Andrea Cortellessa, Silvia De Laude (a cura di), Vedere, Pasolini

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«Un’immagine dialettica»: si apre così, nell’evocazione della stillstand benjaminiana, il volume Vedere, Pasolini (Ronzani, 2022) curato da Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, trasposizione cartacea del numero 181 di Engramma del maggio 2021. Un volume che si aggiunge al coro dei «fescennini centenari» (p. 13) nel segno della visività o, meglio, della «fulgurazione figurativa»:[1] Vedere, Pasolini, dove Pasolini è oggetto del vedere, un vedere che si fa verbo, critica, ma anche soggetto, colui che vede, che si fa vista, immagine, luce. Una luce che squarcia le tenebre della «nuova preistoria»[2] nel tentativo costante di mostrare la realtà, il «cinema in natura»,[3] le diapositive luminose della vita al di là dell’oscurità del conformismo borghese e neocapitalista. È in questo senso che l’intera opera pasoliniana può essere considerata come un’‘immagine dialettica’, come un «montaggio»[4] continuo di materiali della realtà che si concretizza in ipostasi mobili, in immagini appunto, nelle quali convergono e si riattivano traiettorie culturali vicine e lontane, dal mito alla contemporaneità politica, dalla cultura figurativa seicentesca alla critica letteraria del Novecento. Ed è sempre in questo senso che Vedere, Pasolini può essere interpretato come la fotografia di un soggetto in movimento, come una rappresentazione attiva in cui le direzioni della poiesis pasoliniana convergono da tempi multipli, da prospettive plurime (e talvolta antinomiche), legate dal fil rouge della visività.

Come notano Cortellessa e De Laude nell’introduzione al volume, è infatti impossibile considerare l’opera di Pasolini indipendentemente dal cortocircuito che la parola scritta crea con la visività (cfr. p. 8), considerare cioè, in maniera isolata, il cinema e la letteratura, la formazione figurativa di Pasolini e la sua attività critica. Una declinazione che appare evidente già dal carattere di manifesta intermedialità di alcune analisi critiche, come il ‘Pasolini fumettista’ di Daniele Comberiati, che si ferma sullo storyboard della Terra vista dalla luna, o il saggio bifronte di Arianna Agudo e Ludovica del Castillo sulla Lunga strada di sabbia, che prende in esame intersezioni e divergenze delle ‘visioni’ di Pasolini e di Di Paolo nel reportage dell’estate 1959. O, ancora, il contributo di Flaminia Albertini dedicato alla Rabbia, la pellicola pasoliniana che più di tutte (e già dalla struttura) incarna la dialettica benjaminiana: «un film di montaggio», come l’ha definito l’aiuto regista Carlo di Carlo, nel quale porzioni di realtà, immagini, si susseguono, s’incastrano, ritornano nel definire i limiti di un saggio ideologico in forma poetica.

Un’idea, quella dell’‘immagine dialettica’, che, come evidenzia Andrea Cortellessa in ‘Romanzi per figure. Pasolini Con-temporaneo’, funziona benissimo nel definire la sperimentazione pasoliniana già all’altezza degli anni Sessanta, nel riverberare, sul presente inattuale dei tableaux vivants della Ricotta, del manierismo di Pontormo e di Rosso Fiorentino, ma che non perde forza ermeneutica nel confronto con le ultime prove prima del tragico novembre del ’75. Cos’è, infatti, se non un dispositivo di montaggio e di decisa rottura con la diacronia, l’‘Iconografia ingiallita’ della Divina Mimesis? Un «poema fotografico» dove il passato e il presente dell’esperienza (e del corpo!) autoriale vengono messi in dialogo con la ricerca di una, molte risposte: alla neoavanguardia (è Pasolini stesso a delineare l’orizzonte dell’‘Iconografia’ entro il contenitore della «poesia visiva»),[5] all’edonismo di massa, all’impossibilità (sancita dall’‘abiura’ del 1974) del recupero del sacro attraverso la dimensione privilegiata del mito.

