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La presenza cinematografica di Ninetto Davoli nei film di Pasolini rappresenta un campo di tensioni estetiche e ideologiche. Prima di tutto apparendo nella vita e nelle opere di Pasolini quando stava perdendo la fede e l’amore nella realtà e nel sottoproletariato romano. Davoli è visto come un simbolo di sopravvivenza di grazia e purezza e, in alcuni scritti di Pasolini, come colui che è in grado di dar vita a momenti unici di espressione di felicità. Da Edipo Re (1967) in avanti, la sua figura appare come un Anghelos, un presagio del cambiamento e della sventura, in una crescente visione pessimistica della società.

Ninetto Davoli's cinematic presence in Pasolini's films constitutes a field of aesthetic and ideological tension. Firstly appearing in Pasolini's life and works when the author was losing faith and love in reality and in the Roman underclass, Davoli is seen as a surviving symbol of grace and purity and, in some of Pasolini's writings, he brings to life some unique moments of happiness. From Edipo Re (1967) onward, his figure appears as an Anghelos, a harbinger of mutation and misfortune, in an increasingly pessimistic view of society.

 


 

1. Costretti a essere

 

In queste celebri righe dell’Abiura dalla “Trilogia della vita”, scritte da Pier Paolo Pasolini qualche mese prima di morire e uscite postume, colpisce uno strano verbo: ‘costretti’. Chi costringeva, fino a qualche anno prima, i giovani sottoproletari romani, immondizia umana, imbecilli, squallidi criminali, vili inetti, a essere adorabili, simpatici e innocenti? La risposta è, mi pare, implicita nel testo (e a un passo dalla confessione): Pasolini stesso, il suo sguardo, e diciamo pure la sua logica del desiderio.

Da qui, forse, occorre partire per afferrare il senso ambiguo della presenza di Ninetto Davoli nel suo cinema. La figura dell’attore è indissolubilmente legata a quella del regista, è (insieme a quello di Franco Citti in Accattone) il volto con cui il suo cinema è spesso identificato. Eppure tra le due figure c’è un abisso. Il corpo, i gesti di Ninetto Davoli sono in Pasolini un campo di tensioni erotiche, estetiche e ideologiche: una creatura che miracolosamente appare mentre il suo mondo va scomparendo (o va morendo negli occhi e nel cuore del poeta), forse l’ultima speranza che i giovani e i ragazzi non siano, ‘già allora’, così e così.

Davoli arriva nel cinema di Pasolini, paradossalmente, quando questi, ben prima dell’abiura della Trilogia, sta dicendo addio al mondo delle borgate, al presente, a ogni forma per quanto complessa e contraddittoria di realismo. Si sta spingendo verso l’apologo, la favola, la parabola, il mito – ma si porta dietro, come un fantasma, Ninetto. Lo aveva conosciuto quattordicenne all’epoca delle riprese della Ricotta, lo fa comparire per la prima volta come pastorello nel Vangelo secondo Matteo e poi lo mette al centro della scena, a fianco a Totò, in Uccellacci e uccellini. In mezzo si è consumata una cesura, simboleggiata anche fisicamente dal crollo fisico e dal ricovero del poeta, nel marzo del 1966.

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Fra i vari film girati tra il 1967 e il 1970 (da Buñuel a Bertolucci, Garrel e Cavani), l’incontro dell’attore Pierre Clémenti con Pier Paolo Pasolini sul set di Teorema e poi per le riprese di Porcile (1969) diede il via a un legame artistico e personale fruttuoso anche sul piano delle riflessioni sulle relazioni fra attore, personaggio, regista, attorialità e cinema. La prova filmica pasoliniana, infatti, diede l’opportunità all’ex allievo di Marc’O di rompere le convenzioni con il teatro di parola, il naturalismo e l’approccio razionale per mezzo del linguaggio di un corpo adattabile in maniera plurale. Pasolini, dal suo canto, intrecciò – dai casting alla «performance della cinepresa» – il piano attoriale espresso da Clémenti come un «magma invisibile», in cui l’attore e la sua fisicità sono parte di un’unica materia cinematografica.

Among the many movies filmed between 1967 and 1970 (from Buñuel to Bertolucci, Garrel, and Cavani), actor Pierre Clémenti's encounter with director Pier Paolo Pasolini on the set of Teorema and later for the filming of Porcile (1969) marked the beginning of a successful creative and personal relationship as well as discussions on the relationships between actor, character, director, actorhood, and cinema. The former Marc'O's student had the chance to transcend Word Theatre, realism, and the rational approach conventions by using the language of his plural and adaptable body in Pasolini's film. For his part, Pasolini combined the actorly plan, expressed by Clémenti, as a «invisible magma», in which the actor and his physique are part of a larger cinematographic force.

