Carissima introvabile realfantomatica,
dove sei?
Ho ricevuto il tuo libro che è un libro vero, cioè di quelli che nascono da una non-volontà di definirsi per qualsiasi aspetto, o genere o categoria letteraria. Vorrei parlarne con te, e a lungo (Zanzotto 2005, pp. 71-72).
Non sappiamo se Andrea Zanzotto e Laura Betti abbiano mai avuto occasione di conversare «a lungo» intorno a Teta Veleta ma è indubbio che in queste poche righe si concentri il nucleo di senso di un romanzo che a distanza di quarant’anni resta una sorta di rompicapo tanto per gli studiosi di letteratura quanto per gli storici del cinema e del teatro, perché tutte le etichette franano di fronte a una materia incendiaria, ‘de-scritta’ in una lingua prodigiosamente azzardata. Il tono con cui Zanzotto apostrofa Betti è il primo indizio della profonda consonanza fra i due, della reciprocità di un rapporto coltivato all’ombra di Pasolini ma proseguito poi oltre il fatidico muro del 2 novembre 1975 attraverso formule di stima e tenerezza reciproca, che i frammenti epistolari consentono di mettere in chiaro. L’appellativo «realfantomatica» fonde con arguzia il tratto naturalistico, terragno, della «pupattola bionda» (Pasolini 1971) con la strenua propensione al mascheramento di sé, al gioco indiavolato di pose e stili, forse la dote più interessante del suo profilo di attrice, stretto fra immedesimazione e disincanto. L’essere ‘realfantomatica’ di Betti rimanda infatti a quel paradosso («Non ho mai capito la reale differenza tra recitare ed esistere», Betti 2002) con cui ha attraversato l’industria culturale del nostro Paese, mostrando una spiccata vocazione internazionale e giungendo a scandire il proprio idioletto fino alle estreme conseguenze: «fare l’attrice significa cambiar pelle, ma anche dimenticare, rimuovere ciò che si è e non piace essere» (Del Bo Boffino 1979). Al netto delle contraddizioni e degli infingimenti, Betti approda alla ‘scrittura romanzesca’ per sperimentare un esercizio di «autoanalisi» (Betti 2006, p. 38), che celebra un ingombrante cortocircuito fra autrice e personaggio.
1. Soglie
Tornare a fare i conti con questo insolito corpo di parole significa allora innanzitutto interrogarsi sul suo statuto letterario e culturale, inquadrarne il dispositivo diegetico, lasciarsi prendere dal giro a vuoto del linguaggio. Il primo passo in tale direzione prevede una preliminare indagine sul titolo, che certamente rappresenta la chiave d’accesso alla fantasmagoria di Madama, protagonista (suo malgrado?) di una girandola di avventure e peregrinazioni. Teta veleta è insieme un omaggio e una provocazione, ovvero la paradossale assunzione di uno stigma e al tempo stesso l’esibizione di una vorace tensione emotiva. L’omaggio è rivolto al fantasma perduto di Pasolini, compagno di una vita a cui Betti dedica ogni energia nel tentativo di mantenerne viva la lezione e la memoria. Il libro nasce durante una delle tante villeggiature al Circeo nell’estate del ’73, riceve grazie alla sua intercessione un contratto di edizione per i tipi Garzanti e poi si arena: «Mi ha incoraggiata a continuare, ma io non l’ho fatto. Soltanto dopo la sua scomparsa, ho sentito che dovevo scrivere. I miei rapporti con Pier Paolo erano cambiati: cominciavo ad obbedirgli» (Betti 2002, p. 38). L’opera è quindi un «atto di obbedienza» (Betti 1979 bis) e una «prova d’amore» (Betti in Del Bo Boffino 1979), che serve a distillare il peso di un’assenza incolmabile; Pasolini è contemporaneamente fuori e dentro la cornice della storia, destinatario complice (sebbene non più presente) e personaggio evocato, figura cerniera di uno sfrenato carosello di incontri e proiezioni immaginarie.
