Ninetto, passione e ideologia

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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La presenza cinematografica di Ninetto Davoli nei film di Pasolini rappresenta un campo di tensioni estetiche e ideologiche. Prima di tutto apparendo nella vita e nelle opere di Pasolini quando stava perdendo la fede e l’amore nella realtà e nel sottoproletariato romano. Davoli è visto come un simbolo di sopravvivenza di grazia e purezza e, in alcuni scritti di Pasolini, come colui che è in grado di dar vita a momenti unici di espressione di felicità. Da Edipo Re (1967) in avanti, la sua figura appare come un Anghelos, un presagio del cambiamento e della sventura, in una crescente visione pessimistica della società.

Ninetto Davoli's cinematic presence in Pasolini's films constitutes a field of aesthetic and ideological tension. Firstly appearing in Pasolini's life and works when the author was losing faith and love in reality and in the Roman underclass, Davoli is seen as a surviving symbol of grace and purity and, in some of Pasolini's writings, he brings to life some unique moments of happiness. From Edipo Re (1967) onward, his figure appears as an Anghelos, a harbinger of mutation and misfortune, in an increasingly pessimistic view of society.

 


 

1. Costretti a essere

Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano (…) se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti, ecc. ecc... (Pasolini 1999a, p. 601).

 

In queste celebri righe dell’Abiura dalla “Trilogia della vita”, scritte da Pier Paolo Pasolini qualche mese prima di morire e uscite postume, colpisce uno strano verbo: ‘costretti’. Chi costringeva, fino a qualche anno prima, i giovani sottoproletari romani, immondizia umana, imbecilli, squallidi criminali, vili inetti, a essere adorabili, simpatici e innocenti? La risposta è, mi pare, implicita nel testo (e a un passo dalla confessione): Pasolini stesso, il suo sguardo, e diciamo pure la sua logica del desiderio.

Da qui, forse, occorre partire per afferrare il senso ambiguo della presenza di Ninetto Davoli nel suo cinema. La figura dell’attore è indissolubilmente legata a quella del regista, è (insieme a quello di Franco Citti in Accattone) il volto con cui il suo cinema è spesso identificato. Eppure tra le due figure c’è un abisso. Il corpo, i gesti di Ninetto Davoli sono in Pasolini un campo di tensioni erotiche, estetiche e ideologiche: una creatura che miracolosamente appare mentre il suo mondo va scomparendo (o va morendo negli occhi e nel cuore del poeta), forse l’ultima speranza che i giovani e i ragazzi non siano, ‘già allora’, così e così.

Davoli arriva nel cinema di Pasolini, paradossalmente, quando questi, ben prima dell’abiura della Trilogia, sta dicendo addio al mondo delle borgate, al presente, a ogni forma per quanto complessa e contraddittoria di realismo. Si sta spingendo verso l’apologo, la favola, la parabola, il mito – ma si porta dietro, come un fantasma, Ninetto. Lo aveva conosciuto quattordicenne all’epoca delle riprese della Ricotta, lo fa comparire per la prima volta come pastorello nel Vangelo secondo Matteo e poi lo mette al centro della scena, a fianco a Totò, in Uccellacci e uccellini. In mezzo si è consumata una cesura, simboleggiata anche fisicamente dal crollo fisico e dal ricovero del poeta, nel marzo del 1966.

Osserviamo questo nuovo corpo che si affaccia sullo schermo, dapprima in un chapliniano campo lunghissimo a distanza. «Ninetto di Innocenti Totò e Semplicetti Grazia»: così declina a un certo punto le sue generalità, e così, sempre, il regista lo farà agire. Le sue prime battute sono domande ingenue e radicali: «Chi te l’ha detto e perché?», «E che è st’alta marea, e da che dipende?». E l’interrogazione stupita resterà un topos del suo personaggio, fino a esplodere in Che cose sono le nuvole? dove, appena affacciatosi alla vita, esclamerà: «Come so’ contento! Perché so’ così contento? E che vor dì che so nato?». E nel finale chiederà, appunto: «E che so’ ste nuvole?» [fig. 1].

