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Il rito è da sempre la cifra entro cui si muove la ricerca espressiva di Teatro Valdoca. In questo saggio la tensione rituale delle scritture sceniche di Gualtieri e Ronconi viene analizzata alla luce dei principi di Victor Turner nel tentativo di sottolineare l'effetto di comunità che tutti gli spettacoli della compagnia sono in grado di sprigionare.

The ritual is always the main feature within which the expressive research of Teatro Valdoca moves. In this essay the ritual tension of the dramaturgies by Gualtieri and Ronconi is analyzed in light of Victor Turner's principles, in attempt to underline the community effect that all the company's performances are able to unleash. 

1. Processo produttivo come processo rituale

Negli spettacoli del Teatro Valdoca la visualità si staglia potentemente di fronte all’imponenza della parola poetica proferita dagli attori, creando un cortocircuito fra dimensione plastica e verbale, guardare e ascoltare: affinché lo spettacolo ferisca e commuova lo spettatore Teatro Valdoca dispone di due veicoli potenti, il corpo e la voce – la parola poetica e l’attore in scena , le due armi originarie del teatro, trattati entrambi come materia da plasmare. La postura dell’attore può assumere la forma di una scultura, con il corpo dipinto e abbigliato con grandi maschere di animali come in Paesaggio con fratello rotto (Teatro Valdoca, 2005); oppure può darsi come danzatore, atleta, acrobata che impegna l’energia del corpo con sveltezza e agilità: l’immobilità sta in rapporto di reciprocità con la corsa sfrenata, è uno stato fisico che apparenta il corpo all’essere pietra, sasso, cosa inerte, salma.

Lo status del performer è ambivalente: prostrato, abbandonato fra il sonno e la veglia, e sprizzante, tanto leggero da sollevarsi in volo. È angelo e diavolo, colui che rotola nel fango e colui che contempla visioni di luce. E gli viene richiesto di abbandonare il governo del proprio corpo sia Ê»nello slancio e nel coraggio insensatoʼ, sia nella catatonia.

Ci proponiamo di interrogare la pratica spettacolare del Teatro Valdoca dalla prospettiva del paradigma rituale, come è stato elaborato da Richard Schechner attraverso Victor Turner.[1]

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D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

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Nel 2016 con un gruppo di dottorandi di Spettacolo dell’Università la Sapienza di Roma, abbiamo tenuto un seminario che si proponeva di riflettere sulla relazione tra corpo, identità e soggetto nelle pratiche teatrali contemporanee. Le tre categorie sono state infatti ambito di riflessione tanto in campo filosofico quanto in quello teatrale. Il seminario nasce da un’interrogazione intorno al termine ʻcorpoʼ, sopravvenuta a partire dalle questioni che la tesi di Dalila D’amico, Le aporie del corpo eccentrico, sollevavano. Che cosa si intende per corpo, di che cosa si parla quando si parla di corpo? Perché si parla di corpo e non di soggetto? Quali funzioni esplica il corpo-identità-soggetto in scena nel repertorio di spettacoli, ambito delle nostre indagini? Quali autori, studiosi, testi ci sono stati d’aiuto per elaborare le nostre analisi e trovare le risposte ai nostri interrogativi?

 

 

Siamo ripartiti da Mondi, corpi, materie, dal terzo capitolo ʻAttore, Performer, Corpo, Spettatoreʼ:

In questa prospettiva, che coglie le trasformazioni della scena teatrale del secondo Novecento, la dominanza di un Ê»teatro-corpoʼ non configura più soltanto la supremazia di un codice che sottomette la parola, ma segnala un cambiamento di paradigma che porta con sé i suoi specifici modi costruttivi: l’agglutinamento, il continuo vs il discontinuo-discreto, le sconnessioni, le posture del corpo in quanto tali e non un attore che compie le azioni previste dalla fabula.

Il corpo, negli ultimi due decenni del XX secolo, ha coinvolto la speculazione di varie discipline, che ne hanno fatto un oggetto d’indagine specifico e non solo un dispositivo da scagliare contro il logos; ci interessava incominciare a scandagliare le forme che va assumendo questa nuova episte­mologia del corpo come soggetto di rappresentazione, consapevoli che il paradigma non è più l’organicità di mente-corpo (embodiment). Difatti nel testo del 2007 ci si chiedeva come questa trasformazione del soggetto fosse descrivibile non solo in termini di perdita di organicità; sosteneva a tal proposito Giorgio Barberio Corsetti:

Se è vero che la danza non ha rappresentato significati e illustrazioni ma energia e azioni (impulsi, turbolenze, agitazioni), possiamo iniziare a inscrivere il corpo-identità-soggetto in una sfera in cui l’energia è compresa?

