Per niente candida… Laura Betti attrice-musa di Pasolini in cinque fotogrammi

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Laura Betti vive a fianco di Pasolini un’avventura artistica esaltante che la porta a esplorare un modo ‘paradossale’ di recitare davanti alla macchina da presa. Il suo stile rimane inconfondibile e si caratterizza per un mix spregiudicato di mimica ed espressività vocale. I ruoli interpretati nel cinema di Pasolini ci consegnano i tratti di una personaggia ingenua e ambigua allo stesso tempo, autentica e camaleontica.

Laura Betti lives alongside Pasolini an exciting artistic adventure that leads her to explore a 'paradoxical' way of acting in front of the camera. His style remains unmistakable and is characterized by a mix of facial expressions and vocal expressiveness. The roles played in Pasolini's cinema give us the traits of a naive and ambiguous character at the same time, authentic and chameleonic.

 
Ho fatto circa cinquantacinque film e mi pare di aver capito, solo ora, che per quanto io abbia ben nascosto la parte di me che sono io, evitando eccessive confusioni con il mio doppio programmato mica male proprio da me, Pier Paolo riusciva a capirmi (spesso non me ne accorgevo e lo negavo beffardamente) meglio di chiunque altro (Betti 1991, p. 189).

 

Il rapporto simbiotico fra Betti e Pasolini raggiunge sul set livelli di intensità non comune, testimoniati dagli scatti dei fotografi di scena, da dichiarazioni, interviste, tutte impronte di un frammentario discorso amoroso che si ricompone poi nell’assolutezza dei fotogrammi. Lungi dall’essere solo ‘tracce vaporose’ (Nacache 2006, p. 19) di una mitografia leggendaria e inafferrabile, questi documenti rinviano alla concretezza di un rapporto di complicità capace di illuminare lo stile del regista, di sollecitarne l’ispirazione fino al punto di sospendere le riprese di Teorema in attesa che Betti si convinca a interpretare Emilia. Questo episodio è solo uno dei tanti aneddoti che è possibile ripescare grazie alla spinta affabulatoria di Betti, sempre pronta a suggerire nuovi spunti pur di ribadire in pubblico la forza del suo legame con Pasolini, ma ciò che più conta è la reciprocità dello scambio performativo e artistico, ovvero la possibilità per il regista di ‘giocare’ con le diverse maschere della sua ‘pupattola bionda’. La relazione artistica fra Betti e Pasolini appartiene allora a quelle che Nacache definisce «associazioni privilegiate» (Nacache 2003, p. 79), contraddistinte da un’intesa ‘amorosa’, una collaborazione appassionata. Quel che scaturisce da tali ‘associazioni’ è «la permanenza di uno sguardo su un volto» (ibidem) e con essa una galleria di piani e sequenze che contrappuntano la declinazione dell’atto cinematografico. Per capire quali siano gli effetti della prolungata esposizione dell’attrice allo sguardo del suo ‘autore’ basta ancora una volta affidarsi alle sue dichiarazioni, sempre puntuali nel riferire la natura del loro legame.

 

Nella famiglia di non attori che appartenevano al cinema di Pasolini come Franco Citti, Mario Cipriani e altri, tu, oltre ad essere l’unica attrice professionista, fin dai primi film hai continuamente cambiato identità e aspetto da una pellicola e l’altra. Mentre Ninetto Davoli è sempre Ninetto, il ragazzo furbetto, allegro e innocente; il Franco Citti di Accattone e Mamma Roma rimane, più o meno, sempre una variante di se stesso […] i tuoi personaggi cambiano continuamente…
È vero, sì, è vero. La verità è che lui non voleva magari ammetterlo, ma di riffa o di raffa, la sola attrice per lui ero io. E giù scenate se per caso io dicevo no ad una sua proposta. Come è stato per Teorema. Ogni volta, da parte sua, mi giungeva una proposta differente dall’altra. Ogni volta mi vedeva in un modo, o in un altro, o in un altro ancora (Betti 2004, p. 52).

 

La girandola di trasformazioni che Pasolini impone alla sua musa lascia intendere che tra loro sia scattata fatalmente una vera e propria tensione ‘pigmalionica’, che però – col tempo – subisce un ribaltamento di canone, dal momento che dopo la morte dello scrittore sarà Betti a custodirne la memoria, a ricrearne il mito. In ogni caso vale il principio della «fusione feticistica» (Nacache 2003, p. 80), vissuta a tutto campo, fuori e dentro il set, in ordine a un’unica regola, ancora una volta paradossale. Ai microfoni di Claudio Liccoccia, infatti, l’attrice confessa il segreto del suo sodalizio artistico, l’obbedienza agli insegnamenti del maestro, introiettati come verità assoluta.