Ninetto e Totò, due ex sottoproletari oggi padroncini, in fondo (con affittuari da spennare senza pietà), camminano per tutto il film, ma il giovane non cammina soltanto: corre, saltella, balla, caracolla, batte le mani. Interrogativo sempre, stupito davanti all’esistenza propria e del mondo, sta leggermente chino in avanti, con le spalle un po’ incassate, lo sguardo a volte in alto, al cielo [fig. 2]. Le sue reazioni sono istintive, infantili, senza sfumature: si sganascia (quando Totò imita i passeri), piange (dopo che i falchi li hanno mangiati), fischietta vistosamente mentre si accingono a mangiare il corvo. Sembra un bambino che giochi a fare l’attore, e che la macchina da presa abbia colto in questo gioco. Non esiste, in lui, un’espressione neutra [fig. 3]. Quando corre verso una ragazzina vestita da angelo (e Ninetto, unico in questo, è sano e candido anche nel suo rapporto con le donne), dopo aver ricevuto un bacio lo vediamo saltare al ralenti sulle musiche di Bach, e la sua corsa è tanto diversa da quelle degli attori delle nouvelle vague, borghesi lanciati verso l’affermazione di sé nel mondo e verso la rivolta: Ninetto, piuttosto, danza, o plana.


 

2. Essere morti

Ninetto è un angelo, insomma, un simbolo di grazia e di candore come mai ne aveva messi Pasolini nei suoi film precedenti. La spia è la risata, rumorosa e forzata ma limpida, così diversa dagli sghignazzi infernali di Accattone e dei suoi amici (che ricordano quelle del sonetto di Belli: «Chi rride cosa fa? Mmostra li denti»), ma anche dal sorriso ebete di Ettore Garofolo in Mamma Roma. Si sente che il regista lo fa sforzare a ridere, e che lui, in questo sforzo, ‘gioca a ridere’. Inoltre a Davoli Pasolini farà un dono mai fatto fino allora ai suoi interpreti sottoproletari: la voce. Ninetto Davoli, infatti, diversamente dagli attori/non-attori dei film precedenti, è il primo a doppiarsi da solo. Un personaggio come il suo non sarebbe pensabile nei film precedenti, e se resta ostinatamente in quasi tutti i successivi è per una scelta precisa, volontaristica, ideologica. In Uccellacci morte e violenza sono esterne ai personaggi, che le attraversano e le contemplano. Totò e Ninetto sono due fantasmi, come affermerà più esplicitamente, l’anno dopo, la morale di La terra vista dalla luna. «Essere vivi o essere morti è la stessa cosa». Ma già qui, più radicalmente ancora: «La vita è niente, la morte è tutto».

I tre cortometraggi che precedono e accompagnano il ’68, La terra vista dalla luna, Che cosa sono le nuvole? e La sequenza del fiore di carta, sono una piccola, aerea trilogia della morte, in cui Davoli replica il proprio personaggio con diverse sfumature. Nel primo, in una torsione fumettistica con parrucca arancione, è più defilato accanto a Totò, e ancora piange e ride senza sfumature, saltella in tuba, batte le mani, finge di piangere, fa il mimo per parlare alla nuova moglie sordomuta del padre (Silvana Mangano). Nel secondo è un ingenuo Otello, e la sua recitazione da non-attore è messa a confronto con interpreti provenienti dal cabaret, dall’avanspettacolo, dal teatro popolare, estraneo a quell’atmosfera da opera dei pupi come un borgataro che una mattina si fosse svegliato Otello per caso (e Laura Betti ricorda i divertenti pasticci, con Davoli che in mezzo a quegli attori si confondeva, sbagliava le battute, messo in soggezione) (Faldini, Fofi 1981, p. 400). Nell’ultimo è trasportato nel centro di Roma, come un marziano o ancora un fantasma: la parabola parla di un innocente punito perché vive fuori dalla Storia; ma in realtà questo Ninetto è ormai una piena costruzione ideologica. Non ci sono più sottoproletari, nel Pasolini di quegli anni, se non lontano nello spazio e nel tempo: e il regista ne resuscita uno solo, pieno di grazia sognata, per ucciderlo definitivamente (è sua una delle voci di Dio che lo condannano).