Anche la provocazione lo riguarda perché ha a che fare con la peculiarità che l’espressione «Teta veleta» assume nel suo orizzonte pubblico-privato. La musicalità segreta di queste parole richiama infatti il manifestarsi del suo primo desiderio omoerotico, la cui urgenza riceve subito l’impronta del segno:
Sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome –. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione (Pasolini 1986, p. 16).
Il libro di Betti accoglie l’ambiguità e la potenza di questo desiderio e ne ribalta l’asse semantico, spingendo la pulsione del «solletico» oltre il comune senso del pudore pur di attestare una moralità in controtendenza, distante da luoghi comuni e stereotipi di genere. Quella della protagonista sarà infatti una sessualità disinibita e procace, eccedente e ossessiva, ma declinata sempre con una radicale joie de vivre. Nel solco di tale provocazione si insinua anche una nota di tenerezza ‘velata’ che chiama in causa il dolore muto di Susanna Pasolini, alla quale Betti dedica il romanzo: tra le pieghe di una lingua amata, perché legata proprio al mito della madre, il poeta attribuisce il sintagma «teta veleta» anche all’evocazione del seno materno e questo dettaglio offre all’autrice l’occasione per aggiungere alla sua personaggia anche il tratto di una sensualità familiare, pacata, oltreché la possibilità di incorporare il ricordo della donna con la quale ha condiviso l’amore per PPP.
Se il titolo rappresenta la porta del romanzo, grazie anche alle risonanze pasoliniane, non meno decisivo per un primo inquadramento dell’opera appare l’impianto della copertina, in cui campeggia una foto in bianco e nero di Betti su fondo grigio [fig. 1]. Laura si concede in una posa d’attrice, con il capo leggermente di profilo, la mano destra che sfiora il viso ed esibisce un candore statuario, lo sguardo estatico e un mantello scuro a coprire il volume del corpo. Il punctum pare essere il cappello di rose rosso fuoco che contorna la figura e introduce un tocco estravagante e mondano, quasi un graffio rispetto alla texture della fotografia. La pregnanza e l’inclinazione di questa «immagine felliniana» (Del Bo Boffino 1979) può essere scovata tra le pagine del romanzo, e segnatamente nella seconda parte intitolata perentoriamente Madame; è qui che fa la sua prima apparizione l’ombra della protagonista, maschera di voluttà e sarcasmo, diva e donna in fuga, inquieta e irraggiungibile ma improvvisamente incastonata in un ritratto implacabile: «Sul volto di Madame è dipinta un’antica, ineffabile ambiguità: una misteriosa Medea concepita in Piccadilly Circus e approdata in Campo de’ Fiori. Primaria, innocente, eroica, sola» (Betti 1979a, p. 117). Tale icastica (auto)rappresentazione sembra davvero coincidere con la postura e l’espressione della foto-manifesto e questo effetto di rifrazione conferma il carattere eterodosso di una scrittura vissuta come gesto di anarchica insubordinazione e – contemporaneamente – di obbediente devozione alla musa del sé e alla guida dell’amico-Pigmalione. Si tratta di un compromesso per certi versi improbabile che dà luogo a un’opera capace di incrinare ogni giudizio, ogni discorso critico perché concepita da una volontà di deragliamento davvero senza pari.