 

Ti sei sentita te stessa? Non hai avuto bisogno di recitare…
Non ho mai capito la reale differenza tra recitare ed esistere. Pier Paolo mi ha insegnato che non ha nessun senso recitare… La realtà la devi veramente possedere. Devi trasmettere al pubblico la realtà. Se no cosa vuoi trasmettere: la televisione? (Betti 2002)

 

Betti risente dell’ipoteca pasoliniana sugli attori professionisti (cfr. Rimini, Rizzarelli 2021), accetta l’invito a «possedere la realtà», ad aderire senza mediazioni ai ruoli, scovando per ognuno di essi una radice che ne riconduca a sé il carattere o il destino. L’induzione pasoliniana a non recitare ha sicuramente influito nella costruzione del suo modus di attrice, ha contribuito a orientare la sua presenza verso una naturalezza «primitiva» (Nacache 2003, p. 63), che rimane probabilmente il segno di performance più ricorrente della sua postura cinematografica.

Il corpo a corpo con Pasolini, da cui si lascia guidare quasi senza esitazioni, produce allora un modello performativo per certi aspetti inconsueto, perché riesce a portare «l’ordinario nello straordinario, il familiare nel meraviglioso» (ivi, p. 103), dando vita a delle personagge impreviste e imprevedibili. Se ne La ricotta è facile sentire il suo ruolo come una esibita autocitazione dello status di diva, in Che cosa sono le nuvole? la ‘gatta’ Desdemona spinge verso la connotazione simbolica di una natura figurale, dal carattere sperimentale e metalinguistico, mentre in Teorema la sua interpretazione oscilla tra l’astrazione metaforica e l’idea di una corporeità aperta, antropologicamente segnata da un fibra che eccede i limiti della rappresentazione. La terra vista dalla luna è poco più di un divertissement, in cui è in ballo il piacere del travestimento, nei Racconti di Canterbury invece risuona la carica ludica, grottesca della giaguara, il suo essere provocatoriamente oltre la misura del linguaggio.

A unire ruoli così diversi è l’unicità di una tensione che si autoalimenta, che divora cliché e rigidità posturali per affidarsi totalmente a «emozioni immediate e non riflesse» (Betti 1979, p. 41), sebbene debitrici spesso delle intuizioni del suo «visitatore» (Betti 1991, p. 189). Nel ricevere da Pasolini le indicazioni per girare Betti mostra un senso di affidamento totale, che rende misteriosa ogni sua posa, emanazione diretta di un’intesa che pare trascendere le ragioni dell’arte e sconfinare in un atto di dedizione assoluta. È qui, in questa fatale predisposizione a essere la parte, che si coglie lo scarto fra Betti e gli altri interpreti, la distanza fra mestiere e rivelazione. Per cogliere fino in fondo tale ‘mirabile artificio’ si proverà a comporre un esile atlante dei gesti bettiani prelevando cinque fotogrammi dall’arsenale del cinema pasoliniano: senza alcuna pretesa di esaustività, questa mappa rinvia all’ ‘indiavolato nascondino’ nel quale l’attrice ha trascinato lungo tutta la sua carriera maschere e volto.

 

1. Diva e (Ma)donna

Il primo tassello di questa volontaria galleria di piani bettiani appartiene a La ricotta (1963), film che mette a tema alcune delle ossessioni pasoliniane (il senso del sacro, l’amore per il sottoproletariato, la critica all’industria culturale, la foga metalinguistica) e prefigura gli azzardi stilistici del cinema a venire. Nel breve intervallo di una trama fin troppo scoperta compare una figura sghemba, altera, che risponde alle logiche pigmalioniche del rapporto fra l’attrice e il regista. L’invenzione della diva Sonia scaturisce infatti dalla possibilità di sfruttare la sua allure, il graffio della sua personalità, capace di aderire alle regole del gioco e di profanarle con ironia.

