Il mio disprezzo per l’attore contemporaneo è qui: nella sua tanto ricercata incapacità di mentire, nel suo elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d’autoemarginazione; nel suo noioso cicalare di ‘crisi del teatro’ e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d’un teatro della crisi; nella sua tecnica (e se mai così può definirsi un limite penoso) esclusivamente maschia (Bene, 1982, p. 65).
Nel 1962 Carmelo Bene apre a Roma il Teatro Laboratorio e lo inaugura il 5 giugno con Pinocchio; dopo una ripresa nel 1964 (a Spoleto) con poche variazioni, presenta una seconda edizione del testo di Collodi nel 1966, una terza nel 1981 e poi ancora un’ultima nel 1998 [fig. 1].
Come l’Amleto, Pinocchio è per Bene un precoce e duraturo amore; un mondo poetico e linguistico a cui fare ritorno, come per confrontarsi con una parte di sé e della propria storia che, pur nelle discontinuità per alcuni aspetti profonde, segna tuttavia la persistenza di motivi poetici e di tratti stilistici in un’attività artistica lunga più di trent’anni.
In questa avventura di riscritture, che qui ripercorrerò rapidamente e per frammenti, la vera cesura si colloca fra le versioni del 1962 e 1966 e quella del 1981: in estrema sintesi, nel passaggio da un impianto epico grottesco a uno decisamente simbolico e lirico; da un Pinocchio realizzato con una compagnia di attori, a un Pinocchio per voce sola (tutte le parti sono varianti d’una sola voce, quella di Bene, eccetto quella della Bambina Provvidenza, interpretata da Lydia Mancinelli), che è il passaggio da un teatro del conflitto agito in scena, anche attraverso il pluriprospettivismo delle presenze attoriali, all’esplosione plurivocale e polifonica dell’io.