4.7. L’Inferno di Pinocchio per Antonio Latella

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 «Ciò che deve avvenire è già. Ogni albero si riconosce dal frutto»: con queste parole pronunciate da Mastro Ciliegia con fattezze da Fata turchina si apre il Pinocchio di Antonio Latella, enucleando subito il tema portante dell’intero spettacolo: il rapporto padre/figlio, più archetipicamente individuato come la questione della discendenza (e dello scontro generazionale). Perché il mito edipico – ben lontano da costituire solamente la complicazione di un percorso di crescita individuale all’interno del nucleo famigliare (questo almeno nella chiave psicoanalitica che ha gettato luce retrospettiva sulle opere del passato) – rappresentava invece un punto dolente nella costituzione della società civile del mondo antico e non solo, incarnando mimeticamente sulla scena le incognite della successione e dell’eredità. È chiaro dunque, sin dall’esordio, che la gigantesca falegnameria avvolta nell’oscurità in cui si svolge la prima parte dell’azione scenica [fig. 1] inscrive la vicenda del famoso burattino in un orizzonte tragico, ben lontano dai colori da cartone animato della celebre produzione Disney.

Latella non tradisce comunque lo spirito della scrittura originaria, se il romanzo di Carlo Lorenzini (in arte Collodi) era nato per essere pubblicato a puntate su un giornale per ragazzi, concludendosi, nelle intenzioni dell’autore, con la morte del burattino stesso, che penzolava impiccato dalla Quercia, per mano del Gatto e della Volpe. Un macabro finale che Collodi fu costretto a cambiare sotto l’insistenza dei piccoli lettori desiderosi di una sorte migliore per il loro beniamino. Così, lo scrittore toscano diede seguito a quella che, con probabilità, inizialmente non era una fiaba per l’infanzia e inserì nuove peripezie nella vita dell’irrequieto protagonista, coronandole con un lieto-fine centrato sulla sua metamorfosi da bambino di legno a bambino in carne ed ossa.

Il tema della morte, declinato attraverso il concetto di metamorfosi, o rinascita a nuova vita, percorre quest’opera-monumento della letteratura italiana, con oltre duecentoquaranta traduzioni in lingua straniera, numerosissime riscritture e trasposizioni visive, che vanno dalla musica al cinema, dal mondo dell’illustrazione e del fumetto al teatro stesso. Latella lavora quindi su una tradizione rappresentativa vastissima, misurandosi ancora una volta (dopo Eduardo, Goldoni, Williams) con un ‘classico’ della letteratura mondiale e andando ad analizzare in profondità il rapporto fra testo e messinscena. Oltre al tema del padre e della morte – ricorrenti nell’immaginario latelliano – il terzo nucleo tematico che emerge dallo scandaglio del lato prevalentemente ‘oscuro’ e sottomarino del testo collodiano, alla prova della scena, è quello metateatrale, che l’iper-esposizione dei meccanismi rappresentativi mette in evidenza. Molti sono i momenti dello spettacolo in cui attori riflettono sulla funzione del teatro: le marionette di Mangiafuoco disquisiscono a lungo sulla concezione di battuta come testo mandato a memoria, mentre il monologo all’improvvisa di Mangiafuoco [o Geppetto] (Massimiliano Speziani, che interpreta anche il personaggio di Geppetto [o Mangiafuoco]) si concentra sull’illusorietà dell’idea di personaggio.

Da un’esigenza mimetica – e dunque rappresentativa – nasce l’idea di Mastro Geppetto: costruire un burattino di legno capace di stupire un pubblico vasto con le sue evoluzioni e lasciare traccia di sé, assicurandosi una discendenza. In questa lettura scenica del testo di Collodi prevale sicuramente la prima motivazione, mentre nello sceneggiato televisivo di Comencini – che pure Latella richiama nella concitata dizione di Pinocchio con leitmotiv «babbo, babbino» – il Geppetto/Manfredi si appigliava tristemente alla seconda, palesando un desiderio di paternità negata. Qui il padre/falegname appare invece affamato di profitti e notorietà; un padre-padrone ansioso di possedere, chiudere, sfruttare la propria creatura, negandola all’esterno e imprigionandola nel futuro che ha in mente per lui. Alle sue spalle, una Fata turchina che si serve di emissari, tra cui Mastro Ciliegia (interpretato dalla stessa attrice, Anna Coppola), per assecondare il suo folle progetto creativo: avere da morta quello che non ha avuto in vita, un figlio. Vecchia regina dei fenomeni da baraccone, architetta tutto dall’inizio: morte e salvezza della sua creatura, che nutre, continuamente, per sopperire al desiderio smodato di un figlio ribelle, il quale si strozza quando cerca di emettere il suono della parola ‘mamma’. In questa lettura di Pinocchio (consigliata a partire dai 14 anni) il protagonista, infatti, risucchiando schizofrenicamente il tentatore Lucignolo in quello stato aurorale della coscienza che porta spesso i bambini a mimare il proprio ‘lato oscuro’ e a dar vita a un amico immaginario, incarna e mima sulla scena un’infanzia negata, sfruttata, stuprata da un mondo adulto malato di egocentrismo e affamato di emozioni, che spera di vivere o di ri-vivere attraverso i propri figli.