Come nota Marco Antonio Bazzocchi in ‘Sopravvivere per ingiallire’, l’‘Iconografia’ è anche, insieme a Petrolio e alla Nuova gioventù, il vertice di un processo di trasformazione di sé che Pasolini inizia a mettere in atto all’altezza di Poesia in forma di rosa. Un processo erotico, in cui l’inscrizione del corpo autoriale nell’opera ne implica una sessualizzazione: la sessualità, fino ad allora tenuta nascosta, di Pasolini inizia a emergere in opere che tendono a dire il vero, ad assumere un atteggiamento parresiastico nei confronti del mondo. Tendono a recuperare il passato (fisico, privato, ma anche pubblico, ideologico) e a mostrarne la verità nel tentativo di farlo reagire con il presente, di creare un cortocircuito tra ‘disperata vitalità’ e ‘ingiallimento’, tra rivendicazione esistenziale e rovina. Non è un caso che in un volume dedicato al rapporto di Pasolini con la visività l’analisi dell’‘Iconografia ingiallita’ sia al centro di diversi contributi, come la ‘Nota a un libro fatto anche di note’ di Walter Siti e il saggio di Stefano Chiodi, ‘Dalla voce alla presenza’, dove l’indagine si rivolge alla rappresentazione visiva del corpo autoriale, dall’Ungaretti sapienziale dei Comizi d’amore (1963), alla performance incarnata del Vangelo secondo Matteo di Fabio Mauri (Intellettuale, 1975), dall’immagine sacrale di Sandro Penna colta da Mario Schifano nel documentario Umano non umano (1969), alle fotografie di Pasolini nudo nella Torre di Chia (Pedriali, 1975).

Sono «esposizioni»,[6] immagini viventi in cui il corpo autoriale si pone in prospettiva dialettica rispetto alla contemporaneità declinante, fotografie di corpi-testo, di corpi di luce resistenti all’omologazione al modello dominante. Come, in un certo senso, corpo resistente avrebbe dovuto farsi la Roma sentimentale di un progetto mai realizzato, come nota Lorenzo Morviducci, che Bertolucci desiderava affidare alla redazione «ideale» di Pasolini nel 1954: un fototesto, dunque, nel quale il commento delle immagini dei quartieri capitolini avrebbe dovuto essere realizzato da diversi scrittori, più e meno noti, della scena degli anni Cinquanta. Testimonianza di una tensione intermediale sempre viva, dai progetti mai realizzati degli anni Cinquanta fino alle opere della maturità, è la «ricostruzione critica figurativa»[7] che avrebbe dovuto affiancare la struttura letteraria di Petrolio, secondo la medesima funzione che l’‘Iconografia ingiallita’ aveva svolto per la Divina Mimesis, alla quale è dedicato il contributo di Giovanni Giovannetti, ‘“Come qualcuno che mi spia di nascosto”’. Un insieme di fotografie «alla von Gloeden» (p. 378), com’era forse nelle intenzioni di Pasolini, che lo ritraessero nudo, colto senza filtri dalla macchina di Pedriali. E proprio sul rapporto diretto (e poco esplorato) di Pasolini con la fotografia è incentrato il saggio di Corinne Pontillo, ‘Pier Paolo Pasolini e Roland Barthes. Tracce fotografiche di un dialogo mancato’. Un rapporto che passa per le intersezioni tra il pensiero barthesiano e quello pasoliniano, ma anche per la paideia di Roberto Longhi intorno al tema della luce in Caravaggio e per il «codice della Realtà» di Empirismo eretico.[8] Anche il saggio di Roberto Chiesi, ‘Le ombre immobili’, si ferma su motivi affini, specificandone però il carattere ipostatizzante: le fotografie come ritratti statici, mortuari (come nell’iconografia brutale dei cadaveri cubani della Rabbia o nella Sequenza del fiore di carta, 1968), in direzione dunque antinomica rispetto a quella tracciata a partire dalla concezione dialettica dell’immagine benjaminiana.

