2.5. Teorema e il corpo utopico di Laura Betti

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Fin dall’esordio con Accattone Pasolini manifesta la volontà di mettere in quadro corpi e luoghi non canonici, appartenenti alla barbarie delle borgate e riprodotti secondo quel principio di «sacralità tecnica» che avrebbe segnato il primo lungo movimento del suo racconto per immagini. Del resto la sua personalissima idea di cinema «come lingua scritta della realtà» (stando alle teorizzazioni raccolte in Empirismo eretico) ha sempre posto al centro della messinscena il risalto dei volti, degli sguardi e dei gesti dei ‘suoi’ attori, primo fra tutti Franco Citti, destinati a divenire icone di un’umanità arcaica, fuori dal tempo, autenticamente innocente sebbene marcata da desideri brucianti, almeno fino alla svolta neocapitalistica degli anni Sessanta.

Pasolini è stato l’intellettuale e l’artista italiano che più di tutti ha «gettato il proprio corpo nella lotta», esponendo se stesso, la propria carnalità, come esempio e monito, attuando fino all’ultimo una feconda strategia comunicativa che ha trovato nella parresìa, cioè nella libertà di «un dire tutto, un dire diverso, un dire l’altro» (Bazzocchi 2017, p. 11), il punctum di quello che possiamo definire, con Roberto Esposito, il suo «pensiero vivente» (Esposito 2011, p. ), la sua visione biopolitica.

Nel contesto della filmografia pasoliniana Teorema mostra un tasso di ambiguità e una potenza descrittiva uniche, anche per via del frangente cronologico in cui si colloca, nel cuore cioè di quel fatidico ’68 che Pasolini vive in controtendenza, schierandosi con la poesia Il PCI ai giovani dalla parte dei poliziotti e non degli studenti ribelli e inaugurando nuove modalità di messa in crisi dell’ordine borghese. Trattandosi di un’opera doppia, per l’articolazione in forma letteraria e filmica, Teorema offre un campo di indagine frastagliato e complesso, soprattutto per la presenza sulla pagina e sullo schermo di sei personaggi e sei corpi ad altissima densità spettrografica, capaci di declinare – grazie a una dirompente tensione visiva – una molteplicità di gesti, sentimenti, e ferite identitarie.

Teorema rappresenta il primo atto di un sistema discorsivo fondato sulla stretta convergenza fra nudità, desiderio e sessualità: l’irruzione dell’ospite nella famiglia borghese fa sì che le chiuse identità dei singoli vengano scardinate dalla violenza sacra dell’eros, unica forma di comunicazione possibile per testimoniare lo scandalo della diversità.

La forza dimostrativa del ‘teorema’ risiede allora nel «fatalismo viscerale» (Ferrero 1977, p. 102) che percorre il film dalla prima all’ultima inquadratura, secondo un ritmo visivo che esalta il carattere iconico e simbolico del primo piano ma non esclude altre forme di descrizione, come le «panoramiche a stazioni» di cui parla Stefania Parigi già per Accattone o gli ascetici campi medi che esaltano la qualità pittorica del paesaggio (filtrata dalla mediazione di Zigaina). Le scelte estetiche di Pasolini confermano l’opzione verso un cinema di poesia dalla forte impronta autoriale e dalla spiccata tensione verso la sperimentazione di stilemi inconsueti (si pensi alla intensa sequenza da film muto con cui l’autore risolve in immagine la lunga sezione dei Dati).

L’anomalia di Teorema consiste, come già accennato, «in un rapporto stranissimo fra letteratura e cinema», che fa sì che gli attributi dei personaggi di carta, declinati attraverso una precisione sorprendente, servano a modellare i corpi degli attori. Per la prima volta Pasolini si trova al cospetto di personaggi borghesi che impongono un diverso trattamento tecnico, dovuto anche alla composizione del cast, formato da soli attori professionisti, con l’unica eccezione di Ninetto. Nonostante la netta presa di posizione ideologica contro la classe borghese, espressa fin dal prologo del film attraverso l’inchiesta sulla fabbrica, non è ancora giunto il tempo del disprezzo: i personaggi di Teorema sono ancora toccati dalla carezza dello sguardo di Pasolini, sebbene poi il loro destino si compia nell’ossessiva ricerca di un senso che resta sospeso.