Molti elementi della costruzione scenica concorrono a creare nello spettatore la sensazione di trovarsi catapultato all’interno di una vera e propria tragedia della creazione, che produce però una catarsi solo parziale, poiché dal collasso del vecchio ordine non ne scaturisce uno nuovo. Nel finale, un Pinocchio cresciuto si confronta con Geppetto seduto davanti a una tavola imbandita, cercando di risolvere le storture di una relazione mancata. Ma Geppetto è morto nella pancia della balena e nessun reale confronto è ormai possibile perché quello seduto al tavolo posto al centro della scena si rivela essere, a sua volta, un fantoccio, un corpo senza vita; il Pinocchio cresciuto ha solo sognato di poter fondare un nuovo ordine famigliare e può ripetere meccanicamente al suo naso «cresci», sperando, questa volta, che la realtà si trasformi in finzione. Soluzione in parte condivisa (seppure con modalità sceniche differenti) da Carmelo Bene, che concludeva la sua opera-concerto ispirata alla vita del burattino con la follia di Geppetto nella pancia della balena, affidando al dispiegarsi della pura phoné l’azione impossibile, bloccata, del falegname .

Latella costruisce così la sua visione di Pinocchio su una tradizione che si esprime per metafore visive e suggestioni sonore, ma anche su un testo-guida forte la cui riscrittura a più mani con Federico Bellini e Linda Dalisi si concentra su nuclei archetipici e fortemente drammatici del testo stesso, come la morte, la violenza, la follia, l’amore (in questo caso mancato). La sua messinscena apre un dialogo col passato, problematizzando – come già osservato per altre produzioni (Mazzocchi, 2016) – la questione delle fonti e usando parallelamente, come materiali di lavoro, il testo originario e la sua storia sulla scena; partendo da questi presupposti, l’uso fortemente intertestuale dei codici dello spettacolo riattiva la memoria storica dello spettatore, ponendolo in una posizione di scacco tra quello che realmente ricorda del burattino e quello che vorrebbe ricordare.

In questo gap si colloca l’attore, il suo corpo, la sua disponibilità a mostrarsi parte di un processo creativo che può suscitare in chi guarda repulsione o empatia; di qui i movimenti a scatti, le acrobazie, la phoné convulsa, a volte bloccata, i momenti di isteria, persino l’invettiva toscana con turpiloquio, che ci riporta al Cioni Mario di Roberto Benigni. Il performer, Christian La Rosa, conduce una maratona quasi solitaria di tre ore, mostrando il proprio lavoro nel suo concreto farsi e occupando, così, sulla scena, quello scomodo campo di tensione che si colloca tra creare e fare. Questo percorso di laboriosa negoziazione – col pubblico e col regista – del proprio ruolo all’interno dello spettacolo sembra concretizzarsi nella metafora visiva del grosso ceppo stretto al petto [fig. 2], scoria di un personaggio da cui non riesce a separarsi e retaggio di una seconda natura che non vuole del tutto eliminare.

Ancora una volta, il regista di origini campane affronta dunque il testo guida con un linguaggio scenico contemporaneo: il romanzo di Collodi costituisce infatti una suggestione iniziale da cui si origina una vera e propria riscrittura drammaturgica (in questo caso a più mani) che lascia libero spazio ai tempi e alle modalità suggerite dalla prova della scena. La costruzione di spazi visivi e d’azione non realistici e l’iper-esposizione di elementi che rivelano la finzione teatrale, come fari e macchinari a vista, impediscono allo spettatore di lasciarsi trasportare da qualsiasi forma di illusione, mantenendo una posizione costantemente vigile e critica rispetto a ciò che vede e ascolta.

Le didascalie ambientali si trasformano in oggetti che riproducono, a volte ipertroficamente, segni verbali del testo; pertanto, un gigantesco tronco rotante campeggia nella falegnameria infernale di Geppetto [fig. 3] per poi trasformarsi in macchina mobile dalle molteplici funzioni [fig. 4]. Essa perfora la scena bidimensionale su cui Latella proietta le silhouette di attori che interagiscono raramente dal punto di vista prossemico, perché sono rari i momenti di comunicazione reciproca. Ma il vero Inferno è il viaggio di Pinocchio attraverso sé stesso, metafora della crescita del bambino, che qui si può estendere all’uomo (oggi mai veramente ‘cresciuto’), assumendo anche i connotati di una riflessione sulla creazione d’attore. L’anafora dantesca «per me» continuamente ripetuta e balbettata da Christian La Rosa allude forse al calvario creativo che il corpo attorico attraversa, offrendosi come catalizzatore di un processo che trasforma la realtà in finzione, o viceversa, in un mondo a misura d’adulto che sembra aver ormai perso la capacità di proteggere e compatire (nel senso latino del termine).

 

Pinocchio

drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi

regia Antonio Latella

scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe

musiche Franco Visioli, luci Simone De Angelis

con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

 

Bibliografia

M. Giovannelli, ‘Emma Dante e Antonio Latella al Piccolo Teatro’, Doppiozero, 9 marzo 2017.

F. Mazzocchi, ‘Nel fuoco della tradizione. Appunti sul teatro di Antonio Latella’, Mimesis Journal, 5, 2, 2016, pp. 103-117.

G. Muroni, ‘Il Pinocchio di Latella tra memoria, menzogna e morte’, TeatroeCritica, 25 gennaio 2017.

R. Mussapi, ‘Il Pinocchio di Latella scopre il dolore’, Avvenire, 28 gennaio 2017.

G. Raganelli (a cura di), ‘Far sembrare la verità la menzogna stessa. Conversazione con Antonio Latella’, Uzak. Trimestrale online di cultura cinematografica, 14, 2014.

E. Santolini, ‘Il Pinocchio per adulti di mastro Latella’, La Stampa, 19 gennaio 2017.

C. Segre, ‘Intertestualità e interdiscorsività’, in Id., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984.

E. Tirelli (a cura di), La misura dell’errore. Vita e teatro di Antonio Latella, Bologna-Napoli, Caracò Editore, 2016.