 

«Je n’aime pas travailler. J’aime les aventures. C’était une période de retour à la beauté, de retour à la nudité aussi. […]. C’est une période où j’acceptais de faire des films seulement si je ne parlais pas dedans. J’ai aussi refusé le Satyricon de Fellini, parce qu’il me demandait de rester enfermé dans le studio pendant six mois, pour être à sa disposition» (Clémenti in Bonnaud 2000). Con queste parole Pierre Clémenti, «incarnation idéale de toutes les aventures de la modernité cinématographique» (Bonnaud 2000), ha rievocato – un anno prima di morire – quella che è stata indubbiamente la stagione più feconda della sua breve ma intensa carriera artistica, ovvero il triennio 1967-1970. Nel giro di pochi anni, infatti, l’ex-allievo di Marc’O – il cui magistero risulterà fondamentale nella formazione del suo stile – diventa la musa maschile del cinema engagé, offrendo alla cinepresa di Buñuel (Belle de jour, Bella di giorno, 1967), Bertolucci (Partner, 1968), Pasolini (Porcile, 1969), Garrel (Le lit de la vierge, 1970) e Cavani (I cannibali, 1970) il magnetismo inquieto di una presenza schermica che, come ha confermato la stessa Liliana Cavani, non aveva bisogno della parola per comunicare.

Quello di Clémenti è un corpo ambiguo, al contempo rabbioso e aggraziato, violento e fragile, maschile e femminile: da un lato lo sguardo tenebroso e i capelli corvini, tinti di biondo da Visconti per ingentilire il figlio del principe di Salina (Il gattopardo, 1963), dall’altro quel collo slanciato e quelle mani bianche che seducono, tra gli altri, proprio Pier Paolo Pasolini. Per il quale – come si legge nell’intervista concessa dal regista a Jean Duflot – la criminalità del personaggio di Porcile non è quella del selvaggio, ma quella dell’intellettuale, di un ribelle che – come il suo interprete – infrange leggi, tabù e convenzioni per salvaguardare la propria libertà. Tra le prime convenzioni trasgredite da Clémenti c’è proprio quella del teatro di parola, la cui tradizione secondo Marc’O – regista e drammaturgo vicino agli ambienti del surrealismo e del lettrismo – stava trasformando gli attori in semplici esecutori di un testo. Nella compagnia dell’American Center, frequentata – tra gli altri – anche da Bulle Ogier, Clémenti segue corsi di danza e impara a padroneggiare tutte le risorse della mimica, che Marc’O integra con suoni e musica dando origine a un «théâtre musical» dalla forte connotazione politica.

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Dopo l’abbandono del progetto da parte di Orson Welles per Tiresia per l’Edipo re, nel 1967 Pasolini si rivolse a Julian Beck del Living Theatre. Il cambio si rivelò uno stimolo per il ripensamento del personaggio sfruttando l’aura, la fisicità androgina e dissacrante dell’attore. In dialogo ma anche in autonomia rispetto alla comunità teatrale di appartenenza, Pasolini ricorrerà a una inaspettata sottrazione del corpo, al centro dell’attività dell’interprete, per esaltare la potenza sacrale ma anche umoristica del suo volto.

Pasolini engaged Julian Beck of the Living Theatre in 1967 after Orson Welles decided to back out of the performance of Tiresias for Edipo Re. The shift significantly contributed for reconsidering the role by utilizing the aura, androgynous physique, and disrupting the body language of Beck. In the dedicated scenes, Pasolini used an unexpected reduction of the body, which was at the center of the performer's activity, to amplify the holy but also humorous force of his face, acting both in dialogue with and independently from the theatrical group to which he belonged.