L’intenzione di destabilizzare la canonica forma-romanzo emerge subito: dopo il frontespizio compare – a mo’ di prefazione – un testo di Pasolini che produce un potente effetto di inarcamento, poiché consente di incorporare nel dettato della scrittura l’ombra già evocata nel titolo, e allo stesso tempo annuncia la catena di finzioni su cui si salderà il progetto letterario di Betti. Si tratta infatti di un coccodrillo ‘simulato’, affidato a un fantomatico testimone del 2001, attraverso il quale lo scrittore tributa il suo personalissimo omaggio alla amica-attrice, certificandone le qualità metamorfiche («eccola contraddire tutto questo recitando la parte di una molteplicità di personaggi diversi fra loro, la cui caratteristica è sempre stata quella di essere uno opposto all’altro», Pasolini 1971) e divertendosi a mescolare i toni. Oltre a mettere in luce la versatile spregiudicatezza di Betti, questo ritratto giunge a tematizzare alcuni motivi pregnanti della personaggia, indispensabili per comprenderne la lunga fedeltà al cinema nonché l’intima disposizione sentimentale. Il primo elemento a imporsi all’attenzione di chi legge è quello della maschera: «si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda; (ma: “attenti, dietro la pupattola che ammetto di essere con la mia maschera, c’è una tragica Marlene, una vera Garbo”)». Tale mascheramento parrebbe implicare il sospetto di un’autenticità contraffatta e invece l’orizzonte performativo della ‘giaguara’ poggia saldamente su una contraddizione per certi aspetti insanabile – e dunque estremamente vitale: «il suo bisogno di essere contemporaneamente “una” e “un’altra”, “una” che adora, e “un’altra” che sputa sull’oggetto adorato». Il senso della provocazione è un motivo solo apparentemente secondario nella scacchiera di pose esibita da Betti; la sua attorialità non può prescindere da una sorta di furia sadica, matrice di un puro piacere di profanazione che non si pone mai come azione ricattatoria ma, al contrario, rivendica un principio di mimetismo anarchico. È nel segno del paradosso che agisce «quel pupazzo che nel “pieno degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta” si è trovato a essere vivo» e pertanto la testimonianza di Pasolini non fa che sottolineare l’ossimorica declinazione di una personalità mutante, capace però di giocare a carte scoperte, dichiarando la propria recita e suscitando infine un moto di pietà senza dubbio non banale.
Il sistema di soglie che protegge la scrittura incendiaria di Betti trova nel risvolto di copertina il culmine di una vertigine declaratoria, che impone un attento ripensamento di certe tassonomie e rilancia l’idea che questo testo sia un angolo cieco nella galassia del postmodernismo italiano.
Romanzo realistico o macchina mitologica, diario schizofrenico o romanza di una picara insolente, questo libro è innanzitutto una scorribanda sfacciata e porcellona dalla guerra, attraverso i ruggenti anni sessanta, a oggi. Ma è anche una crudele affabulazione del proprio “io”, sfilacciato colorito dalle paillettes di attrice… o forse una requisitoria in forma di parodia per nascondere un’accusa violenta quanto appassionata? Un libro-spettacolo con le regolari entrate e uscite di scena? Un libro-film? Un ambiguo, torvo disegno per “non dire”? Un romanzo giallo? (Betti 1979a).
L’accumulazione iperbolica di definizioni, solo apparentemente stravaganti, produce un eccesso di saturazione ma allo stesso tempo costringe a una verifica attenta che si faccia carico della tenuta ‘critica’ di tali categorie, alcune certamente inusuali ma di sicuro impatto. Basterebbe richiamare la tipologia «libro-film» per individuare una puntuale deriva bettiana, ovvero l’inclusione di parti in forma di sceneggiatura che alterano la coerenza del tessuto romanzesco ma liberano una energia creativa insolita, con chiare implicazioni metalinguistiche ed evidenti calchi pasoliniani. L’insistenza verso la retorica dell’interrogazione, lungi dal togliere peso alle singole voci, conferma la vocazione paradossale dell’autrice e lascia spazio infine a qualche punto fermo:
Una cosa è certa. Si tratta di una “romanza di Laura Betti”: la sua figura si strizza e dilata in un farandolico cangiare di ruoli, maschera e volto appaiono e scompaiono in un indiavolato nascondino. Forse-però-chissà la Laura tiene saldi in mano i suoi fili anche la penna svaga e lo sguardo insegue palloncini di sogno, ondeggianti sopra al suo cappello di rose (ibidem).
Spingendo la propria immaginazione oltre i confini dei generi letterari, Betti inaugura una nuova forma, composita, originale, potentemente ‘schizofrenica’, che attende di essere interpretata attraverso uno sguardo periferico, capace di tenere insieme registri, codici, pratiche diverse nel solco di una recente formulazione – ancora tutta da indagare – che risponde al nome «divagrafia» (Rizzarelli 2017).
