Scoppia la voce della Callas (l’aria di Rosina, dal Barbiere: «Una voce poco fa») e sale, su nel cielo piombo, sale sopra il cadavere, sul fango, sul sangue, sugli stracci. Pasolini è morto. Abel Ferrara decide di riscattare l’atrocità del cadavere con la voce della Callas. E forse conosce i versi meravigliosi di Trasumanar: «La lietezza esplode / contro quei vetri sul buio / Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce / è un ritorno dalla morte». Così quella morte sembra avvolta da molteplice pietas femminile: Callas, fuori, la cugina Graziella, la madre Susanna, l’amica Laura in casa. Quella voce della Callas potrebbe riscattare la morte. Sale nel cielo. Non capiamo bene il perché dell’aria di Rosina: casualità? allusività («lo giurai, la vincerò!»)?, ma quel che importa è la voce: c’è la voce della Callas, non c’è, nel film, la voce di Pasolini. Ci manca. Era forse inevitabile: sarebbe stato caricaturale, fasullo, kitsch, riprodurre quella voce un po’ strozzata, dolce, educatissima, con il lieve accento emiliano. Dafoe parla con un’altra voce. E qui Pasolini ‘ci’ manca. Ma non basta la voce della Callas per confortare gli amabili resti. Segue poi l’inquadratura azzurra del cielo dell’EUR, il palazzo fascista, la statua virile dello Stadio (già comparsa all’inizio del film). Uno squarcio di azzurro nel buio piombo dell’ultima notte e dell’alba successiva. Il cielo azzurro e le nuvole. Come Totò e Ninetto, che vedono le nuvole nel cielo, capitombolati nei rifiuti (Che cosa sono le nuvole?) e scoprono la «ineguagliabile bellezza del creato». Le nuvole e il cielo, guardati però da terra, in mezzo ai rifiuti, nella discarica: e così Ferrara fa vedere il cielo (a noi spettatori) mentre il cadavere di Pasolini, rivolto a terra, il braccio di traverso sul petto, non può vederlo. Cielo azzurro, marmo bianco, EUR: cioè fascismo. In un gioco perverso, il regista lega insieme virilità e luce. Come a dire che anche Pasolini (e in effetti fu così) si era confrontato col fascismo, lo aveva vissuto, attraversato, riassunto nell’ultimo anno di vita come metafora del Nuovo Potere (Salò).