All’analisi diretta del Pasolini artista figurativo è invece dedicato il contributo di Alessandro Zaccuri, ‘Il demone del non finito’, che rinviene nella pittura dinamiche proprie anche della scrittura pasoliniana, mentre il saggio di Luca Scarlini, ‘Pittografie del verbo’, esplora le dinamiche intermediali, tra parola e visività, nel contesto ampio e in mutamento dell’Italia degli anni Sessanta. Intermedialità che, come si è detto, non può che essere al centro di tutti i contributi del volume: non fa eccezione il saggio di Gianfranco Marrone, ‘Traduzione e soggettività’, che analizza il codice cinematografico pasoliniano mettendolo in relazione (com’è noto, spesso, contrastiva) con la semiologia e con il pensiero di Deleuze. Il pensiero deleuziano è centrale anche nel contributo di Davide Luglio, ‘Le cose e le immagini’, dove l’ermeneutica pasoliniana viene condotta sul terreno della filosofia prima, alla ricerca di un’analogia tra image-pensée e immagine cinematografica che eviti il nominalismo (Res sunt nomina, 1971) e si avvicini invece alle teorie di André Bazin e al Roland Barthes che commenta il poco amato da Pasolini (ma spesso si ama ciò che si confessa di odiare) cinema di Ėjzenštejn.

Al sonoro e, nella fattispecie, alle particolari soluzioni adottate per il montaggio nei medio e lungometraggi (come negli Appunti per un’Orestiade africana, 1970, e nell’Edipo re), è dedicato il saggio di Gian Maria Annovi, ‘Pasolini, autoritratto per voce sola’, che fa emergere l’attrazione, non priva di perplessità, di Pasolini per la sperimentazione europea e americana tra la seconda metà degli anni Sessanta e il principio degli anni Settanta. È invece sul cantiere di Una vita violenta che si concentra il densissimo contributo di Silvia De Laude: un lavoro che, nelle iniziali intenzioni di Pasolini, avrebbe dovuto prevedere un seguito, una terza prova ‘romana’ (ruolo ricoperto alternativamente dal progetto del Rio della grana e da una versione embrionale della Mortaccia), e che testimonia il crescente interesse dell’autore per la fotografia e per le forme iconotestuali. Un interesse corroborato dall’incontro con William Klein, col quale Pasolini collabora alla realizzazione di un fototesto sulla città di Roma (1959), che attesta, ancora una volta, l’importanza della visività, nel macrocosmo pasoliniano, come dispositivo dialettico, in cui passati multipli convergono in un presente mobile capace di guardare al futuro. D’altronde, come sostiene George Didi-Huberman in Sentire il grisou (Orthotes, 2021), del quale Vedere, Pasolini contiene la presentazione, «le immagini […] servono anche a questo: a vedere il tempo che viene» (p. 128). Un pensiero che, molto probabilmente, Pasolini avrebbe sottoscritto.


 


1 P.P. Pasolini, Mamma Roma, in Id., Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, I, p. 153.

2 P.P. Pasolini, Una disperata vitalità, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003, I, p. 1186.

3 P.P. Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, I, p. 1505.

4 Cfr. M.A. Bazzocchi, ‘Costellazione di immagini: tracce di Walter Benjamin in Pasolini, tra La Divina Mimesis e La Rabbia’, Studi pasoliniani, 13, 2019, pp. 13-27.

5 Cfr. P.P. Pasolini, Romanzi e racconti. 1962-1975, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998, p. 1071.

6 M.A. Bazzocchi, Esposizioni: Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, Bologna, il Mulino, 2017.

7 P.P. Pasolini, Petrolio, a cura di S. De Laude, Milano, Mondadori, 2005, p. 3.

8 P.P. Pasolini, Il codice dei codici, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, I, p. 1612.