramente a questa data Pasolini non poteva aver letto le pagine sugli Ambasciatori di Holbein del seminario sui Quattro concetti fondamentali della psicanalisi di Lacan). Strategia interna dell’immagine, funzionale come esplicitazione metalinguistica della continua contaminazione tra la cultura artistico-letteraria dell’autore e l’operazione mimetica nei confronti di linguaggi marginali e dialettali, siano quello dei contadini friulani o quello del sottoproletariato romano – mimesi che, con gli anni Sessanta e la scoperta del cinema, sarebbe diventata autentica e «commovente» mimesi di corpi concepiti come materiale linguistico (il cinema era, secondo Pasolini, «la lingua scritta della realtà»). I primi bozzetti narrativi di vita romana degli anni Cinquanta, poi in gran parte raccolti in Alì dagli occhi azzurri nel 1965, sono quindi tramati di riferimenti artistici e letterari, che trasfigurano di volta in volta i «ragazzi di vita» come creature caravaggesche, alla maniera di Scipione, di Bartolomeo Pinelli, o evocanti i marmi classici – e creature parlanti nelle cadenze del poeta dialettale ottocentesco Giuseppe Gioacchino Belli. Al cinema, la fisicità di Accattone avrà la solidità massiccia e dolente delle statue romaniche del Nord Italia, e delle figure affrescate da Giotto e Masaccio, mentre Ettore morente in Mamma Roma sarà ‘dipinto’ come «un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio». Quando nei film i riferimenti diventeranno vere e proprie citazioni, come nei casi del Pontormo in La ricotta e Piero della Francesca nel Vangelo secondo Matteo, il poeta-regista giustificherà nelle interviste questa strategia stilistica dicendo che il riferimento pittorico gli è necessario per «vedere con gli occhi di un altro», costruire, attraverso il riferimento culturale, un diaframma tra sé e le cose, diaframma che attesti la sua presenza autoriale quale medium che permette di trasfigurare il magma del reale in una «forma». Come farà dire a uno dei personaggi del dramma Calderón a proposito de Las meninas di Diego Velázquez (quadro che fu di grande importanza per Pasolini, attraverso Foucault): «...interroga l'autore, coinvolto anch’esso / nel mondo della nostra ricchezza, / e pur guardando da fuori del quadro, ne è dentro!».
Il procedimento strategico dell’autoritratto friulano richiama infatti, con tutta evidenza (ed è improbabile che il giovane studente di storia dell’arte non ne fosse consapevole), alcuni capisaldi della pittura seicentesca, considerati dalla critica attuale come splendide messe in scena metalinguistiche della pittura, quali L'atelier (conosciuto anche come Allegoria della pittura) di Jan Vermeer, o il già citato Las meninas di Velázquez, che Luca Giordano alla fine del ’600 avrebbe definito come «teologia della pittura», realizzandone anche una banalizzante derivazione Omaggio a Velázquez, nella quale inserisce a sua volta il proprio autoritratto, ma nella funzione già quattro-cinquecentesca (e teorizzata da Leon Battista Alberti) di deittico – e una strategia del genere di quella di Velázquez avrebbe elaborato anche Manet nel suo Bar alle Folie-Berger. Tutti dipinti nel quale la dinamica tra immagine e materia pittorica trova nella messa in scena del corpo del pittore al lavoro (in quello di Vermeer, di spalle) il proprio punctum chiastico. Del resto Piero Citati, in uno scritto del 1959, definendo Pasolini come un poeta «superbamente manieristico», avrebbe individuato i suoi paralleli pittorici proprio in artisti seicenteschi, dall'‘ovvio’ Caravaggio alle vertigini prospettiche di Andrea Pozzo.