La scelta di Julian Beck per l’interpretazione di Tiresia in Edipo re è un ripiego in corso d’opera. Pasolini scrive la sceneggiatura pensando a Orson Welles, descrivendo il personaggio come un «vecchio uomo, grasso, pesante, segnato dalla vecchiezza su un viso restato infante» (Pasolini 2001a, p. 1006). L’idea è forse quella di tracciare un filo sottile tra i personaggi del regista della Ricotta e dell’indovino di Edipo re, uniti idealmente dalla sagacia dell’intellettuale che osserva stancamente l’inutile agitarsi dell’umanità, con «una dimensione morale, insaporita dall’intelligenza e dalla sua crudeltà consuete: sarebbe stato un Tiresia accusatore», come spiega a Jean-André Fieschi (Pasolini 2001a, p. 2924). Ma Welles rinuncia, optando negli stessi mesi per un altro Edipo re e un altro Tiresia: nell’estate 1967 partecipa infatti alle riprese del film Oedipus the King di Philippe Saville, in cui interpreta proprio il veggente cieco. Così, poco prima, nell’aprile 1967, nel bel mezzo della produzione, Pasolini deve cercare rapidamente un «ripiego» (Chiesi 2006, p. 20).

Proprio in quei giorni, dal 5 al 7 aprile, va in scena al Teatro delle Arti di Roma l’Antigone del Living Theatre, la compagnia che due anni prima aveva folgorato Pasolini con una pratica teatrale spregiudicata e coinvolgente, politica e rivoluzionaria, contribuendo alla nascita della stagione della sua scrittura tragica. Nello stesso teatro, l’8 e il 9 aprile il gruppo americano propone anche Le serve. È quasi inevitabile che la folgorazione si rinnovi: Pasolini invita a cena Judith Malina e Julian Beck, di cui elogia l’interpretazione femminile nelle Serve, e propone all’attore di partire subito per il Marocco per interpretare Tiresia, promettendo non solo una regolare paga ma anche, come ricorderebbe Francesco Leonetti (che nel film interpreta il servo di Laio), «un camioncino» (Boriassi 2017-2018, p. 76). Beck accetta, previa «cortese concessione del Living Theatre», come si legge nei titoli di testa: «senza il consenso del clan, infatti, Julian non si può allontanare dalla sua comunità di vita e di lavoro» (Possamai 2011, p. 44).

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Laura Betti vive a fianco di Pasolini un’avventura artistica esaltante che la porta a esplorare un modo ‘paradossale’ di recitare davanti alla macchina da presa. Il suo stile rimane inconfondibile e si caratterizza per un mix spregiudicato di mimica ed espressività vocale. I ruoli interpretati nel cinema di Pasolini ci consegnano i tratti di una personaggia ingenua e ambigua allo stesso tempo, autentica e camaleontica.

Laura Betti lives alongside Pasolini an exciting artistic adventure that leads her to explore a 'paradoxical' way of acting in front of the camera. His style remains unmistakable and is characterized by a mix of facial expressions and vocal expressiveness. The roles played in Pasolini's cinema give us the traits of a naive and ambiguous character at the same time, authentic and chameleonic.

  Ho fatto circa cinquantacinque film e mi pare di aver capito, solo ora, che per quanto io abbia ben nascosto la parte di me che sono io, evitando eccessive confusioni con il mio doppio programmato mica male proprio da me, Pier Paolo riusciva a capirmi (spesso non me ne accorgevo e lo negavo beffardamente) meglio di chiunque altro (Betti 1991, p. 189).

 

Il rapporto simbiotico fra Betti e Pasolini raggiunge sul set livelli di intensità non comune, testimoniati dagli scatti dei fotografi di scena, da dichiarazioni, interviste, tutte impronte di un frammentario discorso amoroso che si ricompone poi nell’assolutezza dei fotogrammi. Lungi dall’essere solo ‘tracce vaporose’ (Nacache 2006, p. 19) di una mitografia leggendaria e inafferrabile, questi documenti rinviano alla concretezza di un rapporto di complicità capace di illuminare lo stile del regista, di sollecitarne l’ispirazione fino al punto di sospendere le riprese di Teorema in attesa che Betti si convinca a interpretare Emilia. Questo episodio è solo uno dei tanti aneddoti che è possibile ripescare grazie alla spinta affabulatoria di Betti, sempre pronta a suggerire nuovi spunti pur di ribadire in pubblico la forza del suo legame con Pasolini, ma ciò che più conta è la reciprocità dello scambio performativo e artistico, ovvero la possibilità per il regista di ‘giocare’ con le diverse maschere della sua ‘pupattola bionda’. La relazione artistica fra Betti e Pasolini appartiene allora a quelle che Nacache definisce «associazioni privilegiate» (Nacache 2003, p. 79), contraddistinte da un’intesa ‘amorosa’, una collaborazione appassionata. Quel che scaturisce da tali ‘associazioni’ è «la permanenza di uno sguardo su un volto» (ibidem) e con essa una galleria di piani e sequenze che contrappuntano la declinazione dell’atto cinematografico. Per capire quali siano gli effetti della prolungata esposizione dell’attrice allo sguardo del suo ‘autore’ basta ancora una volta affidarsi alle sue dichiarazioni, sempre puntuali nel riferire la natura del loro legame.