 

Era uno dei primi film, uno dei tanti film senza denaro. Ma le ansie e le angosce di Pier Paolo erano bellissime e mi ci divertivo pazzamente. La sua furia creativa era di per sé uno spettacolo e già questo mi bastava. Poi c’erano le beate ferme convinzioni. Chi meglio di me poteva interpretare il ruolo di una Diva? Nessuno, ovvio. Sia per me, che per Pier Paolo. Malgrado i supplì al posto del caviale e i miei abitini neri un po’ lisi che però mi davano quel certo non so che con l’aiuto di un collettino bianco da vera allumeuse. Sì, malgrado tutto (Betti 1991, p. 152).

 

Betti entra senza sforzo nel carattere del personaggio, contraddistinto da un’ambiguità di fondo che non sfugge allo sguardo critico di Roberto Chiesi: «la giovane diva de La ricotta […] ombrosa e solitaria, che si accende in formidabili crisi isteriche quando si sfilaccia la disciplina degli altri attori durante le riprese, è senz’altro un personaggio nutrito della reale fisionomia dell’attrice, perfino in alcuni segni esteriori come il disegno del trucco intorno agli occhi» (Chiesi 2005, pp. 13-14). L’inclinazione che assume la figura nel quadro della narrazione autorizza infatti puntuali sovrapposizioni tra bìos e performance: l’alterigia di Sonia ricalca da vicino la spregiudicatezza di Betti mentre l’arco dei gesti e delle espressioni del volto annuncia il tono di interpretazioni future, spesso eccedenti e sopra le righe per emozione e violenza.

La prima epifania di Sonia/Betti si ha nei minuti iniziali del film e basta a rivelare la vocazione della personaggia: incorniciata dentro una nicchia ricavata da maldestre attrezzerie, Sonia è seduta, con la testa leggermente di profilo e lo sguardo fuori asse; accarezza il suo cane bianco e sembra non volersi mescolare ai riti volgari dell’intervallo fra un ciak e l’altro [fig. 1]. Stretta dentro una mantella nera, col capo coperto da un basco di lana, appare distante e infastidita, bloccata nell’attesa di entrare in scena. Se ai bordi della scena Sonia/Betti incarna il graffio disarmante della star, capricciosa e veemente anche nei confronti del regista, all’interno del tableau a colori la sua immagine appare improvvisamente levigata: le virgole pesanti del trucco sono scomparse, sostituite da un’ombra lieve d’azzurro, le calcolate cromie dei costumi, e dei panni che avvolgono il corpo, sembrano trasformarla in esemplare statua votiva. Nello spazio fantasmatico del film nel film, il controcampo manierista modellato questa volta sul quadro di Pontormo, la posizione di Betti cambia sensibilmente, non è più a margine della croce ma rappresenta il vertice della figurazione. Avvolta da drappi turchini [figg. 2-3], plasticamente realizzati da Danilo Donati, l’attrice sembra riuscire a esprimere la contrizione del dolore per la deposizione di Gesù: la sua immedesimazione nei panni di Maria sembra pienamente credibile ma l’ennesima gag delle comparse scatena una violenta reazione, che altera la mimica del volto e le fa assumere una posa sgraziata, anticanonica. Questo contrappunto, oltre a rappresentare un chiaro segno dell’azzardo compositivo di Pasolini, sintetizza la natura metamorfica di Betti, capace di essere contemporaneamente «“una” e “un’altra”, “una” che adora, e “un’altra” che sputa sull’oggetto adorato; “una” che mitizza e “un’altra” che riduce» (Pasolini 1979, p. 7).

 

2. Sex appeal dell’(in)organico

Per ragioni di spazio non è possibile indugiare sui brevi fotogrammi de La terra vista dalla luna (1967), sebbene lì ci si trovi davanti a una radicale trasfigurazione del sembiante corporeo di Betti e dunque a un deciso scarto rispetto all’immagine corrente, anche per effetto del travestimento in abiti maschili. Si tratta di un’apparizione fugace, ancorché decisiva in termini diegetici, condita da una serie di gustose dichiarazioni dal set della stessa Betti, a ulteriore riprova del grado di affinità fra i due. Con Che cosa sono le nuvole? (1967) Pasolini aggiunge un tassello importante alla costruzione dell’identità performativa di Betti, concedendole un ruolo tragico – la fatale Desdemona – che però nell’economia stilistica del racconto si carica di sfumature grottesche, sia per l’ennesima trovata metalinguistica (lo spettacolo di burattini in carne e ossa alla presenza di un pubblico festante e rumoroso) sia per la declinazione di una femminilità insieme virginale e maliziosamente seduttiva. Pur non volendo sulle prime accettare questa parte, Betti asseconda le disposizioni del suo mentore per via delle ovvie analogie con la donna di Otello («C’era da fare Desdemona e Desdemona ero io e basta», Betti 1991, p. 278), che le garantivano di corrispondere senza sforzi al progetto. Si tratta anche in questo caso di un ruolo apparentemente secondario che però le consente di sprigionare una energia erotica inconsueta, perché giocata sul filo dell’ironia, di una doppiezza calcolata e spumeggiante.

