Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati

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«Affascinante come un romanzo, documentato come un saggio accademico». La prima riga del risvolto di copertina che accompagna il nuovo libro di Alessandra Sarchi suggerisce immediatamente un quesito che i teorici della letteratura ci hanno insegnato a porci in modo quasi automatico e prioritario: a quale genere del discorso appartiene il testo che stiamo leggendo? La medesima riga, nel suscitare tale interrogativo, pare delimitare anche gli estremi dello spettro di possibilità: il romanzo, narrazione ‘affascinante’ per la sua capacità di avvincere chi legge, e il saggio accademico, rigoroso nel suo processo di ‘documentazione’. Le due tesi implicite che gli editori del testo di Sarchi sembrano avallare contrapponendo i due aggettivi corrispondono all’opinione generale nei confronti tanto dell’uno quanto dell’altro genere: il romanzo è associato al mondo della finzionalità, della ‘fantasia’ (intesa come facoltà immaginativa) su cui di norma si fonda gran parte del suo potere affabulatorio; si pensa al saggio accademico come a un qualcosa che, invece, sacrifica ogni velleità creativa a favore della documentazione che deve essere statutariamente manifesta in numerosi punti del testo (note a piè di pagina, citazioni da altri saggi, riferimenti interni, bibliografia finale ecc.), in nome di una scientificità che sempre più deve essere resa esplicita a fronte dei complessi procedimenti valutativi in seno alle istituzioni accademiche.

Quello che fa Alessandra Sarchi nel suo La felicità delle immagini, il peso delle parole (Bompiani, 2019) non è solamente eludere il tentativo di una rigida classificazione, ma anche, implicitamente, smantellare le prassi e le abitudini culturali associate tanto alla sfera del romanzo quanto a quella del saggio accademico. Come a dire: si può ‘raccontare’ anche qualcosa che non rimandi immediatamente a una storia finzionale o autobiografica (perché l’autofiction ci insegna che ormai il secondo orizzonte è stato ricompreso nel primo), ovvero si può scrivere qualcosa che abbia un valore dal punto di vista culturale – o anche scientifico – senza necessariamente dover sottostare a quel complesso di leggi scritte e non scritte che soggiacciono all’editoria accademica (l’ansia della citazione, lo sfoggio dell’erudizione, l’applicazione fedele di una particolare teoria, il ricorso talvolta a quella variante del burocratese contro cui si è scagliato a più riprese Claudio Giunta).

L’autrice compie contemporaneamente un gesto di libertà e una proposta di metodo. In primo luogo, si libera dai vincoli (e dagli orizzonti d’attesa) di questo o quel genere, ma lo fa recuperando una ‘prassi’ dell’interpretazione prima e della scrittura poi, cioè l’‘esercizio’, come si legge nel sottotitolo. Esercizi di cosa? Della lettura primaria dei testi di alcuni autori che, in modi differenti, si sono interrogati sul rapporto fra parola e immagine. E qui ci addentriamo più nello specifico della proposta di metodo di Sarchi, che viene sapientemente strutturata in modo organico all’interno dell’intero testo, lasciando però il compito ai primi due capitoli di costruirne le fondamenta.

Le relazioni tra arti della parola e arti della visione costituiscono uno dei fronti più vivi e fecondi degli studi comparatistici sia in Italia che all’estero. Ma al posto di ricorrere a categorie narratologiche (eminentemente linguistiche) per rinvenire strumenti analitici e panorami di riferimento – come accade soprattutto negli studi intermediali d’oltralpe – Sarchi, che è storica dell’arte e scrittrice, compie un’operazione inversa che pertiene in primis alla storia dell’arte e alla storia della critica d’arte, rintracciando i segni del dibattito tra realismo e astrattismo, soprattutto nell’Italia del secondo dopoguerra, partendo da dati contestuali: gli incontri fra artisti e scrittori, l’eredità di magisteri universitari (come quelli di Longhi, Venturi e Arcangeli), l’animazione di riviste (Il Politecnico, Paragone ecc.) e la pubblicazione di manifesti pittorici costituiscono gli elementi di definizione di una storia dell’episteme che si interseca, a sua volta, con le poetiche individuali di ciascuno degli scrittori presi in considerazione nei capitoli monografici.