Ninetto è insomma un’ultima, disperata sopravvivenza in uno sguardo ormai sempre più disincantato, e forse per questo Pasolini ne accentua i caratteri positivi, angelici, candidi. Il momento storico in cui l’attore compare nel suo cinema è lo stesso in cui il regista teorizza il cinema come «lingua scritta della realtà», una pan-semiologia mistica e feticista del reale, il sogno di una realtà che si scrive da sola (cfr. Pasolini 1999b, pp. 1503-1540). Ma, in un caso come nell’altro, si tratta di due movimenti compensativi: il cinema diventa lingua scritta della realtà proprio quando Pasolini non crede più all’evidenza ambigua e soverchiante di quella realtà (che è per lui, anzitutto, la realtà sottoproletaria: «i poveri sono reali, i ricchi irreali», dirà ancora dieci anni dopo) e vede avanzare quella che la sua amica Morante ha chiamato poco prima, in una celebre conferenza (cfr. Morante 1987), ‘irrealtà’. Piergiorgio Bellocchio, infastidito probabilmente dal disperato volontarismo di questa maschera, metteva spietatamente proprio le apparizioni di Davoli fra i punti più deboli del Pasolini regista: «Che Pasolini amasse Ninetto Davoli non è una buona ragione per infliggercelo continuamente. Non che Davoli non sia simpatico, ma certo per me non simboleggia la vita o la purezza di cuore o l’allegria innocente […]. E se ride e balla non mi contagia affatto» (Bellocchio 2022, p. 334).


 

3. L’idea di Ninetto

La sequenza del fiore di carta viene girato tutto in un giorno, per strada, nell’estate del ’68. Pasolini ha pubblicato da poco la sua poesia contro gli studenti, ed Elsa Morante Il mondo salvato dai ragazzini. Pasolini risponde all’amica con due poesie che escono su Paragone nell’ottobre successivo, e poi confluiscono in Trasumanar e organizzar (cfr. Pasolini 2003, pp. 35-54). Lì, contrappunto agli FP (i Felici Pochi) di Morante, il poeta ritrae di sfuggita ma esplicitamente Ninetto, mettendolo a confronto col Pazzariello morantiano. Sembra voler rinforzare il discorso dell’amica, in realtà lo contraddice, dice che lui il Pazzariello lo aveva visto prima di lei, ed era Ninetto («L’idea di Ninetto a te dovuta […] è superiore al pazzariello», ivi pp. 45-46). Ma il tono di fondo parla più chiaro delle contorte argomentazioni in cui si ingorgano i versi di Pasolini: e il senso è, si direbbe, di mettere Ninetto ‘contro gli studenti’, il sottoproletario che non esiste più, ed è stato prelevato e reinventato dall’autore, contro i borghesi; l’eterno adolescente contro i ‘giovani’: «I ragazzini devono avere meno di diciotto anni. / Devono essere minorenni!!» (ivi, p. 50) urla nei versi. Ninetto, frattanto, ne ha già quasi venti. E sarà proprio Ninetto, tra l’altro, e la gelosia di Pasolini nei suoi confronti quando si innamorerà di una ragazza, a scatenare il dissidio definitivo tra lui ed Elsa. In quelle stesse settimane, con candida perfidia, Bernardo Bertolucci, ossia una delle altre voci divine che condannano a morte Davoli nella Sequenza del fiore di carta, in Partner fa interpretare a Ninetto uno degli studenti dell’Accademia d’arte drammatica a cui Pierre Clémenti spiega come costruire una bomba molotov.

In quegli anni Ninetto compare più volte nelle pagine pasoliniane, e sono oasi di felicità in una sfiducia sempre più nera verso la società. Uno dei tanti epiloghi (Pasolini 2003, pp. 101-102) è secondo Walter Siti l’unica poesia d’amore che Pasolini abbia mai scritto, un sogno in cui ancora una volta il ragazzo sorride e fa domande (ma è chiamato Ninarieddo, alla meridionale, come inconsciamente reincarnato in un altrove, più a Sud). In appendice alle riflessioni linguistiche di Empirismo eretico, in un testo del ’65, Pasolini lo descrive vedere felice per la prima volta la neve a Pescasseroli (cfr. Pasolini 1999b, pp. 1331-1333). In una rubrica del luglio ’69 su Tempo Ninetto raccoglie delle mele sulle rive del Trasimeno (cfr. Pasolini 1999a, p. 1229): uno dei più bei frammenti narrativi dell’autore, commenta Siti, una scena «da paradiso terrestre, prima della colpa» (Siti 1988, p. XVI).


