Incarnare la realtà. La dicotomia cinema-teatro nella teoria pasoliniana dell’attore

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Partendo da alcune osservazioni sull’attorialità nel teatro contenute nel Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, il contributo approfondisce, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e le riflessioni relative a funzione e pratica dell’attore teatrale.

Starting from some observations on theatrical actorship contained in Manifesto per un nuovo teatro of Pasolini, the article explores, in particular, the difference between Pasolini’s ideas on the nature of cinematographic actorship and the thoughts related to the function and the practice of theater actor. 

 

Benché non abbia mai trattato il tema in maniera sistematica, Pasolini ha elaborato una serie di riflessioni sulla sua pur limitata esperienza di attore, di spettatore che assiste a differenti performance attoriali sia in sede teatrale sia cinematografica, e soprattutto sulla sua pratica di direttore di attori nonché di responsabile del casting dei propri film, dalle quali è possibile estrapolare una vera e propria teoria dell’attore. È quanto hanno dimostrato ampiamente Stefania Rimini e Maria Rizzarelli in un loro recente saggio (2021), riccamente documentato e articolato.

Le considerazioni che seguono, in certi casi, ne riprendono le suggestioni, cercando di integrarle approfondendo, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e quelle relative a funzione e pratica dell’attore teatrale. La vastità del tema e l’estemporaneità delle considerazioni di Pasolini, recuperate da una pluralità di fonti eterogenee, rendono impossibile qualsiasi pretesa di sistematicità, che può essere invece recuperata in interventi specifici sul rapporto con particolari figure di attori ai quali Pasolini era particolarmente legato. Ci auguriamo che le riflessioni proposte possano essere considerate una sorta di ‘secondi sondaggi’ per una doppia teoria pasoliniana dell’attore, il cui valore euristico consiste principalmente nel far affiorare con maggiore evidenza la distanza che separa, nella sua concezione, il cinema dal teatro, non solo sotto il profilo semiologico e culturale ma – verrebbe da dire – ontologico ed esistenziale.

Ci scusiamo in anticipo per la natura rapsodica di questo intervento, che convocherà alcuni concetti chiave per arrivare a formulare un’ipotesi nella forma di una domanda. Al contempo, per poter giungere a tale ipotesi, cercheremo di dare qualche informazione di contesto che potrebbe suonare ovvia agli specialisti ma che può essere utile a recuperare il filo del discorso in cui le parole di Pasolini, di volta in volta, si inseriscono.

Dunque, poiché prima di essere cinematografico, l’attore è un mestiere e un concetto che ha indotto all’elaborazione di una teoria millenaria in ambito teatrale, destinata a intensificarsi clamorosamente nel Novecento, forse proprio a seguito dell’invenzione del cinema, e poiché Pasolini è stato anche (e prima) uomo di teatro, vale la pena partire da qualche sua osservazione sull’attorialità nel teatro che è uno dei nuclei più problematici e stimolanti del celebre Manifesto per un nuovo teatro (Pasolini 1999, pp. 2481-2501)

Riassumendo brutalmente, nell’immaginare un teatro radicalmente diverso dal teatro borghese (ovvero ‘della chiacchiera’) così come dal teatro d’avanguardia (ovvero ‘del gesto e dell’urlo’), Pasolini ipotizza un Teatro di Parola in cui sia quasi (ed è avverbio che va sottolineato) completamente eliminata la messa in scena. In questo teatro, l’attore ha sostanzialmente due compiti, entrambi connessi al suo statuto di intellettuale attivo, ad un qualcosa che non sarebbe eccessivo inquadrare nei termini di una militanza teatrale, dunque politica (nel senso più pieno di una politica culturale):

«Egli dovrà piuttosto fondare la sua abilità sulla capacità di comprendere veramente il testo. E non essere dunque interprete in quanto portatore di un messaggio che trascende il testo (il Teatro!): ma essere veicolo vivente del teatro stesso» (ivi, p. 2496).