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Partendo da alcune osservazioni sull’attorialità nel teatro contenute nel Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, il contributo approfondisce, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e le riflessioni relative a funzione e pratica dell’attore teatrale.

Starting from some observations on theatrical actorship contained in Manifesto per un nuovo teatro of Pasolini, the article explores, in particular, the difference between Pasolini’s ideas on the nature of cinematographic actorship and the thoughts related to the function and the practice of theater actor. 

 

Benché non abbia mai trattato il tema in maniera sistematica, Pasolini ha elaborato una serie di riflessioni sulla sua pur limitata esperienza di attore, di spettatore che assiste a differenti performance attoriali sia in sede teatrale sia cinematografica, e soprattutto sulla sua pratica di direttore di attori nonché di responsabile del casting dei propri film, dalle quali è possibile estrapolare una vera e propria teoria dell’attore. È quanto hanno dimostrato ampiamente Stefania Rimini e Maria Rizzarelli in un loro recente saggio (2021), riccamente documentato e articolato.

Le considerazioni che seguono, in certi casi, ne riprendono le suggestioni, cercando di integrarle approfondendo, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e quelle relative a funzione e pratica dell’attore teatrale. La vastità del tema e l’estemporaneità delle considerazioni di Pasolini, recuperate da una pluralità di fonti eterogenee, rendono impossibile qualsiasi pretesa di sistematicità, che può essere invece recuperata in interventi specifici sul rapporto con particolari figure di attori ai quali Pasolini era particolarmente legato. Ci auguriamo che le riflessioni proposte possano essere considerate una sorta di ‘secondi sondaggi’ per una doppia teoria pasoliniana dell’attore, il cui valore euristico consiste principalmente nel far affiorare con maggiore evidenza la distanza che separa, nella sua concezione, il cinema dal teatro, non solo sotto il profilo semiologico e culturale ma – verrebbe da dire – ontologico ed esistenziale.

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Il contributo intende indagare la nascita e lo sviluppo di una ‘iconografia pasoliniana’ attraverso un percorso che intersechi espressioni verbali e visuali, seppure nella ovvia impossibilità di prendere in considerazione tutte le testimonianze. Si vedrà come la definizione di questa immagine ‘mitica’ sia stata consapevolmente ricercata e orchestrata dallo stesso Pasolini: ossessione narcisistica e tensione manierista ne hanno infatti accompagnato la vita e l’opera sin dagli esordi (poetici, narrativi, pittorici). Nell’ultimo paragrafo verranno prese in considerazione tre immagini realizzate rispettivamente da Tullio Pericoli, Tommaso Pincio e Ernest Pignon-Ernest con lo scopo di esemplificare alcune delle modalità di ricezione contemporanea del volto e del corpo pasoliniani in relazione a costanti e varianti.

This contribution investigate the birth and development of ‘Pasolini’s iconography’ through a path that intersects verbal and visual expressions, despite the obvious impossibility of taking into consideration all the testimonies. We will see how the definition of this ‘mythical’ image was consciously researched and orchestrated by Pasolini himself: narcissistic obsession and mannerist tension have in fact accompanied his life and work from the very beginning (in poetry, narrative, painting). In the last paragraph, three images created respectively by Tullio Pericoli, Tommaso Pincio and Ernest Pignon-Ernest will be considered with the aim of exemplifying some of the methods of contemporary reception of the Pasolini face and body in relation to constants and variants.

 

Non Narciso, lo specchio

brilla nel verdecupo

prato della mia morta

fanciullezza di lupo…

 

Pier Paolo Pasolini

 

Core stava guardando il narciso.

Guardava il guardare.

 

Charles Simić

 

 

1. «Così mi sarei innamorato solo dei suoi occhi»

 

 

Con queste parole Federico Zeri, tra i più celebri critici d’arte italiani, traccia un ritratto per verba di Pier Paolo Pasolini, un ritratto in soggettiva ove la parzialità e la contraddittorietà delle percezioni sensoriali (l’udito, il tatto) sono sintetizzate nella visione unitaria «di una bellissima statua greca in bronzo caduta da un autotreno, sull’autostrada e ammaccata». L’ekphrasis di Zeri, interamente fondata sul registro dell’antitesi, cerca di restituire l’enigma del volto pasoliniano (inteso quale sineddoche dell’uomo e dell’artista) attraverso la densità semantica dell’immagine conclusiva, esito dell’incontro perturbante tra le rovine di una bellezza classica e la modernità che le degrada.