2. Palinsesti d’attrice
Basta scorrere le dichiarazioni rilasciate da Betti intorno al romanzo per accorgersi di un minimo comun denominatore, utile a indirizzare la lettura verso quel che può dirsi il genere delle «memorie delle personagge», cioè l’insieme ancora disomogeneo dei testi che «mettono in racconto frammenti di vita di una figura creata dall’attrice» (Rizzarelli 2017). Più che aderire al modello dell’autobiografia, infatti, Teta veleta si spinge fra gli impervi territori dell’autofinzione riconfigurando, grazie al filtro della recitazione, la prassi dell’invenzione dell’altro da sé. Al di là di qualche vezzo, e di un tono spesso mordace, Betti è in grado di riconoscere l’impurità della disposizione biografica del suo racconto e offre una importante indicazione:
Madame è una pura autobiografia?
È autobiografico a sbalzi. Ma il punto di partenza è fantastico, surreale. Madame è un libro ironico, un modo di farmi beffa di me stessa; ma io so anche presentarmi nella luce migliore. Madame è un personaggio di romanzo che compie il suo viaggio, a tratti drammatico (Betti 1989).
L’oscillazione fra dato concreto e immaginazione letteraria viene solo apparentemente risolta attraverso l’adozione della forma-romanzo; in realtà la frizione tra modelli diversi introduce un tasso di eversione notevole:
Il mio libro è divertente, anche se molto duro; è scostante, ermetico, politico, di denuncia: per chi vuol capire. È disperato, al di fuori, spero, della letteratura. […] La mia è una scrittura molto parlata, vissuta, diversa. È una rivisitazione, è un romanzo in terza persona; per lo meno è stato messo nella collana dei romanzi. C’è un personaggio che fa delle storie (Betti 1979b).
Queste storie si muovono secondo traiettorie sghembe, che mimano dinamiche brechtiane (per il continuo straniamento fra autrice e personaggia) e giungono a edificare una ‘grande recita burlesca’, nella quale trovano spazio frammenti discorsivi misti, legati a moduli da cinema, pezzi di dialogo, pagine di un diario simulato. Nel dar corpo a figure reali e ombre fittizie (ma forse altrettanto concrete) Betti assume una precisa postura narrativa, inventa un lessico a tratti urticante e riesce a recuperare le tre istanze che per Lejeune sono il fondamento dello studio psicologico di un’autobiografia (Lejeune 1986): la memoria (si pensi al lungo inserto iniziale dedicato alla ricostruzione dell’infanzia della protagonista); la costruzione della personalità (è quel che accade quando Betti richiama la parentesi divistica romana); l’autoanalisi (come dimostra la sezione più sfuggente, La clinica, in cui l’autrice dà corpo a un’«insalata di parole, neologismi, fuga dalle idee, incoerenza, fatuità» – Betti, 1979a, p. 130).
L’anomalia di Teta veleta si coglie però non solo nell’audacia di una struttura centrifuga ma anche nella ambigua relazione che lega ‘colei che dice io’ alla figura cardine dell’opera, Madame. Ancora una volta è Betti a descrivere la peculiarità del dispositivo e a offrire una via d’accesso privilegiata:
è un libro che si compone di queste parti: c’è un io che nasce e cresce. Questo io ha contatti con un certo tipo di mondo, si rifugia dentro questo mondo e viene inghiottito. Dunque non è più io, ma diventa “madame”. È la prima perdita di identità. In questa perdita di identità questo personaggio subisce anche una amputazione di quello che è un proprio mondo preciso e qui uno può leggere quello che vuole (Betti 1979b).