La sua è allora una Desdemona languida e svanita, carezzevole e ingenua, intenta ad esibire la morbidezza delle curve e a superare dunque l’ipoteca del pezzo di legno. La preminenza del corpo come radice della sua espressività invita a leggere l’arco parabolico della personaggia nei termini di una possibile ‘critica anatomica’: il disegno dei gesti e delle pose, le sfumature del volto e dello sguardo, l’uso modulato della voce, con striature dialettali mollemente cadenzate, offrono un catalogo di segni di performance che vanno inquadrati alla luce di quella «ferocia felina» che Risset adduceva come tratto caratterizzante della sua attorialità (Risset 2006, p. 9). Betti alterna espressioni smagate con altre scopertamente sensuali, mostrando di saper dar corso all’immagine di «bambina fatale» (Pasolini 2001, p. 986) descritta nella sceneggiatura.

 

Desdemona si è messa vezzosamente alle orecchie, al posto dei sontuosi orecchini della scena precedente, degli orecchini fatti con due ciliegie attaccate allo stesso gambo, come fanno i bambini. E come una bambina guarda tutta innocente, e piena di candida malizia romantica, il suo innamorato. […] Otello si mangia, pieno di significati erotici, una delle due ciliegie; e poi offre l’altra a Desdemona, facendo l’atto di imboccarla. Anche stavolta lei fa deliziosamente la smorfiosa, come si vergognasse, infine accetta, e si lascia mettere in bocca la ciliegia, arrossendo tutta, abbassando gli occhi, stringendo pudica le spalle (ivi, p. 945).

 

La smorfia sembra essere l’unità di misura di questa recita al quadrato in cui tutto è spinto oltre il limite del pudore, anche se poi l’accesa sensualità degli scambi non scade mai in bieca volgarità ma alleggerisce lo spettro tragico della vicenda. Betti si muove lungo l’arco del proscenio con vivace candore, la sua aria smagata è sublimata dal trucco e dagli abiti; ignara della astuzia sardonica di Jago, si abbandona al gioco della seduzione amplificando gesti ed espressioni, incoraggiata dal suo Otello, con il quale condivide procaci siparietti. La relazione con Otello/Ninetto si consuma infatti nel segno di un morbido erotismo, gonfio e succoso come le ciliegie, protagoniste di una sequenza candidamente maliziosa [fig. 4]. Betti appoggia la sua interpretazione sulla variazione di accenti tonali e sulla mobilità degli occhi e del volto, raggiungendo così l’intensità di una ‘gattina’ ora istintiva e inconsapevole ora invece ammiccante e seduttiva. Nei panni di Desdemona è una marionetta di carne, burrosa e tenera, allegra e saltellante, sempre più somigliante al miraggio dell’archetipo felino, in bilico fra graffi, assalti e fusa.

 

3. L’importante è finire…

La verginità contraffatta di Desdemona è la premessa per una doppia metamorfosi: per interpretare Emilia, Betti è costretta a cambiar pelle, il suo caschetto biondo viene cancellato da una parrucca e tutto l’asse performativo subisce un radicale ribaltamento, che le varrà – come è noto – la coppa Volpi. Se il corpo utopico di Emilia rappresenta il punto di non ritorno dell’avventura artistica di Betti e Pasolini, l’ultimo tassello della loro collaborazione non manca di rilevare tratti inediti dell’attrice-personaggia, e così è possibile inquadrare la Donna di Bath nel segno di una seconda trasformazione rispetto all’energia ludica già espressa dalla marionetta shakesperiana.