L’ammaccatura citata da Zeri, fuor di metafora, potrebbe peraltro riferirsi a quello che è il dettaglio fisiognomico più caratteristico e connotante del ‘volto-icona’ pasoliniano: gli zigomi sporgenti. Segno iconografico che si è scelto di utilizzare in questa prima parte quale traccia, insieme visuale ed ermeneutica, per dipanare il filo di un discorso che intreccia i ‘ritratti-ricordi’ altrui agli autoritratti giovanili (scritti e dipinti) per giungere, nell’ultimo paragrafo, a indagare alcune reinterpretazioni contemporanee di quelli che sono ormai divenuti un volto e un corpo simbolici e perciò riutilizzabili, soggetti a variazioni e alle più disparate forme di appropriazione.

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Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.

Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.

Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.

La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

Non sappiamo se Andrea Zanzotto e Laura Betti abbiano mai avuto occasione di conversare «a lungo» intorno a Teta Veleta ma è indubbio che in queste poche righe si concentri il nucleo di senso di un romanzo che a distanza di quarant’anni resta una sorta di rompicapo tanto per gli studiosi di letteratura quanto per gli storici del cinema e del teatro, perché tutte le etichette franano di fronte a una materia incendiaria, ‘de-scritta’ in una lingua prodigiosamente azzardata. Il tono con cui Zanzotto apostrofa Betti è il primo indizio della profonda consonanza fra i due, della reciprocità di un rapporto coltivato all’ombra di Pasolini ma proseguito poi oltre il fatidico muro del 2 novembre 1975 attraverso formule di stima e tenerezza reciproca, che i frammenti epistolari consentono di mettere in chiaro. L’appellativo «realfantomatica» fonde con arguzia il tratto naturalistico, terragno, della «pupattola bionda» (Pasolini 1971) con la strenua propensione al mascheramento di sé, al gioco indiavolato di pose e stili, forse la dote più interessante del suo profilo di attrice, stretto fra immedesimazione e disincanto. L’essere ‘realfantomatica’ di Betti rimanda infatti a quel paradosso («Non ho mai capito la reale differenza tra recitare ed esistere», Betti 2002) con cui ha attraversato l’industria culturale del nostro Paese, mostrando una spiccata vocazione internazionale e giungendo a scandire il proprio idioletto fino alle estreme conseguenze: «fare l’attrice significa cambiar pelle, ma anche dimenticare, rimuovere ciò che si è e non piace essere» (Del Bo Boffino 1979). Al netto delle contraddizioni e degli infingimenti, Betti approda alla ‘scrittura romanzesca’ per sperimentare un esercizio di «autoanalisi» (Betti 2006, p. 38), che celebra un ingombrante cortocircuito fra autrice e personaggio.

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«Affascinante come un romanzo, documentato come un saggio accademico». La prima riga del risvolto di copertina che accompagna il nuovo libro di Alessandra Sarchi suggerisce immediatamente un quesito che i teorici della letteratura ci hanno insegnato a porci in modo quasi automatico e prioritario: a quale genere del discorso appartiene il testo che stiamo leggendo? La medesima riga, nel suscitare tale interrogativo, pare delimitare anche gli estremi dello spettro di possibilità: il romanzo, narrazione ‘affascinante’ per la sua capacità di avvincere chi legge, e il saggio accademico, rigoroso nel suo processo di ‘documentazione’. Le due tesi implicite che gli editori del testo di Sarchi sembrano avallare contrapponendo i due aggettivi corrispondono all’opinione generale nei confronti tanto dell’uno quanto dell’altro genere: il romanzo è associato al mondo della finzionalità, della ‘fantasia’ (intesa come facoltà immaginativa) su cui di norma si fonda gran parte del suo potere affabulatorio; si pensa al saggio accademico come a un qualcosa che, invece, sacrifica ogni velleità creativa a favore della documentazione che deve essere statutariamente manifesta in numerosi punti del testo (note a piè di pagina, citazioni da altri saggi, riferimenti interni, bibliografia finale ecc.), in nome di una scientificità che sempre più deve essere resa esplicita a fronte dei complessi procedimenti valutativi in seno alle istituzioni accademiche.

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