Questo procedimento sarà esplicitamente ‘esibito’ in un film del 1971, con la seconda parte del Decameron, dove la storia degli affreschi realizzati a Napoli dal «miglior discepolo di Giotto», personaggio che viene interpretato dallo stesso Pasolini, funge da raccordo e cornice tra i diversi episodi. Un pittore che vaga per la città popolare, selezionando tra la folla i volti da utilizzare per il proprio affresco, isolandoli tra tutti col gesto dell'inquadratura tra le dita, mettendosi quindi in scena nella iconografia tipica (e in questo caso, anacronistica) del regista cinematografico. In questo caso il regista-poeta iscrive direttamente il proprio corpo come raccordo, all’interno dell’immagine (nel campo dell’inquadratura), tra la realtà popolare del presente e la sua poetica e sognata traduzione in un aldilà mitico sprofondato nel passato, secondo quella concezione di film «metaforico» elaborata nella preparazione del Vangelo secondo Matteo. E decide di farlo attraverso la messa in scena della ‘pittura’ – per eccellenza secondo lui (come scriverà nel 1962, nella presentazione di una mostra di Renato Guttuso) un’altra «lingua della poesia». Verso la conclusione del film, Pasolini-Giotto sogna infatti una messa in scena come tableau vivant del celebre Giudizio Universale affrescato da Giotto a Padova, nella controfacciata della Cappella degli Scrovegni. Forse è possibile interpretare in maniera analoga anche le discusse fotografie che Dino Pedriali scattò al poeta nella celebre torre di Chia, ritraendo Pasolini nudo che compie alcuni gesti tutto sommato quotidiani, ma inquadrato attraverso il vetro della finestra (ancora, il «diaframma») – se è vero che erano destinate ad illustrare il romanzo-satura Petrolio, per cui (nel testo che conosciamo) erano previste delle illustrazioni «probabilmente ad opera dell’autore stesso», ovvero «opere grafiche di alto livello, benché assolutamente manieristiche». L’epifania del proprio corpo come complicazione e presa di distanza intratestuale dalla prevedibile interpretazione in chiave autobiografica della figura del protagonista Carlo (del resto a sua volta sdoppiato).
L'immagine è, nella poetica pasoliniana, il vero e proprio ‘luogo’ di una appropriazione erotica (assumendo il termine con uno spettro semantico assai ampio) della realtà – tanto che in un romanzo giovanile, Amado mio, risalente alla seconda metà degli anni Quaranta, rimasto all’epoca inedito e pubblicato postumo nel 1982, elegiaca narrazione della propria educazione sentimentale «nei campi del Friuli», l'atto di ritrarre un ragazzo si configurerà come una vera e propria strategia di seduzione (tra i disegni giovanili conservati all’Archivio contemporaneo “A. Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux di Firenze, si trova il languido ritratto di un ragazzo che porta in calce la seguente dedica «al piccolo Giotto/ il suo Cimabue»). Attraverso l'immagine poteva distanziare da sé il plesso di passionalità e pulsioni da cui dichiarava di essere dominato nel suo sentimento verso il reale, oggettivarlo in maniera da essere sempre contemporaneamente interno ed esterno alla propria opera (anche la sua scrittura, specialmente quella narrativa, è eminentemente icastica). Anche quello che è stato definito come il suo «narcisismo», quando si esca dalle interpretazioni dettate da un approccio psicanalitico dozzinale, si configura piuttosto come una strategia di poetica da interpretare in tale senso. È stato scritto che il complesso dell'opera pasoliniana tende continuamente, e contemporaneamente elude, al modello dell'autobiografia. Forse sarebbe più esaustivo dire che tende al modello dell'autoritratto.
Bibliografia
M. Foucault, Le parole e le cose: un’archeologia delle scienze umane [1966], Milano, Rizzoli, 1967.
P.P. Pasolini, Amado mio, in Id., Amado mio, Atti impuri, con uno scritto di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1982.
P.P. Pasolini, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992.
P.P. Pasolini, Calderón, in Id., Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 2001.
Didascalia: P.P. Pasolini, Autoritratto (1941?) - Centro Studi Pier Paolo Pasolini, Casarsa della Delizia