In pratica, sebbene lo stesso Pasolini stigmatizzi la messa teatrale delle avanguardie, il suo attore è comunque una sorta di sacerdote al quale viene affidato il Verbo per la celebrazione di un 'rito culturale' il cui scopo ultimo è la stimolazione della coscienza critica dei gruppi avanzati della borghesia (vale a dire dei suoi simili). Come osserva Stefania Rimini in un altro suo intervento dedicato a Pasolini e Testori: «La centralità del Verbo consiste nel recupero di una parola-materia capace di “verificare le sue inesplicabili ragioni di violenza, passione e di bestemmia” attraverso l’incarnazione della voce nel corpo dell’attore» (Rimini in Casi, Felice, Guccini, 2012, p. 103). Nello stesso volume in cui è contenuto questo saggio ci sono altri due interventi interessantissimi, ai quali faremo riferimento in seguito, ma vale la pena ricordare che in un altro testo, segnatamente Pasolini, un’idea di teatro (1990), Stefano Casi definisce il teatro come il luogo ‘dell’utopia’ per Pier Paolo Pasolini, facendo riferimento sia alle sue esperienze teatrali nella parte più idilliaca della vita (ovviamente il periodo a Casarsa), sia alla possibilità di immaginare un teatro a partire da una distanza siderale dalle pratiche teatrali. Vale a dire, dall’estraneità totale al mondo del teatro ‘in carne e ossa’ che è la condizione nella quale si trova quando, a metà anni Sessanta, da uomo di editoria e uomo di cinema, decide di scrivere le sue tragedie e di accompagnarle con il citato Manifesto.

A questo punto, possiamo lasciare per un attimo da parte il teatro e provare a passare al cinema, dove le cose sono estremamente più complesse, forse perché il cinema, da ogni punto di vista, non è per Pasolini luogo dell’utopia ma della realtà. Lo è in quanto luogo materiale, luogo di lavoro ‘industriale’, dal quale trae fama, sostentamento, profonda soddisfazione e cocenti delusioni, nel quale investe la maggior parte del suo tempo e delle sue energie. E il cinema è realtà anche sul piano teorico, in quanto «lingua scritta della realtà». C’è un bellissimo breve articolo del 1967 in cui il regista commenta l’esperimento di un gruppo di studenti del CUT (Centro Universitario Teatrale) di Parma che aveva portato sulla scena Uccellacci e uccellini, nel quale Pasolini si chiede come questo esperimento sia potuto accadere e, al di là degli esiti, dichiara tutto il suo interesse sul piano linguistico, con un titolo dalla straordinaria valenza programmatica: Da tecnica audiovisiva a tecnica audiovisiva (cfr. Pasolini 2001, pp. 2783-2784). Evidentemente, nel passaggio al teatro, il testo NON prevede la stessa tecnica audiovisiva; allo stesso modo anche la televisione è per lui altra tecnica (che ha però il difetto di ‘non esistere’, ovvero di essere intrinsecamente il prodotto di quella società dei consumi che avrebbe «ucciso la realtà», come sosterrà alcuni anni più tardi Jean Baudrillard, e ogni parallelo con le accuse che Adorno rivolgeva al cinema è chiaramente fondato).

Prima di entrare nel vivo della questione, può essere utile fare una parentesi: nella prefazione all’edizione italiana de Il cinema è il cinema di Jean Luc Godard, Pasolini firma un elogio perfido – come nella tradizione epigrammatica che rappresenta parte significativa della sua produzione – in cui replica all’accusa che Godard gli ha rivolto di essere un burocrate. Per lui, infatti, quello firmato dal celebre regista della nouvelle vague, è un «Manuale in cui si spiegano, nel loro nascere e nel loro definirsi, le condizioni mentali, prima, e poi tecniche, attraverso cui si rende normativo il cinema come metacinema» (Pasolini in Godard 1971).

L’idea è quella di ribaltare le accuse sull’avversario. Godard, per Pasolini, è un moralista schematico. Godard lo aveva accusato di essere un burocrate perché frequenta arti accademiche come la linguistica e la semiotica, non riuscendo a immaginare queste pratiche se non in senso normativo. Ma è proprio ciò di cui lo accusano i vari Metz, Garrone o Umberto Eco, vale a dire di proporre una semiotica non normativa, di uscire dagli schemi, cosa che egli non può esimersi dal fare. Al contrario, è Godard ad aver fissato il canone del cinema che riflette su se stesso, dunque è lui, semmai, ad essere una sorta di burocrate dell’avanguardia.

Ora, in tutto questo, a essere davvero importante è soprattutto l’accento che Pasolini pone sul suo profondo rifiuto della normatività. Per quanto apodittico, sentenzioso, drastico possa essere a volte il suo discorso, egli rifugge per principio e per natura dal porre norme, parlando sempre ‘en poète’, da figura obliqua, sempre poco centrata, sfuggente, indefinibile secondo le categorie correnti. Dunque, nel discorso che ci riguarda più da vicino, possiamo dire che qualunque teoria dell’attore, implicitamente o esplicitamente vogliamo ricavare da Pasolini, sarà necessariamente una ‘teoria NON normativa’ dell’attore.

È importante considerarlo perché già la pratica pasoliniana nei confronti degli attori, ampiamente sistematizzata a livello generale nel citato lavoro di Rimini e Rizzarelli così come – prima ancora – da Fernaldo Di Giammatteo (1976) o Adelio Ferrero (1977), rappresenta un susseguirsi di esperimenti e contraddizioni difficile da inquadrare, se non come il tentativo di stabilire dei principi generali da evadere costantemente.

In estrema sintesi, possiamo metterla così: il cinema è per Pasolini un medium intrinsecamente poetico, in quanto collegato geneticamente alla realtà. Ora, l’idea che Pasolini ha della realtà è cosa tutt’altro che ingenua e appare assai vicina ad una costruzione mitica che si situa alla confluenza fra fattori di natura puramente materiale, fattori per così dire elementari, biologici, e fattori di natura puramente immaginifica, onirici, mentali, anch’essi tuttavia primordiali. Il cinema, in quanto lingua scritta della realtà, sotto il profilo segnatamente semiologico, rappresenta la realtà con la realtà. Questo spiega l’interesse spontaneo che Pasolini manifesta nei confronti dei cosiddetti ‘attori presi dalla strada’, un interesse che scaturisce da, ma al contempo eccede nettamente la dimensione antropomorfica del neorealismo.

Un cinema processuale, così connesso alla realtà da non suscitare nessuno scrupolo nel manipolarla, avendo in assoluto spregio il naturalismo e dunque, di conseguenza, l’attore professionale in quanto figura addestrata a ‘mimare la naturalezza’. Un cinema tecnicamente frammentario, che seleziona e ripropone la realtà attraverso la realtà con la mediazione della sensibilità dell’autore. In questo senso, Pasolini è chiarissimo quando dichiara di avere scelto Franco Citti perché non si pone mai problemi di interpretazione limitandosi ad eseguire (spesso con stupore) ciò che il regista gli chiede di fare. In pratica, è l’attore cinematografico ideale proprio in quanto portato ad essere sé stesso. Del resto in più occasioni Pasolini giunge a dichiarare a Bachman: «se prendo un attore lo prendo per quello che è» (Pasolini 1968, p. 37). Come uomo, nella realtà. Se Pasolini ha bisogno di qualcuno che interpreti un uomo buono, deve prendere un uomo buono e viceversa.

Un casting, viene da dire, trasparente, esistenziale, che raggiunge un vertice di tenerezza nella lettera a Don Andrea Carraro datata 10 maggio 1963, relativa alla ricerca degli attori adatti a interpretare gli Apostoli, che vale la pena riportare per intero:

Caro Don Andrea,
mi scusi se la disturbo, raggiungendola fin laggiù. Ma siccome in questi giorni, prima della partenza, vorrei dedicarmi un po’ alla ricerca degli attori, avrei bisogno di un piccolo favore da Lei. Avrei bisogno, cioè, di una serie di piccoli appunti, telegrafici, sulle figure degli apostoli (età all’epoca della predicazione di Cristo, caratteristiche biografiche e psicologiche ecc.): bastano poche righe per ognuno. Me lo può fare questo favore? Capisco che in questo momento Lei sarà molto occupato, ma una mezzoretta spero potrà trovarla!
La saluto affettuosamente, Suo PPP. (Restituita al mittente per errore di indirizzo) (Pasolini 2021, p. 1242).

D’altra parte, il cinema di Pasolini è anche un cinema di grandi attori, star, icone del cinema e della cultura di massa. Una scelta problematica, evidentemente contraddittoria, che da una parte dimostra implicitamente una sensibilità per il mezzo in quanto parte di un sistema dei media che, sul piano teorico, non compare in modo esplicito praticamente mai. Come se Pasolini sapesse benissimo che un attore famoso è anche un elemento paratestuale, che determina un complesso sistema di aspettative da parte del pubblico, collegando il film alla rete intertestuale costituita da tutti i film di quello stesso interprete. Dall’altro lato, questa scelta pone costanti necessità di adattamento reciproco. Sappiamo che la Magnani, per esempio, viene prelevata direttamente dalla sequenza dell’omicidio di Roma Città Aperta che aveva ispirato la celebre poesia de La religione del mio tempo:

 

Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle occhiaie vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
È lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi (Pasolini 2003, pp. 937-938).

 

E sappiamo che la Magnani [fig. 1], in qualche modo, ispirerà una serie di pensieri relativi alla diffidenza verso i professionisti, o più in generale alle differenze di indirizzo sul set, come dimostrano alcuni scambi da Il diario al registratore che risalgono alle fasi dello shooting:

Io: […] Il dirti ‘Ridi, ridi’ mentre stai per recitare, cioè il mio imbeccarti dal di fuori, in una specie di iniezioni di espressività, è un’abitudine che io ho preso facendo recitare gli attori della strada, alle cui facce io devo dare un colpo di pollice nel momento per loro più inaspettato, quasi a tradimento.
[…]
Anna: Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani (Pasolini 2019, p. 43).

Intervistato da Jon Halliday Pasolini mostrerà un certo disappunto in riferimento all’intesa artistica con Nannarella («per quanto la Magnani abbia compiuto uno sforzo commovente per fare quello che le chiedevo, il personaggio non è venuto fuori davvero»; Pasolini 1999b, p. 1315); tuttavia, fallito (e certo mai rinnegato) quell’esperimento, torna subito a riproporlo, mettendo fianco a fianco, per ben tre volte, il più elementare degli attori presi dalla strada con la più iconica delle maschere italiane: Ninetto e Totò [figg. 2-3], una strana coppia sulla quale elabora una accorata e profonda riflessione in dialogo con Halliday.

Scelsi Totò per quello che era: un attore, un tipo inconfondibile che il pubblico già conosceva. Non volevo da lui che fosse altro se non quello che era. Povero Totò, spesso mi chiedeva con molta gentilezza, e quasi come un bambino, se non poteva fare un film più serio, e io ero costretto a ripetrgli: “No, no, voglio soltanto che tu sia te stesso”» (ivi, pp. 1347-1348).

La questione è complessa e forse risulta più chiara come esplicitata in una intervista, rilasciata in tv durante il programma Cinema 70 e andata in onda in 4 marzo del 1971, dove, parlando di Totò [fig. 4], Pasolini afferma:

In realtà, conoscendolo risultava un piccolo-borghese, cioè un uomo di media cultura con certo un ideale di vita piccolo-borghese. Questo come uomo. Come artista qual è la sua cultura? La sua cultura è la cultura napoletana sottoproletaria. Viene fuori direttamente da lì. È inconcepibile Totò al di fuori di Napoli e quindi del sottoproletariato napoletano. Come tale Totò legava perfettamente con il mondo che io avevo descritto. In una chiave diversa, perché il mondo che io avevo descritto era in chiave comico e tragica, mentre Totò ha portato un elemento clownesco, da Pulcinella, però un elemento sempre tipico di un certo proletariato che è quello di Napoli […]. Un comico esiste in quanto fa una specie di cliché di se stesso. Non può uscire da una certa selezione di se stesso che egli fa. Nel momento in cui esce non è più quella silouette, quella figura che il pubblico è abituato ad amare, a conoscere, con cui ha un rapporto di allusione, di riferimenti eccetera […]. Ora, dentro i limiti di questo cliché, i poli all’interno dei quali un attore si muove sono molto ravvicinati: i poli di Totò sono da una parte questo suo fare da Pulcinella, da marionetta disarticolata. Dall’altra, invece, un uomo buono, un napoletano buono – stavo per dire neorealistico –, realistico, vero, reale. Questi due poli sono talmente ravvicinati da fondersi continuamente, è impensabile un Totò buono, dolce, napoletano bonario, crepuscolare al di fuori del suo essere marionetta così come è impensabile il Totò marionetta al di fuori dall’essere un sottoproletario napoletano.

Qui i livelli diventano molteplici: c’è il mito Totò, come veicolato dai media: il principe. C’è il Totò persona reale: un piccolo-borghese. C’è il Totò in quanto attore, ovvero la maschera sottoproletaria che si fonde con la tradizione del teatro delle maschere. Sono tre facce di una stessa identica medaglia e d’altra parte, in un filmato amatoriale girato a New York da Agnès Varda in 16mm e poi doppiato, che è stato possibile vedere nella mostra Folgorazioni Figurative (tenutasi a Bologna tra il marzo e il novembre 2022 e curata da Marco Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli), Pasolini spiega benissimo che per lui non c’è alcuna differenza fra realtà e finzione cinematografica, sia che si riprenda un essere umano nella vita quotidiana sia che si chiami qualcuno a interpretare una parte, perché anche quella della recitazione, in fondo, è una realtà.

Ma nel video è soprattutto la seconda parte a porre dei quesiti, laddove Pasolini descrive il comico come colui che esiste in quanto mette in scena un clichè di sé stesso. Questo perché, sempre nell’intervista alla Svizzera Italiana, parlando dell’interpretazione di Orson Welles [Fig. 5], Pasolini arriva a dire: «gli ho fatto fare in parte se stesso, ecco, faceva se stesso, faceva la caricatura di se stesso e quindi rientrava pienamente nel mio mondo». Dunque Welles diventa alter ego di Pasolini restando se stesso?

D’altra parte, in un incontro con gli studenti del centro sperimentale di cinematografia (pubblicato su Bianco e nero nel giugno del 1964 con il titolo Una visione del mondo epico-religiosa e confluito poi nel Meridiano), rispondendo alla domanda di una malcapitata signorina Antonietta Fiorito, che timidamente gli chiedeva della scelta degli attori, Pasolini dichiara che Anna Magnani «era un elemento stilistico esteriore che non appartiene al mio mondo». Quindi aggiunge: «L’attore professionista è un’altra coscienza che si aggiunge alla mia coscienza» (Pasolini 2001, pp. 2856-2857).

Nella stessa risposta compaiono due elementi centrali nel rapporto fra Pasolini e l’attorialità, ai quali conviene comunque fare un accenno: da una parte la questione linguistica, con l’italiano come lingua burocratica, imposta dall’alto al popolo, dunque impossibile da rendere reale e dall’altra parte – ovviamente correlata – la questione del doppiaggio. Con Pasolini che difende a spada tratta la sua scelta di fare pastiche, facendo scelte pratiche, optando per il male minore, riservandosi il diritto di agire sul «profilmico manipolandolo in ogni modo possibile», contro la normatività dei sostenitori ideologici della presa diretta, in nome dell’oscura ontologia di fondo di natura baziniana.

Già, perché ci sono altre due cose che vale la pena dire prima di avanzare quell’ipotesi che avevamo promesso al principio. Per Pasolini, la lingua scritta della realtà (e non certo dell’impressione di realtà) ha molto a che fare con l’essere (l’attore per quello che è) e nulla a che fare con la natura. Solo per citare due dei più bei saggi di Pasolini, poi confluiti in Empirismo eretico, ci limitiamo a convocare qualche affermazione che ben descrive la visione irriducibilmente pessimistica che Pasolini ha dell’atto stesso di «scrivere la lingua della realtà», rappresentare «la realtà con la realtà» che è la sostanza del realizzare un film. Schematicamente, da Essere è naturale? (Pasolini 1999b, pp. 1562-1569):

Fare un film è scrivere su della carta che brucia (ivi, p. 1566).
Il tempo non è quello della vita quando vive, ma della vita dopo la morte (ivi, p. 1569).

 

E ancora, da Osservazioni sul piano-sequenza (ivi, pp. 1555-1561):

Quando si passa dal cinema al film (che sono dunque due cose molto diverse, come la langue è diversa dalla parole), succede che il presente diventa passato (ivi, p. 1559).
Il montaggio opera sul materiale del film quello che la morte opera sulla vita (ivi, p. 1561).

E arriviamo agli ultimi due elementi che desideriamo mettere in campo. Il primo riguarda il Pasolini attore, in particolare le riflessioni scaturite dall’aver interpretato il Monco nel film Il gobbo di Lizzani del 1960 [fig. 6]. Ecco, a parte l’osservazione sull’essere personaggio ‘in corpore vili’, già sottolineata da Rimini e Rizzarelli, c’è un tema che mi appare fondamentale ed è quello della mancanza di responsabilità. L’attore Pasolini si trova a fluttuare in un tempo dilatato, secondo un ritmo lento, dettato da altri, liquido, nel quale avverte uno straniante senso di rilassatezza dettato dall’assenza di responsabilità. Una sensazione tutt’altro che naturale, appunto, per un ipercinetico come lui.