 

I criteri con cui scelgo gli attori dei miei film sono sempre gli stessi: scelgo un attore per quello che è non per quello che ha l’abilità di sembrare. Non sempre ci si riesce, […] ci si deve accontentare di approssimazioni, soprattutto per i film di ambiente e carattere borghese (Pasolini 1968b).

 

Le dichiarazioni di Pasolini sulla scelta degli attori valgono come premessa al discorso sulla sua attrice-musa, Laura Betti, legata a doppio filo al suo cinema grazie a un carisma fuori dal comune, al suo essere «“una” che adora, e “un’altra” che sputa sull’oggetto adorato; “una” che mitizza e “un’altra” che riduce» (Pasolini 1971). Betti incarna, all’interno di questo film, una spinta che con Foucault possiamo definire utopica, perché il suo corpo è destinato a collocarsi ‘fuori dal mondo’, nello «spazio altro» (Foucault 2011) del mito e del sacro. La sua interpretazione si deve all’intuizione poetica di Pasolini, che di fatto la costringe ad accettare la parte nonostante la sua forte ritrosia. È la stessa Betti a raccontare la genesi di questo ruolo, che le valse per intensità e rigore la coppa Volpi al Festival di Venezia.

 

È un film che mi ha fatto litigare con Pier Paolo. Una delle nostre apocalittiche litigate. È che non capivo proprio da che parte io potessi essere, diventare Emilia. Quindi non volevo farlo, avevo paura. Poi ho capito – Pier Paolo mi ha spiegato – che ero sempre stata Emilia. E così ho iniziato il film e non mi è mai capitato di accorgermi che stavo davanti a una macchina da presa. Per me era naturale e spontaneo ogni gesto, era una cosa antica, dentro di me da sempre (Betti 1979, pp. 39-40).

 

È una naturalità contraffatta in realtà quella che Betti esprime in Teorema perché Pasolini altera i suoi tratti fisiognomici: cancella il caschetto da «pupattola bionda» (Pasolini 1971), stringe il suo corpo glamour in un abito nero, dimesso e austero, elimina la frangia e il trucco, costruendo così una nuova maschera. La facies di Betti/Emilia è il primo indizio della tensione utopica del suo corpo, secondo la dizione foucaultiana:

 

Il corpo è un grande attore utopico, quando si tratta di maschere, di trucco, di tatuaggio. Mascherarsi, truccarsi, tatuarsi è fare entrare il corpo in comunicazione con poteri segreti e forze invisibili (Foucault 2014, p. 39).

 

Fin dalle prime inquadrature che la vedono in azione Betti/Emilia porta con sé una allure diversa, che capovolge i tratti della sua star persona e codifica una sorta di segreto magnetismo di pose e sguardi. Nella sequenza in cui si trova in giardino, al cospetto dell’ospite, Pasolini insiste sul punto di vista e mette in campo, attraverso un uso spregiudicato della soggettiva indiretta libera, la tentazione del desiderio della personaggia. Come sostiene giustamente Paolo Desogus «attraverso la soggettiva libera indiretta gli spettatori vedono non ciò che vede il personaggio, ma il suo vedere, il suo modo di interagire con la realtà filmica in cui è collocato» (Desogus, 2012, p. 138).

 

Dapprima lo sguardo della serva che si ferma a guardarlo, è un rapido sguardo fugace, che non può afferrare, quindi, che l’intera figura dell’ospite, con la testa in ombra e il corpo al sole. Ma poi il suo occhio si aguzza, e sosta più a lungo su quel soggetto lontano e senza reazioni: mentre si passa l’avambraccio sulla fronte per asciugarne il sudore, esplora torva i dettagli del corpo che gli si offre laggiù così intero e inconsapevole (Pasolini 2000, p. 909).

 

Basta leggere la descrizione della scena di Teorema libro per cogliere l’insistenza sul motivo dello sguardo che annuncia il principio di metamorfosi indotto dall’ospite. Il volto di Betti è nelle prime inquadrature come raggelato e impassibile [fig. 1], fermo e severo, anche se a tratti lascia trapelare un accenno di vergogna. Emilia sembra voler resistere agli effetti della visione di quel corpo giovane e attraente, la sua faccia restituisce tutta la forza e concentrazione dell’aggettivo «torvo» con cui lo scrittore apostrofa il suo sguardo. In pochi istanti però la rigidità iniziale cede il passo a gesti e pose che si fanno via via più frenetici, preda di uno scatenamento dei sensi che presto si trasforma – teatralmente – in una reazione scomposta, isterica.

Sorprende la capacità di Betti di variare nel breve intervallo di poche inquadrature la linea del corpo e le microespressioni facciali: l’iniziale fermezza del volto lascia spazio a una marcata increspatura delle orbite oculari, accentuata dal dettaglio delle lacrime [fig. 2], vero e proprio senhal della personaggia, a cui si accompagnano movimenti spezzati e meccanici delle braccia e delle spalle. La corsa di Emilia, ripresa con la macchina a mano per disarticolare meglio la rigidità inziale, non è fluida ma contratta, quasi che il suo corpo lottasse sotto la spinta di pulsioni contrastanti.

Ancora più esasperato appare il blocco di inquadrature che precede l’incontro fatale con l’ospite: prima di abbandonarsi all’amplesso con il giovane, Emilia sperimenta una forte crisi isterica che si traduce visivamente in una decisa alterazione dei lineamenti del volto; all’immobilità che aveva caratterizzato l’affacciarsi sullo schermo della personaggia fa seguito una sorta di ipercinetismo che vede Betti attraversare con veemenza gli spazi angolati della cucina, del corridoio e della camera, vero e proprio percorso a ostacoli.

L’intervento carezzevole dell’ospite scongiura il tentato suicidio della serva [fig. 3] e determina la resa definitiva di fronte al montare del desiderio [figg. 4-5]: la devozione religiosa della domestica evapora a contatto con la viva carne e il tenero sguardo del giovane, capace con pochi gesti di vincere ogni residuo pudore. In preda a un furore bestiale la serva si solleva la gonna e poi si abbandona all’abbraccio dell’uomo. La scena viene spezzata attraverso un sapiente ritmo di piani che restituisce la deriva estatica della personaggia.

La rappresentazione dell’amplesso attribuisce a Emilia/Betti un’altra variante utopica, legata proprio a una specifica funzione erotica: per Foucault infatti «bisognerebbe raggiungere la carne e vedere allora che talvolta, al limite, è il corpo stesso che rivolge contro di sé il proprio potere utopico, facendo entrare tutto lo spazio del religioso e del sacro, tutto lo spazio dell’altro mondo, tutto lo spazio del contro-mondo all’interno dello spazio che gli è riservato» (Foucault 2014, p. 42).

L’apertura al contro-mondo si coglie anche nella reazione alla partenza dell’ospite, che vede Emilia protagonista di una parabola sacrificale di grande potenza espressiva. Tra i tanti momenti che segnano il ritorno alla terra e al sacro mi pare che il più significativo sia quello del miracolo delle pustole, rappresentato nel film con pochi tratti – a differenza del libro – e culminante nel primo piano sorridente della serva [fig. 6]: è l’unica infrazione al codice performativo presente nel romanzo, uno scarto che scioglie la maschera ‘torva’ della serva e sottolinea la qualità dell’interpretazione di Betti.

Il segmento che chiude la parabola salvifica di Emilia ripropone, seppur in un misura ridotta, il paradigma picaresco già collaudato negli episodi ideocomici (soprattutto Uccellacci e uccellini e alla Terra vista dalla luna): alla gioiosa e stralunata coppia Totò-Ninetto si sostituisce il duo Susanna Pasolini-Betti che riannoda i fili dell’autobiografia pasoliniana e immette dentro il codice del film una vertigine materna che sconfessa (in un interessante gioco di rifrazioni) l’inclinazione della personaggia Lucia/Mangano. Rimando ad altra occasione un più mirato approfondimento di questa inedita triangolazione femminile e aggiungo un’ultima considerazione in merito al registro espressivo di Betti. La preparazione del seppellimento di Emilia è un omaggio a una certa idea di maternità supplice e dolente (legata al sintagma corporeo di Susanna, che accompagna Emilia e la aiuta a realizzare il suo destino di santità), ma anche il ritorno a un immaginario tipicamente pasoliniano: il viale alberato in cui si perde il profilo delle due personagge richiama le atmosfere autobiografiche del prologo di Edipo re mentre l’attraversamento delle vie periferiche e la scelta del campo fangoso rappresentano la messa in abisso di spazi cari allo sguardo dell’autore. Dentro questo mosaico di inquadrature spicca il primo piano di Betti avvolta dal velo di tulle nero [fig. 7], che incornicia il suo volto e sottolinea quell’effetto-ritratto che ne sublima la spinta ieratica. La cifra di questa santa popolare sono però le lacrime, che suggeriscono una lettura della sua performance in chiave ‘minerale’. Betti in Teorema è dunque una femme minéral: prendo a prestito questa definizione da Joubert Laurencin autore di un bel saggio su Pasolini e Camus dedicato al raffronto della recitazione di Mastroianni in Lo straniero di Visconti e nel Bell’Antonio di Bolognini. A proposito della dialettica di questi due ruoli il critico introduce la polarità fra homme solaire e homme minéral che allude nel primo caso alla simbolica persistenza del sole come stigma di Merseault e nel secondo alla lacrima di Antonio nel finale di Bolognini. Cercherò in un’altra occasione di determinare per Betti un’analoga opposizione dialettica che sostituisca alla solarità, evidentemente assente qui, la « stellarità» di cui parla Zanzotto a proposito di Emilia.

 

[il destino di Emilia]
Emilia (rivolta alla vecchia) Andiamo.
- Non aver paura, non sono venuta qui per morire, ma per piangere… e le mie non sono lacrime di dolore, no, saranno una sorgente… che non sarà una sorgente di dolore…
- Va’, va’ via adesso, va’… (Pasolini 2001, p. 1090).

 

Le lacrime-sorgive di Emilia [fig. 8] rappresentano qui l’accenno a una possibile rinascita, l’occasione in cui l’utopia del corpo muta in eterotopia, in spazio della metamorfosi: se il grido di Paolo su cui si chiude il film non è altro che la funesta anticipazione del tragico apologo di Porcile, il pianto oblativo di Emilia riattiva la forza simbolica di una delle poesie più struggenti di Pasolini, Il pianto della scavatrice, in cui appunto si «piange ciò che ha / fine e ricomincia» (Pasolini 2003, p. 848).

 

 

Bibliografia

M.A. Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, Bologna, il Mulino, 2017.

L. Betti, ‘L’attore ideale per il regista? Uno sgabello’, in M. Monicelli, Cinema italiano. Ma cos’è questa crisi?, Roma –Bari, Laterza, 1979, pp. 35-41.

P. Desogus, ‘Pasolini: una poetica dell’impegno’, Studi pasoliniani, 6, 2012, pp. 129-145.

A. Ferrero, Il cinema di Pasolini, Milano, Mondadori, 1977.

M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie [2001], Milano-Udine, Mimesis, 2011.

M. Foucault, Utopie, eterotopie [2004], Napoli, Cronopio, 2014.

R. Esposito, ‘Pasolini, un pensiero vivente’, Communitas, 2011.

H. Joubert-Laurencin, ‘Entre Camus et Pasolini: Mastroianni, l’homme solaire, l’homme minéral’, Francofonia, 65, 2013, pp. 127-141.

S. Parigi, Pier Paolo Pasolini. Accattone, Torino, Lindau, 2008.

P.P. Pasolini, ‘Il pianto della scavatrice’ [1956], in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori, I, 2003, pp. 833-849.

P.P. Pasolini, ‘Teorema’ [1968], in Id., Romanzi e racconti 1962-1975, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998, pp. 891-1056.

P.P. Pasolini, ‘Teorema. Sceneggiature (e trascrizioni)’ [1968], in Id., Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, pp. 1079-1090.

P.P. Pasolini, ‘Necrologio di P.P. Pasolini per una certa Laura Betti’, Vogue, 11 aprile 1971.