 

4. Ninetto nel mondo dell’irrealtà

Nell’Avvertenza finale ad Alì dagli occhi azzurri (Pasolini 1998b, pp. 889-890) «Ninetto è un messaggero, / e vincendo (con un riso di zucchero / che gli sfolgora da tutto l’essere, / come in un mussulmano o un indù) la timidezza, si presenta come in un aeropago / a parlare dei Persiani»: suo il compito di annunciare la venuta, appunto, di Alì dagli occhi azzurri. E questo ruolo trasmigra dal testo nei film. Anche in Edipo Re è un messaggero (un Anghelos), ma significativamente per una volta doppiato (in siciliano), come scorporato e allontanato da sé stesso («Egli eroicamente ride, / paria innocente: intoccabile sì, ma anche inattingibile», così in Comunicato all’Ansa (Ninetto) (Pasolini 2003, p. 77) e il suo ruolo è di condurre dapprima saltellante Edipo verso Giocasta, tramite inconsapevole del tragico incontro, e poi di assistere afflitto il povero Tiresia maltrattato da Edipo stesso. Messaggero/angelo è ancora in Teorema, un postino che entra nella casa dei borghesi letteralmente sbattendo le braccia a mo’ di ali [fig. 4]. Così lo descrive il romanzo che Pasolini scrive in parallelo al film: «L’Angiolino, quello che possiamo considerare come il settimo personaggio del nostro racconto, o per dir meglio, una specie di jolly. Tutto infatti in lui ha un’aria magica: i ricci fitti e assurdi, che gli cadono fin sugli occhi come a un can barbone, la faccia buffa, coperta di foruncoli, e gli occhi a mezzaluna, carichi di una riserva senza fine di allegria» (Pasolini 1998b, p. 904). Anche qui, reca con sé un telegramma che annuncia la venuta dell’Ospite, portatore del sacro e della distruzione nella casa borghese. E nell’episodio arcaico di Porcile la sua figura saltellante al suono di un flauto è ormai riconoscibile, come un marchio di fabbrica, e il suo candore stride con un universo di orrori borghesi o metastorici.

Curiosamente, è nella ‘Trilogia della vita’, questo trionfo del volontarismo pasoliniano (una trilogia, si direbbe, già pronta per l’abiura mente Pasolini la pensa e la gira), che Davoli per la prima volta interpreta davvero un personaggio. Nel Decameron, precisamente, dove nei panni di Andreuccio da Perugia, i suoi marchi di fabbrica (il sorriso solare, la saltellata, i bronci) sono molto in sottotono. E se nei Racconti di Canterbury lo traveste da Charlot con tanto di bombetta tornando in parte all’atmosfera degli episodi anni Sessanta, l’episodio del Fiore delle mille e una notte, vicenda di un giovane che ama una misteriosa donna e per lei fa morire la moglie, adombra forse lo stato d’animo del regista stesso, e cala ormai l’attore in un altrove lontanissimo e fiabesco. Insieme a lui torna nel film Franco Citti, in veste però di demone feroce: angeli e diavoli, oramai. La storia è una parabola di presa di coscienza, la scoperta della colpa e del pentimento: l’ultimo film di Pasolini con Ninetto è il primo film in cui Ninetto interpreta un personaggio ‘che cresce’. Ma è singolare che il momento della crescita passi attraverso una letterale castrazione: l’amante abbandonata per un’altra donna ancora vorrebbe uccidere il giovane, ma ripiega verso un’evirazione per soffocamento, con un laccio-forca che strangola il cazzo di Ninetto [fig. 5].

In Salò, Ninetto Davoli non ci sarà: un’assenza che se la si nota è forse l’unico elemento di luce, per negazione, di uno dei film più atroci della storia del cinema. Riapparirà però nel primo film che Sergio Citti gira dopo la morte di Pasolini, Casotto. Arriva da solo, all’inizio e alla fine, e visita il set vuoto, prima e dopo che tutto abbia luogo, inconsapevole testimone. Proprio in quella Ostia, si pensa con un brivido, in cui lui stesso, la mattina di un anno prima, era stato chiamato a riconoscere nel cadavere all’Idroscalo il corpo del poeta.


 

Bibliografia

F. Faldini, G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1981.

E. Morante, Pro e contro la bomba atomica, conferenza letta al Teatro Carignano di Torino nel febbraio 1965, L’Europa letteraria, 34, marzo-aprile 1965, ora in E. Morante, Pro e contro la bomba atomica e altri scritti, Milano, Adelphi, 1987, pp. 97-117.

P. Bellocchio, Diario del Novecento, Milano, il Saggiatore, 2022.

P.P. Pasolini, Romanzi e racconti. 1946-1961, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998a.

P.P. Pasolini, Romanzi e racconti. 1962-1975, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998b.

P.P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999a.

P.P. Pasolini, Scritti sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999b, II voll.

P.P. Pasolini, Tutte le poesie, II, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003.

W. Siti, ‘Tracce scritte di un’opera vivente’, in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti. 1946-1961, pp. IX-LXXXIX.