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Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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Per la realizzazione di Pinocchio. Lo Spettacolo della Ragione, Armando Punzo pensa alla genesi del romanzo Le avventure di Pinocchio, ricordando che, nelle intenzioni di Carlo Collodi, Pinocchio non doveva crescere e trasformarsi in umano. La sua fine coincideva con la morte per impiccagione al ramo della Quercia grande, per mano del Gatto e della Volpe: furono le pressioni dell’editore del «Giornale per i Bambini», sulle pagine del quale il romanzo era uscito a puntate nel 1881, assieme all’insistenza del pubblico infantile, a spingere l’autore a resuscitarlo attraverso l’intervento della fata bambina, vera genitrice della sua metamorfosi. L’essere di carne e di legno di Pinocchio e, quindi, la diversità che lo anima prima dell’acquisizione di un destino condizionato da una morale perbenista, spinge invece Punzo a ipotizzare che, una volta affacciatosi alla realtà, Pinocchio la respinga e inverta il processo, per ‘ritornare burattino’. Il regista disconosce, quindi, il telos della trasformazione umana e riscrive Pinocchio per dire, piuttosto, le ‘proprie ragioni’. Nello specifico, per raccontarsi e rivendicare la dimensione artistica del proprio lavoro: meglio essere diversi e circondarsi degli amici che la storia ha relegato al ruolo di cattivi, che accettare la bontà di una vita normale, che non sembra tale, o l’impiego di un teatro ridotto alla sua funzione sociale.

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 «Ciò che deve avvenire è già. Ogni albero si riconosce dal frutto»: con queste parole pronunciate da Mastro Ciliegia con fattezze da Fata turchina si apre il Pinocchio di Antonio Latella, enucleando subito il tema portante dell’intero spettacolo: il rapporto padre/figlio, più archetipicamente individuato come la questione della discendenza (e dello scontro generazionale). Perché il mito edipico – ben lontano da costituire solamente la complicazione di un percorso di crescita individuale all’interno del nucleo famigliare (questo almeno nella chiave psicoanalitica che ha gettato luce retrospettiva sulle opere del passato) – rappresentava invece un punto dolente nella costituzione della società civile del mondo antico e non solo, incarnando mimeticamente sulla scena le incognite della successione e dell’eredità. È chiaro dunque, sin dall’esordio, che la gigantesca falegnameria avvolta nell’oscurità in cui si svolge la prima parte dell’azione scenica [fig. 1] inscrive la vicenda del famoso burattino in un orizzonte tragico, ben lontano dai colori da cartone animato della celebre produzione Disney.

Latella non tradisce comunque lo spirito della scrittura originaria, se il romanzo di Carlo Lorenzini (in arte Collodi) era nato per essere pubblicato a puntate su un giornale per ragazzi, concludendosi, nelle intenzioni dell’autore, con la morte del burattino stesso, che penzolava impiccato dalla Quercia, per mano del Gatto e della Volpe. Un macabro finale che Collodi fu costretto a cambiare sotto l’insistenza dei piccoli lettori desiderosi di una sorte migliore per il loro beniamino. Così, lo scrittore toscano diede seguito a quella che, con probabilità, inizialmente non era una fiaba per l’infanzia e inserì nuove peripezie nella vita dell’irrequieto protagonista, coronandole con un lieto-fine centrato sulla sua metamorfosi da bambino di legno a bambino in carne ed ossa.

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 «C’era una volta […] un pezzo di legno…»: il romanzo di Collodi inizia come una fiaba, perché della fiaba assume la capacità delle infinite reincarnazioni proprie del Mito; una forza rigenerativa che si impone anche nelle letture critiche delle diverse reincarnazioni.

Molti anni fa, nel confrontarmi con la teatralità della quale sono intessute le pagine di Pinocchio sulla scorta di differenti traduzioni sceniche dell’opera, mi appoggiavo all’insuperato testo di Manganelli, e in particolare alla definizione del romanzo come «un libro cubico» (Manganelli, 1982, p. 8): un libro non si realizza nella bidimensionalità della pagina, ma è passibile di letture che seguono altri itinerari, i quali in modo diverso collegano parola a parola, segni d’interpunzione, spazi bianchi. Tale tridimensionalità è la generatrice di tutti i libri paralleli al primo, che da questo possono scaturire.