In ciascuno dei cinque ‘esercizi di lettura’ Sarchi ricompone, con una scrittura sempre misurata e lineare, il complesso campo di forze che si agita attorno a scrittori e opere attingendo ad una varietà di strumenti: dall’attenzione alla poetica dell’autore e dalla ricostruzione dei dibattiti – attraverso un lavoro d’archivio probabilmente imponente eppure sotterraneo, quasi nascosto – avvenuti su riviste, quotidiani ma anche in corrispondenze private, sino alla critica tematica ma soprattutto all’analisi testuale. Il recupero della centralità dei testi letterari di ciascun autore, di cui vengono riportati cospicui passaggi, costituisce il nucleo centrale dell’esercizio: leggere un passo che, per quanto frammentato e disgiunto rispetto all’opera più ampia che lo contiene, offre in sé una serie di elementi (ricorrenze semantiche, simboli, caratterizzazione dei personaggi e dell’ambiente) significativi; ai quali, cioè, possiamo provare ad attribuire un certo significato, che possiamo dunque provare a interpretare.

Queste chiavi di lettura sono simili eppure diverse in ciascuno degli autori scelti da Sarchi: troviamo allora gli sguardi inespressivi che si riflettono in specchi o assumono maschere nello scrittore-pittore Moravia, le autoidentificazioni e la riflessione tra visione naturalistica e antropica nello scrittore-collezionista Volponi, il complesso rapporto tra pittura, cinema e letteratura in Pasolini, l’opacità dello sguardo e l’autoriflessione percettiva di Calvino, sino a giungere all’occhio fotografico di Celati nel suo sodalizio artistico con Ghirri.

Ma perché proprio questi autori e non altri? Perché estrapolare e analizzare proprio quei brani? In un testo che rifiuta statutariamente le regole del saggio accademico ma che non rinuncia al rigore intellettuale (mancano note e riferimenti interni, ma ciascun capitolo è dotato di una bibliografia scrupolosa), che fa della chiarezza sintattica e lessicale – una lingua priva di tecnicismi ma non per questo meno accurata – la propria cifra stilistica, la giustificazione di intenti è all’insegna di quell’atto di libertà citato all’inizio.

In più di un’occasione – dal proprio blog personale alle interviste rilasciate per l’uscita del libro – Sarchi ha evocato come possibile modello di riferimento il personal essay anglosassone, un genere poco praticato in Italia e di cui alcuni esempi esteri ci sono giunti recentemente grazie all’ottimo lavoro della collana La cultura del Saggiatore, in cui la riflessione saggistica è mescolata a esperienze private di chi narra. Ma a differenza del personal essay, l’‘io’ di Alessandra Sarchi compare solo una volta nell’intero libro, proprio nel momento in cui dichiara le motivazioni che l’hanno spinta a concentrarsi sugli autori da lei selezionati:

 

Ho scelto alcuni autori, Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino e Celati, in cui la pittura e l’immagine mediano all’interno della pagina scritta un valore altrimenti non realizzabile, in quanto è lo sguardo inteso come azione che promuove direttamente la parola. Diversi per cultura, generazione di appartenenza e approccio ai fatti visivi, questi autori hanno in comune la messa in scena, all’interno dei loro testi, della figura di un pittore, di un conoscitore d’arte, di uno scrutatore di professione che del vedere, del tradurre il mondo in immagini sul mondo si fa carico come di una missione. Attraverso questi autori, tra i primi esposti alla pressione dei nuovi media portatori di narrazione, fotografia e cinema, è possibile seguire una piccola parabola istruttiva su come visione, storia, realtà e irrealtà abbiano cambiato il loro significato in una cinquantina d’anni (p. 19).

 

I cinque esercizi di lettura sono dunque exempla di una dinamica culturale, ma anche frutto di una scelta di cui si rivendica la volontà e l’individualità, attraverso quella prima persona singolare che ci hanno insegnato ad omettere quando si scrive nella e per l’università, creando un testo ibrido che propone un modo diverso di scrivere di arte e letteratura.