L’altra questione la riassumiamo citando direttamente un testo di Carla Benedetti:

Non è semplicemente una faccenda di autobiografia. È invece una faccenda di azione. Un po’ come succede nell’arte cosiddetta performativa, o nella body art, qui abbiamo un autore che fa parte integrante dell’opera. Il testo è solo il residuo o la traccia di ciò che l’autore ha fatto: ed è questo GESTO complessivo a costituire l’opera di Pasolini. Non solo le sue poesie, i suoi testi narrativi, i film, i testi per il teatro o le sceneggiature, ma anche i suoi interventi giornalistici, le sue dichiarazioni, i suoi appelli, le sue prese di posizione, i suoi processi formano l’opera di Pasolini. L’opera di Pasolini può essere insomma considerata come una grande performance, in cui l’oggetto estetico è meno importante della presenza o dell’azione dell’artista (Benedetti 1998, p. 14).

Ecco, dall’orgoglio con cui Pasolini rivendica di essere lui a usare materialmente la macchina da presa a mano sul set, al personaggio pubblico Pasolini onnipresente sui media, non c’è dubbio che l’idea di perfomer, animato da una mostruosa carica vitale (e dunque, viene da dire, narcisistica) sia senz’altro credibile. Ma qui ci interessa ricondurla alla centralità di Pasolini su tutte le operazioni che lo coinvolgono: la realtà di cui il cinema costituisce la lingua scritta, non è una realtà astratta, ma la sua realtà, quella fatta degli im-segni, ovvero i segni immagine/immaginario che costuiscono il suo mondo di autore senza coautori. In questo senso, Pasolini è un anarchico, nel senso di «un’anarchia preistorica, biologica, costantemente votato alla contaminazione» – come dice lui stesso a Ferrero e Mignano in un’intervista apparsa su Filmcritica del 1962 e confluita poi nel volume Con Pier Paolo Pasolini curato da Magrelli col titolo Mamma Roma, ovvero dalla responsabilità individuale alla responsabilità collettiva (1977, pp. 43-62).

E veniamo finalmente alla conclusione, aiutandoci con un bel saggio di Lorenzo Mango, dedicato proprio alla lingua scritta della realtà (cfr. Mango in Casi, Felice, Guccini 2012, pp. 220-229). Tra cinema e teatro si realizza una polarizzazione estrema nella concezione pasoliniana dell’attore. Perché se è vero che, come sostiene Luca Ronconi, «Pasolini rifiuta l’attore come interprete che ha una sua autonomia e pretende che sia semplice passaparola dell’autore» (Ronconi in Casi, Felice, Guccini 2012, p. 367), questo vale esclusivamente per il cinema in quanto luogo della realtà. L’attore, nel cinema di Pasolini, è essere umano reale, ovvero una struttura priva di senso compiuto, che si deve lasciare scrivere da un’altra persona (l’autore) per acquisire un senso che riflette il mondo dell’altro, diventando così parte di una struttura altra, prima attraverso un’operazione linguistica che lo porta a diventare im-segno e poi di un’operazione estetica che lo porta a diventare cinéma, unità minima della lingua che riflette il mondo di Pasolini, puro materiale espressivo nelle mani della sua immaginazione, attraverso una enorme cessione di potere che viene ricompensata dalla leggerezza che l’assoluta mancanza di responsabilità comporta. L’attore è il fonema della lingua cinematografica, dunque poetica, del cineasta/autore.

Il teatro si pone sulla polarità opposta, laddove, come sostiene appunto Mango, si pone come metadiscorso sulla realtà, luogo dell’utopia in cui è possibile mettere la realtà in discorso. Schematizzando in maniera brutale, ci si trova allora di fronte a una serie di opposizioni radicali:

 

  • Il cinema è mortuario e il teatro è vitale.

  • L’attore cinematografico è deresponsabilizzato e inconsapevole, mentre quello teatrale ha una massima responsabilità nel dimostrare di aver compreso veramente il testo.

  • Il cinema è visione e il teatro è ascolto.

  • Il cinema è immagine e il teatro Parola.

  • L’attore cinematografico è im-segno/cinéma, mentre l’attore teatrale è vivente e dialogante.

  • Il cinema è azione e il teatro è idea.

  • Il cinema è scrittura, il teatro è oralità.

 

Sciogliere queste polarità, se hanno un senso, riconciliarle senza annullarle, consentirebbe forse di aiutare la formulazione di una teoria equilibrata e coerente dell’attorialità secondo Pasolini, partendo magari dal presupposto che il cinema di Pasolini, con i suoi attori reali, fino a quelli di Salò che dovevano essere ‘precisi come cristallo’, esiste eccome, mentre il teatro di Parola, in purezza, probabilmente non è mai davvero esistito, come Pasolini ha avuto spesso modo di lamentare.

 

 

Bibliografia:

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