In questa folgorante sintesi di Pinocchio, un libro parallelo leggevo il nocciolo della questione: un libro che dalla apparente bidimensionalità della pagina squadernava lo spazio cubico della scena. E in particolare di una scatola più piccola del normale, come avviene per il teatrino delle marionette o dei burattini. Questa forma cubica si può percorrere seguendo direzioni e tracciati ogni volta nuovi e imprevedibili, necessaria configurazione di ogni lettura del testo che miri alla messinscena. Pinocchio, redatto informa narrativa, contiene una quantità di motivi teatrali che si traducono in indizi scenici. Un libro che per predisposizione naturale si affida alla voce e al gesto, alle visioni e al movimento, un testo costituito da battute e parti narrate che fungono da didascalie. Lo stile di Collodi offre temi che si ripetono ‘musicalmente’, adatti alle variazioni; la lingua suggerisce il dinamismo dell’azione. Ma gli anni che ci separano da quel momento (1982, lo studio di Manganelli; 1997 le mie riflessioni di allora) impongono di mutare sguardo: letta oggi, la definizione di Manganelli può essere interpretata diversamente, o ulteriormente. Non solo o non tanto la facile analogia con la scatola scenica, ma la potenzialità di quelle pagine di dispiegarsi in nuove accezioni dell’universo teatrale. La scena contemporanea ci invita a staccarci dalla necessità di definire il teatro (solamente) come produzione dello spettacolo e a includervi tracciati diversi.

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The Adventures of Pinocchio (2007) del compositore inglese Jonathan Dove (nato a Londra nel 1959) sono una felice rivisitazione del capolavoro collodiano entrata ormai nel repertorio teatrale, almeno nei paesi anglosassoni: non è l’unica, s’intende, rilettura musicale recente della figura del burattino, perché per esempio una musicista italiana più o meno della stessa generazione di Dove, Lucia Ronchetti, ha vestito di suoni nel 2005 il Pinocchio. Un libro parallelo di Giorgio Manganelli (risalendo nel tempo, si può citare, restando in Italia, anche il Pinocchio di Marco Tutino, 1985); recentissimo è poi il Pinocchio del musicista belga Philippe Boesmans, presentato al Festival di Aix en Provence nell’estate 2017. Jonathan Dove è riuscito a scrivere un’opera che avesse tutti gli ingredienti e le costrizioni del genere senza perdere di vista le esigenze della popolarità, sul versante, affascinante ma anche scivoloso, della destinazione infantile (non scordiamoci che Pinocchio, mille volte seriosamente anatomizzato, è alla fine una favola): l’Inghilterra ama del resto, più di ogni altro paese in Europa, offrire teatro e musica ai bambini [fig. 1]. Ma Dove non è un musicista (solo) per bambini. Ebbe il suo primo successo operistico con una parabola contemporanea volta in incubo kafkiano: Flight (presentato al Glyndebourne Festival del 1998, su libretto di April De Angelis), che rievoca la storia vera di un richiedente asilo iraniano rimasto diciotto anni ‘in transito’ presso il Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi (la vicenda ispirò, indipendentemente dall’opera di Dove, il noto film The Terminal di Steven Spielberg, 2004, con Tom Hanks nella parte dello stralunato protagonista): nella realtà lo sfortunato iraniano fu ‘liberato’ solo nel 2006. Favola certo meno amara, ma non priva di tocchi di surrealtà è quella di Pinocchio, un libro che Dove racconta di aver sempre amato, sin da bambino: non tramite il troppo facile e chiassoso medium disneyano, ma attraverso l’ascolto e poi la diretta lettura di un libro che recava anche vivaci illustrazioni; particolarmente tenaci nella memoria del bambino, e poi dell’adulto, erano rimasti i conigli che portano la bara in casa della fatina, poi la balena, il pescatore-mostro, il grillo parlante, e altro ancora. Memoria visiva dunque [fig. 2], riaccostata dal musicista durante una gita italiana compiuta in età adulta presso il Parco Pinocchio del paese di Collodi, dove si può davvero camminare dentro la celebre storia.

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