Dentro le torbide bolge dei Racconti di Canterbury (1973) la giaguara si trova ad attraversare una soglia proibita, a incarnare un ruolo che enfatizza la sua carica grottesca e amplifica la licenziosità di gesti e pose. In questo film girato secondo uno stile che lo stesso Pasolini non esita a definire «frontale, rigido, ieratico» (Pasolini 2001, p. 1570), il passo felpato di Betti si appesantisce mentre il suo volto assume un’aria greve, solo a tratti sublimata da una furia libidinosa che scivola verso il non sense. Le tetre atmosfere del racconto sono però sublimate dalla presenza vigile e consolatoria dei suoi attori-feticci:

 

Poi nel film c’è Laura Betti, Ninetto Davoli e Franco Citti, cioè i personaggi in un certo senso magici, Plutone, Proserpina, i Diavoli; li ho fatti mediterranei. Per non ricorrere a falsità, manipolazioni, per non doverli truccare, vestire da… mi è bastato schiaffare in un giardino inglese, abitato da inglesi, un romano e un’emiliana e la magia era raggiunta di per sé (Pasolini in Betti 1991, p. 274).

 

Qui Pasolini sembra tornare alla ricetta base del suo cinema («Scelgo un attore per quello che è e non per quello che ha l’abilità di sembrare»), ma giunge a forzare l’agency dei suoi interpreti e a traghettarli verso toni più stridenti, più acuti. I pruriti e l’ironia dell’emiliana servono allora a costruire il profilo della Donna di Bath, personaggia eccedente, smaliziata, sempre in preda a una loquacità sboccata, che ben si attaglia alla sua divertita spudoratezza. Il patto fuori e dentro al set resta invariato; Betti sa di non poter rinunciare a questo ruolo («Anche per i Racconti di Canterbury Pier Paolo non aveva dubbi. Io ero la Donna di Bath e nessun’altra poteva esserlo. Però quella di Chaucer, fedelmente riscritta da Pier Paolo in sceneggiatura» - Betti 1991, p. 278) e si affida alle invenzioni di Pasolini, dedito a un imponente lavoro drammaturgico e di ripresa. Betti si trova a dover smaltire i postumi di un trauma cranico che le provocano distonie neurovegetative («Lui se ne accorgeva quando stavo male e si sedeva vicino, mi prendeva una mano e mi spiegava […] che era tutto passato»), ma questo non impedisce alla variopinta brigata d’attori di «formicolare per campagne, vallate e cittadine, allegra, sfrenata, nell’attesa mai delusa di vedere un sogno trasformarsi in realtà» (ibidem).

Per ragioni produttive Pasolini rinuncia alla sequenza della lunga carovana dominata dalle chiacchiere della Dona di Bath e così Betti entra nel film per effetto di una sottrazione imprevista, che riduce la portata della sua azione. La sua parte però rimane tenacemente ancorata alla vivacità delle espressioni facciali, alla mutevolezza dello sguardo, e soprattutto alle sfumature tonali della voce, vero e proprio strumento di seduzione e inganno [fig. 5]. Le linee simboliche della Donna di Bath gravitano, infatti, intorno al campo semantico della passione, chiamano in causa la genitalità, una certa prepotenza stregonesca; la vis comica rimane entro il recinto di prevedibili stereotipi, sublimati però dalle intermittenze performative di Betti. È il suo estro umoristico a dominare incontrastato, a permettere continue variazioni di tono, grazie anche a una dizione impeccabile, che il doppiaggio, leggermente fuori sincrono, contribuisce ad esaltare. I doppi sensi, le accese incursioni erotiche, le occhiate strabuzzanti e licenziose, disegnano una postura mobile, disinibita, che raccoglie l’inclinazione dialettale del timbro vocale, ed esalta il peso di una robusta fisicità, arrotondata dalle ampie pieghe dei costumi. Betti trova nell’ampio spettro del suo repertorio le risorse per incarnare il destino della personaggia, un essere burlesco, pantagruelico, segnato da una fame erotica spropositata ma capace anche di dominare gli altri attraverso astuti giochi linguistici: il suo show è quindi, alla fine, una straripante giostra retorica, a cui si accompagna un cumulo di trovate clownesche, lascito di una carriera vissuta pericolosamente fra paillettes e lustrini, bricolage dialettali e invenzioni a basso costo. Nel giro di pochi anni la sua star persona avrebbe raggiunto altri traguardi – grazie al talento e alla complicità di Bellocchio, Bertolucci, Monicelli (solo per citare alcuni registi cari alla sua memoria) – ma in nessun caso si sarebbe eguagliato il privilegio di quell’«amore immaginario» (Betti 1995) che li aveva portati a ‘reinventare’ la vita.

 

 

Bibliografia

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L. Betti, ‘C’était un être solaire’, l’Humanité, 2 novembre 1995.

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