2.2. Gli autoritratti ‘fratelli’ di Pasolini e Francis Bacon

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Dal romanzo Teorema al film lo strumento della ‘nuova iniziazione’ di Pietro passa dall’osservazione di Wyndham Lewis, fondatore del vorticismo, alla folgorazione visiva di Francis Bacon. Non cambiano solo immagine ed epoca, a cambiare è il senso. Lewis è un esempio fra i tanti della scarnificazione estetica e formalista delle avanguardie in opposizione alla storia dell’arte studiata al liceo; Bacon è invece corpo artistico pulsante, che approda all’invenzione di uno stile innovativo sulla base di una profonda tensione, trovando nella creazione di una nuova forma la risposta a una realtà contemporanea alienante. La cinepresa mostra per primo, e con maggior insistenza, i Tre studi per figure ai piedi di una crocifissione dipinti da Bacon nel 1944, cioè un ‘classico’ trittico, riferito a un ‘classico’ soggetto come la crocifissione, ma plasmato in modo sconvolgente a causa del corto circuito tra la macerazione interiore dell’artista e la distruzione fisica dovuta alla guerra. Pasolini affida a Bacon il compito di essere non la semplice occasione della scoperta di una diversità formale, ma la dimostrazione di un rapporto tra tensione interiore, sguardo sul mondo e forma nuova; complessità che si perde dopo la partenza dell’Ospite e la privazione del sacro, con l’approdo a un inquieto e sofferto ma ormai vuoto avanguardismo.

Nel mistero delle figure di Bacon uscite da un tragico incubo (o macerate nella sofferenza del corpo desiderante, come nelle Two figures in the grass, che rappresentano un rapporto omosessuale, su cui la cinepresa insiste), Pasolini spia i riverberi dei propri incubi, riconoscendo la consonanza lontana di un pittore-fratello, così come da poco aveva riconosciuto in poesia la sintonia col ‘fratello’ Ginsberg. Una fratellanza istintiva, evidente anche nell’opera pittorica di Pasolini, come ha notato per primo Fabien Gerard, quando per l’Autoritratto col fiore in bocca del 1947 ha parlato esplicitamente di «sconcertante [...] anticipazione del tocco distorto di Francis Bacon». Gli autoritratti dei due artisti mostrano, infatti, una speculare consonanza di volti deformati da campiture cromatiche che riflettono passioni inesprimibili, fra sensualità e sofferenza.

Il volto verdastro solcato da pennellate bianche e nere, un fiore rosso in bocca, un disegno di ragazzo sulla parete: il quadro di Pasolini non è solo immagine di un viso, ma una vera mappa semantica. Non c’è descrizione, ma narrazione cifrata, come in certi ritratti rinascimentali ai limiti del rebus. Il disegno sullo sfondo denuncia la fascinazione omosessuale per i ragazzi, l’incanto per il mondo contadino friulano e più in generale la necessità di un’osservazione ‘limpida’ della realtà oggettiva. Il volto di Pasolini crea un distacco violento e doloroso da quel mondo, che pure ne è inglobato (la cornice sembra chiudere il quadro in una gabbia), a cominciare dall’opposizione tra i colori irreali del volto e il nostalgico bianco e nero del disegno, che preannuncia un’analoga opposizione nel cinema, dove Pasolini affiderà il compito di sondare la realtà al b/n abbacinato dei primi film, mentre il colore fauve dei cortometraggi con Totò dovrà introdurre all’affabulazione e al mito. Riecheggia la memoria degli autoritratti di Van Gogh: quello col dipinto alle spalle, quello con la pipa in bocca, e altri ancora, tutti dai volti sfigurati da pennellate febbrili che riverberano una psiche inquieta. Anche nel suo autoritratto Pasolini racconta l’inquietudine febbrile dei suoi 25 anni, che ha al centro l’ossessione sessuale, lucidamente descritta nel dissidio tra il disegno schizzato di un ragazzo dai tratti angelici e ingenui, e quel fiore rosso in bocca, segno di passione erotica e carnalità. Il volto è cupo, livido: un alieno che volge le spalle al suo desiderio eppure ne è risucchiato, inchiavardato dalle pesanti linee verticale e orizzontale che lo bloccano come due spranghe infilate nel cranio: «Jo i soj neri di amòur» («Io sono nero di amore»), scrive in quegli anni nella prima Dansa di Narcís, mentre nella terza osserva il «me pàlit / volt cu’l neri da li violis» («mio pallido volto col nero delle viole»). È il volto del prete sconvolto da un’indicibile attrazione erotica, protagonista del dramma che scrive in quei giorni, Il cappellano. È il volto dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello, che Pasolini dirige e interpreta proprio nel 1947 alla filodrammatica di San Vito al Tagliamento. Il fiore ‘violaceo’, segno di malattia mortale in Pirandello, diventa nel quadro un fiore rosso che è segno di ben altra ‘malattia’ e di una diversità irriducibile. Gli occhi quasi espunti dalle orbite che sembrano pozzi profondi, la bocca serrata per reggere il fiore, ma anch’essa nascosta dietro il nero, si sottraggono all’intelligibilità che invece hanno – rassicuranti – naso, orecchio, perfino lo zigomo, o i vestiti da bravo giovane di buona famiglia che sottolineano ulteriormente la distanza dai ‘casti’ e seducenti calzoncini-maglietta-cappello del ragazzino disegnato.