Le ferite dell’io sono al centro dell’immaginario metamorfico di questo testo e in effetti inducono a interpretazioni di ogni tipo, tanto è ampio lo spettro delle identificazioni e degli sdoppiamenti [figg. 2-3]. Chi intenda decrittare in modo schematico le insegne di Madame, e dei suoi tanti alter ego, rimarrà deluso dall’impossibilità di venire a capo di una scacchiera di ruoli e azioni che non si piega a letture ideologiche precostituite. A rendere vano ogni sforzo, poi, è ancora e sempre Betti, maestra di depistaggi e controdeduzioni:
Non è una biografia. È vedere infinite parti di me che interessano anche gli altri. Sono degli sdoppiamenti, delle proiezioni. In realtà non c’è nulla di me. Anche la parte riguardante l’infanzia è inventata. Poi c’è il filo delle proiezioni che si spezza e inizia l’avventura di Madama, alla ricerca di un faticoso smascheramento di quello che non c’è, di un nodo che non si riesce nemmeno a colorire, ed è neutro. In mezzo a queste cose si muove Madama; che può essere tante altre cose ma non sono io (Betti 1979c).
La provocatoria, e per certi aspetti ironica, negazione di sé come matrice del racconto sembra confermare il giudizio di Zanzotto che coglie nella «non-volontà di definirsi» la verità dell’opera. È nella piega fra due modi della soggettività (io (non) sono io/io sono un’altra) che si consuma la parabola di Teta veleta, ovvero l’avventura en travesti di un’attrice che gioca con le sue maschere nel tentativo di ricucire la vertigine di una perdita. In tale prospettiva Madame appare come personaggio compensatorio, figura di compromesso che vive sul filo di felici inganni: «la mia dimensione è bizzarra, in technicolor e paillettes, mentre i ricordi stanno nella gamma del “pastello”» (Betti 1979a, p. 145). Se le paillettes alludono alla natura semantica del costume, origine di ogni interpretazione teatrale, è facile ipotizzare che esista una piena coincidenza fra corpo e lingua dal momento che «scrivere 180 pagine […] corrisponde esattamente a quello che sono io in teatro, sugli schermi e quello che sono in privato» (Betti 1979c). L’analogia fra performance e (auto)biografia viene confermata da Betti a dieci anni di distanza dalla pubblicazione di Teta veleta, in coincidenza dell’edizione francese del romanzo, a ribadire come l’artificio della letteratura si saldi al progetto complessivo della sua vita d’artista:
Ho cominciato un nuovo romanzo. Ma non mi sento una scrittrice; io non scrivo che sotto la spinta dell’urgenza, della necessità […]. La scrittura completa la recitazione dell’attrice. Non rischio di diventare schizofrenica perché sono entrambe in armonia; io sono un’improvvisatrice della lingua. Immagino dei linguaggi esattamente come se recitassi (Betti 1989).
L’invenzione dell’io passa dunque dalla rivendicazione di un’agency che tocca diversi ambiti espressivi e confina con l’utopia di una libertà folle, «inarrestabile perché inventata, ricostruita» (Betti 1979a, p. 117). Per indagare il nucleo di verità che anima il progetto di questa scrittura occorre una concreta pratica intertestuale nonché un’attenta analisi degli scarti di Pasolini perché Betti è ancora legata al suo sguardo mentre ricompone il carosello della propria vita. Basti pensare all’‘effetto-filigrana’ di questo frammento della sceneggiatura dell’Ultimo poeta espressionista per capire quanto la ‘pupattola bionda’ sia una creatura pasoliniana:
A trionfare è una ragazza bionda, con un parrucchino biondo, infante, asessuale e provocante; che è evidentemente fuori dal gioco letterario e politico (è un’attrice, mettiamo), e quindi interviene in quel gioco con la più sfrenata libertà, una libertà addirittura blasfema, scatologica, offensiva, ma intelligente (Pasolini 2000, p. 2651).
L’atto di obbedienza di Betti al suo Pigmalione consiste nell’aver cercato di incarnare l’immagine di sé che lui aveva sognato e così l’unica possibilità per trovare quella «sfrenata libertà» è continuare a inseguire la sua ombra ri-velata [fig. 4].
Bibliografia
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P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. XVI.
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S. Rimini, ‘«Recitare o esistere». Il paradosso di attrice di Laura Betti’, Avventura, 4, 1, 2018, pp. 109-124.
M. Rizzarelli, ‘L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa delle ‘divagrafie’’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle,