«C’era una volta […] un pezzo di legno…»: il romanzo di Collodi inizia come una fiaba, perché della fiaba assume la capacità delle infinite reincarnazioni proprie del Mito; una forza rigenerativa che si impone anche nelle letture critiche delle diverse reincarnazioni.
Molti anni fa, nel confrontarmi con la teatralità della quale sono intessute le pagine di Pinocchio sulla scorta di differenti traduzioni sceniche dell’opera, mi appoggiavo all’insuperato testo di Manganelli, e in particolare alla definizione del romanzo come «un libro cubico» (Manganelli, 1982, p. 8): un libro non si realizza nella bidimensionalità della pagina, ma è passibile di letture che seguono altri itinerari, i quali in modo diverso collegano parola a parola, segni d’interpunzione, spazi bianchi. Tale tridimensionalità è la generatrice di tutti i libri paralleli al primo, che da questo possono scaturire.
In questa folgorante sintesi di Pinocchio, un libro parallelo leggevo il nocciolo della questione: un libro che dalla apparente bidimensionalità della pagina squadernava lo spazio cubico della scena. E in particolare di una scatola più piccola del normale, come avviene per il teatrino delle marionette o dei burattini. Questa forma cubica si può percorrere seguendo direzioni e tracciati ogni volta nuovi e imprevedibili, necessaria configurazione di ogni lettura del testo che miri alla messinscena. Pinocchio, redatto informa narrativa, contiene una quantità di motivi teatrali che si traducono in indizi scenici. Un libro che per predisposizione naturale si affida alla voce e al gesto, alle visioni e al movimento, un testo costituito da battute e parti narrate che fungono da didascalie. Lo stile di Collodi offre temi che si ripetono ‘musicalmente’, adatti alle variazioni; la lingua suggerisce il dinamismo dell’azione. Ma gli anni che ci separano da quel momento (1982, lo studio di Manganelli; 1997 le mie riflessioni di allora) impongono di mutare sguardo: letta oggi, la definizione di Manganelli può essere interpretata diversamente, o ulteriormente. Non solo o non tanto la facile analogia con la scatola scenica, ma la potenzialità di quelle pagine di dispiegarsi in nuove accezioni dell’universo teatrale. La scena contemporanea ci invita a staccarci dalla necessità di definire il teatro (solamente) come produzione dello spettacolo e a includervi tracciati diversi.
Non ci riferiamo ad artisti che occasionalmente si cimentano in altre arti, ma di coloro che riescono a trovare forme profondamente intrise della ricerca intorno alla scenicità, facendone parte integrante del loro ‘fare’ teatrale. Il lavoro di Alice Laloy (La Cie S’appelle reviens) su Pinocchio ci sembra invocare questa chiave di lettura, mettendo al centro della riflessione (e della creazione) la Marionetta «in quanto idea», oggetto della ricerca attuale della compagnia. In quanto mito, il ‘burattino’ di legno non arresta la sua corsa verso le infinite reincarnazioni – e non solo metaforiche: il farsi carne e sangue della marionetta è notoriamente l’approdo che segna tutto l’itinerario. Pinocchio, per Alice Laloy, è una delle sfaccettature di un «progetto plurale» di ampio respiro, che include esposizione, performance e una creazione per la scena a venire per i prossimi anni (La neuvième experience, nono spettacolo della compagnia). Queste fasi sono complementari l’una all’altra.
La dimensione ‘cubica’ delle potenzialità del teatro di incarnarsi in fenomeni differenti dallo spettacolo trova quindi a sua volta un elemento chiave nella Figura artificiale: animazione dell’inanimato e incessante interrogazione sulle relazioni tra umano e non umano.
Definito dall’artista francese «un cantiere fotografico», il percorso prende l’avvio da un primo lavoro, commissionato a Laloy dall’associazione Themaa per l’immagine di copertina della rivista Manip. Non è forse irrilevante il fatto che soggetto della prima fotografia della serie sia il figlio di Alice. L’artista racconta come, una volta realizzata, questa immagine la inquietasse profondamente, oltrepassando le sue consapevoli intenzioni. Sin d’ora ritorna qualcosa del Mito: lo stupore di Geppetto di fronte all’inestricabile fusione di umano e non umano (vegetale).
Sulla scorta di questa immagine generatrice, nell’artista francese scaturisce immediato il desiderio di riflettere sulla marionetta iperrealista (in Francia adottata da compagnie d’eccellenza di questo universo, per esempio Berangère Vantusso o Gisèle Vienne), intraprendendo la sfida a lavorare su ciò che si dà a vedere come più reale dell’iperreale. Questo gioco di specchi muove dal nodo cruciale di ogni riflessione (e pratica) sulla Marionetta, il terreno mobile, inquietante e vitalissimo del dialogo tra animato e inanimato, tra l’umano e l’oggetto:
Je m’exprime avec l’objet, le pantin, la matière brute et la machine. Ces outils me sont familiers. J’aime les transpositions qu’ils proposent. Ils ouvrent un champ de projection qui m’interpelle. Je questionne l’animé dans l’objet et dans la machine. In Pinocchio(s) si tratta di interrogare l’inanimato che pertiene all’organico, l’inerte nell’umano. «quoi est-ce qui vit ? Qu’est-ce qui fait ‘objet’?
Attraverso la lente della fotografia, Pinocchio(s) interroga le frontiere tra le cose e il vivente. Diremo subito che la raffinatissima operazione di Alice Laloy trova un punto preciso al quale affidare la complessità di questi motivi: gli occhi (con tutto il carico percettivo, simbolico, tematico, fisiologico che l’organo della visione porta con sé). In sintesi, l’artista mette in atto situazioni nelle quali lavora fotografando bambini come marionette. Ma tutto il processo creativo è un’azione performativa di grande pregnanza e intensità, il cui esito si condensa nell’immagine finale, che ‘ci riguarda’ producendo un effetto straordinario.
Seppure in situazioni diverse, il lavoro consiste nell’incontro con il bambino/la bambina, nella sua preparazione dal punto di vista posturale e nell’‘ambientazione’ entro lo spazio prescelto; quindi, processo fondamentale, nel lungo rito del trucco. Tutto il corpo viene imbiancato, a produrre un effetto di delicata ‘materialità’. I vestiti indossati sono quelli quotidiani dei bambini.
Centro irradiante dell’immagine, gli occhi, finestra dell’anima, vengono poeticamente chiusi: sulle loro palpebre Alice disegna con il maquillage occhi dipinti e li dota di finte ciglia. L’effetto è spiazzante, per i delicati e mobili equilibri che si creano tra la fissità dello sguardo e l’ambiguità sulla reale condizione del corpo. Il mezzo apparentemente più ‘fermo’, la fotografia, acquisisce una sorta di movimento interiore, sottile, ambiguo, che non cessa di interrogarci sul grado di verità e di affidabilità della nostra percezione (vale la pena ricordare che uno spettacolo recente, Sous ma peau/sfu.ma.to/, lavora magnificamente intorno a questo tema):
Le médium photographique permet de figer, immobile, la fraction du temps où le trouble prédomine. À l’origine de ce travail, le conte de Collodi revisité. La métamorphose: de l’enfant-Objet à la figure de l’enfant. Dans le conte, le pantin devient Humain. […] Chaque enfant porte sur ses yeux clos un regard peint. Chacun laisse voir une part invisible de soi. Chaque image est une nouvelle tentative de saisir de plus en plus subtilement la frontière ténue qui existe entre le statut d’Objet et le statut de Sujet.
Sul capo e alle giunture (caviglie, ginocchia, polsi, gomiti, con possibili varianti) vengono applicati i fili della marionetta. Sono fili abbandonati, o piuttosto lasciati; le figure vivono interamente della loro presenza, non lasciano immaginare un marionettista.
Le riscritture e interpretazioni di Pinocchio sono infinite, numerosissimi anche i lavori teatrali tratti o ispirati a quel che va considerato un mito. Spesso però Pinocchio ne costituisce il nodo tematico, quando non semplicemente narrativo. In questo caso l’incontro con Pinocchio corrisponde invece all’urgenza di riflessione sulla Marionetta nelle sue declinazioni contemporanee. Pinocchio diventa il motore di una ricerca che interroga la parte inanimata dell’umano, e la metamorfosi il segno di una processualità di un ‘fare’ differente.
Pinocchio(s) ha la struttura di un itinerario, come quello delle stazioni del percorso di formazione e metamorfosi che sta al cuore dell’opera di Collodi, e coinvolge soggetti diversi. La prima serie, Pinocchio 1.1 à 1.7 [figg. 1-2], ha visto la luce a Strasburgo nel febbraio 2016, con sedute individuali, e ha coinvolto un gruppo di un centro sociale (in collaborazione con il tjp-cdn d’Alsazia), la fotografa Elisabeth Carecchio e gli allievi della scuola di maquillage dell’istituto Candice Mack; la serie Pinocchio 2.1 à 2.7, dell’aprile 2016 [fig. 3], è stata realizzata con alcune classi della scuola Paris Bercy (in collaborazione con Le Mouffetard – Théâtre des Arts de la Marionnette). Ma le séances prevedono anche incontri più circoscritti, dove il bambino è accompagnato dai genitori, che partecipano così all’elaborazione del progetto. La terza serie, in corso, prosegue la modalità ‘individuale’. La quarta serie, Pinocchio 4.1 à 4.8, [figg. 4-5], è stata esposta a Charleville-Mézières da luglio a settembre 2017, nel quadro e in collaborazione con il più celebre festival del mondo dedicato alle arti della marionetta (Festival International des Arts de la Marionnette), con un centro ricreativo e laboratori professionali o associazioni cittadine. Parallelamente a Pinocchio’s, Alice lancia Geppetto, un’inchiesta rivolta ai marionettisti sulla vera ragione che li ha indotti a fare questo mestiere.
Spinta dall’urgenza di portare oltre il lavoro sulla disarticolazione, Alice ha cercato un contesto con una fortissima tradizione di contorsionismo, dove esistessero scuole per quest’arte legata ala ricerca della bellezza e della perfezione. Da qui la fase ora in corso a Oulan-Bator, in Mongolia, dalla quale vedrà la luce la quinta serie.
Di solito è lei stessa a truccare i bambini; in alcuni casi, però, Laloy instaura collaborazioni, come in occasione della residenza a Strasbourg per quanto riguarda il trucco. Così per la fotografia, si avvale di Elisabeth Carecchio, ma ha sempre bisogno di tornare a scattare lei stessa.
La prima foto, Pinocchio 0.0 [fig. 6], diviene presto una sorta di principio ‘motore’ che è anche riferimento per le fasi successive: Alice spiega come in genere non abbia bisogno di ricorrere alle parole per comunicare con i suoi giovanissimi collaboratori. Vedere le fotografie realizzate precedentemente fa loro intuire in modo immediato di che cosa si tratta, che cosa devono fare. Lo scoglio ‘tecnico’ maggiore sembra essere proprio la necessità di tenere gli occhi immobili.
Il luogo è un fattore importante: ogni ‘performance fotografica’ viene ambientata in uno spazio del fare: atelier, laboratori, officine (si vedano le didascalie delle immagini qui proposte); «endroits des possibles par la fabrication», come li definisce l’artista, in diversi casi alludono ai mestieri del teatro, come nel caso di una sartoria dove i manichini interloquiscono con le figure in/animate.
«Ogni foto è una sorta di performance»: l’oggetto ‘fotografia’ diventa il precipitato, la punta emergente e tangibile di un processo di creazione teatrale. Il lavoro con i bambini è un laboratorio e ha un tempo di ‘allestimento’; l’ambientazione viene concepita come scenografia dove trovano posto oggetti eloquenti; il rapporto che si instaura tra artista e modello può essere assimilato a quello tra attore e regista. Lo spazio dell’immagine reca impresso su di sé il tempo del processo.
Potrebbe venire il dubbio che i bambini vengano ‘manipolati’: il processo in realtà invita a riflettere sul tema, senza cadere nell’errore di metterlo in atto. Alice segue con sensibilità il ritmo dei bambini, che è soprattutto un ritmo di concentrazione, differente da caso a caso. Interessante che si tratti di one shot, un unico scatto, in una sola séance, non si ‘ripete’, non si corregge. Non sarebbe consono al lavoro con i bambini, afferma Alice Laloy; «non c’è interpretazione», tutto è immediato, il processo esplicita la dimensione concreta del fare nel presente come istante del fluire. Il lavoro concreto sul corpo si dà prepotentemente alla nostra percezione, punto di ‘fusione’ tra immobilità e tensione al dinamismo [fig. 7].
Il risultato è ‘dramma’. Il corpo è abbandonato senza produrre un effetto di violenza, di esercizio di potere. Il rapporto tra soggetto e oggetto allora, oltre che coincidere con la relazione animato/inanimato, chiama in causa la posizione dell’artista, il ‘creatore’-Padre (Geppetto).
In tutto il lavoro di Alice Laloy esistono solide e sincere alleanze tra diverse creazioni. In questo caso, determinante per l’approdo a Pinocchio è un dittico di due spettacoli, Batailles (2012) e Re-Batailles (2013), dove la Marionetta/Manichino è convocata a esprimere il tema della caduta, nel ciclo di nascita e morte.
In particolare, in Re-Bataille (pensata come ‘scrittura seconda’ del precedente) la regista ricorre a Marionette realistiche [fig. 8]: la sua attenzione si concentra sulla somiglianza tra marionettista e marionetta. Motore è il motivo della caduta, quella dal ventre materno e quella che ci riporta all’indistinto. Tutta la nostra vita, dice l’artista, è il susseguirsi dei nostri tentativi di alzarci, segnati da questa alternanza tra caduta e sollevamento. La marionetta interviene in questo senso a livello sia metaforico, sia letterale.
Il tema della caduta non può farci resistere alla tentazione di un richiamo al celebre saggio di Kleist. Per Alice Laloy Pinocchio è emblema di un’origine e ha qualche cosa di arcaico. Nei suoi Pinocchi la delicata crisalide del trucco bianco rende la pelle diafana, involucro di corpi dotati della sincerità dell’infanzia: corpi che sono ‘posture’, non che assumono ‘pose’.
Sono motivi che toccano tanto Kleist quanto Collodi. Pinocchio è incosciente, come la marionetta di Kleist; è innocente: Collodi non fa mai pesare su di lui una colpa, come se la sua condizione additasse una dimensione edenica, anteriore alla colpa originaria della quale disserta Kleist nel suo saggio. Il rapporto Pinocchio/Marionetta va dunque al di là di una questione di ‘familiarità’ fisica.
Pensando a diverse letture di Pinocchio, osserviamo che una questione primaria sembra essere l’abolizione dell’usuale distinzione tra infanzia ed età adulta, per ripristinare una condizione che riconosca la coesistenza di entrambe le dimensioni. Manganelli l’ha chiamata una «condizione intellettuale e fantastica, forse metafisica» (Manganelli, 1989, p. 106). Carmelo Bene dedicava il suo Pinocchio «all’infanzia di qualsiasi età», e aggiungeva che si trattava di «un monito ai cosiddetti adulti a decrescere» (Bene, 1981, p. 112). Harold B. Segel, che a Pinocchio intitolava un articolato percorso sulla Marionetta nelle Avanguardie (Segel, 1995), evidenziava l’entusiasmo per la dimensione dell’infanzia come antidoto al conservatorismo borghese. Lontana dall’idea di una incarnazione del burattino selvatico nel bambino borghese, la metamorfosi interroga le ragioni dell’umano e del suo apparentarsi alle Cose.
Pinocchio(s) di Alice Laloy – La Compagnie S’appelle reviens
Concezione: Alice Laloy. Fotografie: Elisabeth Carecchio e Alice Laloy. Produzione: La Compagnie S’Appelle Reviens; co-produzione: Festival International des Arts de la Marionnette à Charleville-Mézières, drac Alsace Lorraine Champagne Ardenne. Con il sostegno di tjp-cdn d’Alsace e di Le Mouffetard – Théâtre de la Marionnette à Paris.
Oltre che dal dossier pubblicato in rete alla pagina della compagnia (http://www.sappellereviens.com/spectacles/pinocchios/), ho utilizzato le informazioni raccolte nel corso di un incontro con Alice Laloy in occasione del Festival di Charleville-Mézières, il 17 settembre 2017. La ringrazio della amabilissima generosità nel condividere il suo progetto.
Bibliografia
C. Bene, Pinocchio (Storia di un burattino) seguito da Pinocchio o lo spettacolo della Provvidenza di Giancarlo Dotto, foto di Cristina Ghergo, Firenze, La Casa Usher, 1981.
I. Calvino, ‘Ma collodi non esiste’, la Repubblica, 19-20 aprile 1981.
C. Collodi, Pinocchio (Storia di un burattino), illustrata da E. Mazzanti, Firenze, Paggi, 1883, ristampa anastatica Firenze, Giunti, 2002.
G. Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano, Vita e pensiero, 1997.
C. Grazioli, ‘Pinocchio, le rêve de théâtre’, in L’enfant au théâtre, numero monografico di Puck. La Marionnette et les autres arts, 10, 1997, pp. 40-46.
C. Grazioli, D. Plassard (a cura di), Humain-Non humain, numero monografico di Puck. La Marionnette et les autres arts, 20, 2014.
H. von Kleist, Sul teatro di marionette, aneddoti, saggi, a cura di G. Cusatelli, trad. it. di E. Pocar, Parma, Guanda, 1986, pp. 29-37.
G. Manganelli, Pinocchio. Un libro parallelo, Torni, Einaudi, 1982.
G. Manganelli, Carlo Collodi: Pinocchio, in Id., Antologia privata, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 106-109 (apparso su L’Espresso nel 1968).
H. B. Segel, Pinocchio’s Progeny, Baltimore, Hopkins University Press, 1995.
R. Tessari, Pinocchio. «Summa atheologica» di Carmelo Bene, Firenze, Liberoscambio, 1982.