Il volto dell’Autoritratto di Bacon, distorto da pennellate d’ascendenza cubista e da una vocazione tenebrosa alla Rembrandt, si sottrae invece alla narrazione per sprofondare nella cupa assolutezza plumbea di un dolore chiuso in sé stesso. Dipinto a ridosso del suicidio del compagno George Dyer, l’autoritratto dell’ultrasessantenne Bacon non si staglia come quello di Pasolini da uno sfondo nitido, ma è risucchiato dal nero indistinto che lo circonda, che ne erode pezzi di guancia e ne scardina la struttura ossea, pur senza intaccarne il baricentro, in un vortice senza punti fermi, a parte quello del colletto di una bianca camicia borghese che lo accomuna a Pasolini. Ma al contrario di quest’ultimo, sono qui gli occhi e la bocca a risaltare: strumenti del desiderio che, anziché venire puniti e repressi, sono esaltati in una commistione di dichiarazione di sensualità e dolore: veicoli del pianto e del lamento, le labbra deturpate in una smorfia e le fessure nere degli occhi che galleggiano in occhiaie vaste come mappe da esplorare stanno in bilico tra passione e patimento.

Autoritratti simili ma profondamente diversi. Nel quadro del 1947, così come nelle più cospicue e note tracce autobiografiche presenti nel suo corpus letterario, Pasolini si mette al centro della scena, in risalto, per mostrare la propria diversità da ciò che lo circonda e che comunque fa parte del suo orizzonte di sguardo e desiderio, e lo fa con la consapevolezza di una tradizione espressiva classica, rimandando a un senso diacronico che trasforma il ‘fermo immagine’ pseudo-fotografico in film e racconto, cioè inserendo l’attimo del ritratto nella Storia. Anche Bacon, nell’autoritratto del 1971, si mette al centro della scena, ma per sottrarvisi, e la sua scena è semplicemente il nulla che lo inghiotte, un assoluto sincronico che sfugge alla dimensione storica (e quindi alla tradizione) per cercare spasmodicamente la sorgente di una passione e di un dolore non contestualizzabili. Cosa ancor più evidente se la forma-autoritratto nel corpus di Bacon è quasi sempre nei termini di un primo piano inghiottito dal nero o da un colore uniforme e astratto, con pochissime eccezioni. Nel 1982, a dieci anni di distanza, in uno Studio per autoritratto, Bacon si ritrae ancora con la testa corrotta da una campitura cromatica uniforme, ma stavolta è a figura intera, seduto in un quadrante della tela, in uno spazio azzurrino evidentemente domestico e con l’orologio al polso: il tempo entra, segnando e ‘banalizzando’ la fragilità della solitudine, in una quotidianità senza tragedia. Nel 1975, a quasi trent’anni di distanza dall’autoritratto, Pasolini si fa fotografare nudo nella sua camera mentre legge un libro. Nello scatto in b/n di Dino Pedriali lo spazio domestico accoglie la forza della solitudine, espressa con l’evidenza del corpo inerme del poeta in simbiosi con un simbolo materiale di pensiero e cultura. L’implosione di Bacon che, riscoprendo il tempo, ne concentra la scansione all’interno di uno spazio esistenziale che rifiuta di aprirsi all’esterno, si contrappone questa volta alla finta implosione casalinga di Pasolini che, riconoscendo la Storia, la affronta con la pura forza del corpo e del pensiero, dall’interno di una camera che ci appare come il bunker rugoso da cui far partire una nuova offensiva intellettuale.

 

Bibliografia

G.M. Annovi, ‘Il ragazzo col fiore in bocca’, in Id. (a cura di), Fratello selvaggio. Pier Paolo Pasolini tra gioventù e nuova gioventù, Massa, Transeuropa, 2013, pp. 65-79.

R. Chiappini (a cura di), Francis Bacon, Milano, Electa, 1993.

F.S. Gerard, ‘La toile et l’écran’, in L’univers esthétique de Pasolini, s.l., Editions Persona, 1984, pp. 65-88.

N. Mazzon, ‘L’arte dell’autoritratto: Francis Bacon a lezione da Rembrandt e Van Gogh’, La Rivista di Engramma, 27, settembre-ottobre 2003, <http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/saggio/27/bacon.html> [accessed 10 settembre 2015].

P.P Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 1968.

P.P Pasolini, La meglio gioventù, Firenze, Sansoni, 1954.

D. Pedriali, Pier Paolo Pasolini, Monza, Johan & Levi, 2011.