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La posizione di Stefano Bessoni, regista e illustratore, è per molti versi originale rispetto al contesto culturale di cui è protagonista. Il cinema rappresenta per lui il mezzo ideale per estendere le potenzialità delle idee catturate con carta e matita. Fugge dalle etichette di un certo cinema di genere horror sin dalle sue prime esperienza legate al video teatro. A partire dai lavori degli anni ’90 in cui si sperimenta con un cinema che potremmo definire ‘concettuale’, fino ad arrivare ai progetti  cinematografici, nel senso commerciale e standardizzato del termine, è evidente la sua cifra stilistica di matrice visiva, grottesca, fumettistica e molto poetica che molto deve a ‘padri’ cinematografici quali Peter Greenaway, Wim Wenders, Jean-Pierre Jeunet ed altri. Un cinema a tinte orrorifiche che affonda le proprie radici nelle paure più profonde che si nascondono nel cuore dell'animo umano.

The role of Stefano Bessoni, film director and illustrator, is original in many ways, expecially compared to the cultural context of which he is protagonist. The cinema for him is the ideal way to extend the potentialities of ideas captured with pencil and paper. Since of his first experience related to the video-theater, he flees from the labels of a certain kind of horror film. Starting from the works of the 90’s, a group of visual texts that we could define ʻconceptualʼ, until to the real cinematographic projects, which are for some aspects commercial and standardized, it is clear his stylistic hallmark of visual, grotesque, comic and poetic matrix, which owes much to ʻfathersʼ such as Peter Greenway, Wim Wenders, Jean-Pierre Jeunet and others. Bessoni’s cinema has its roots in the deepest fears that lurk in the human heart.

Quando ti guardi in uno specchio, sei sicuro di esserne al di fuori, di non essere te il riflesso di quel personaggio che emerge dalle acque oscure, dal di dentro te, altro?

Michel Schneider

 

 

1. Breve premessa

Lo sguardo filtrato attraverso la lente del perturbante che ritroviamo in pittori come Hieronymus Bosch e Pieter Brueghel, il mondo grafico oscuro proveniente dai paesi dell’Est, l’incisore «principe delle ombre» Mario Scarpati, artisti quali Fèlicien Rops e Alfred Kubin, fino ad arrivare a Dusan Kallay e Arthur Rackham. E poi l’incontro con creatori d’immagini e sperimentatori visivi quali Peter Greenaway, Wim Wenders, o i pionieri dell’animazione stop motion come Jan Švankmajer e i fratelli Quay. A questi aggiungiamo le ballate di Nick Cave e le fotografie di Joel Peter Witkin. Questo e non solo è l’universo che popola le opere di Stefano Bessoni che, con gli anni, grazie alle letture che spaziano dai trattati di zoologia e anatomia fino ad arrivare a Franz Kafka de La metamorfosi e al Bruno Schulz de Le botteghe color cannella passando per Lewis Carroll e la sua Alice e il Pinocchio di Collodi, è riuscito a creare una sua cifra stilistica originale. Illustrazione e cinema sono i due pilastri che reggono il suo universo, qui ci vogliamo soffermare sulle esperienze cinematografiche che gli hanno permesso di materializzare quello che «galleggiava in stato larvale sulla carta».[1]

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Stefano Bessoni (1965), regista cinematografico, illustratore e animatore stop motion, è nato a Roma dove si diploma presso l’Accademia di Belle Arti. Sotto la guida dell’incisore Mario Scarpati inizia la propria formazione in campo artistico, apprende le tecniche calcografiche ed entra in contatto con la grafica dei paesi dell’Est. Autori come Roland Topor, Fèlicien Rops insieme con artisti quali Dave McKean e Mark Ryden e gli esponenti del Pop Surrealism diventano la radice del suo immaginario visivo.

Frequenta per alcuni anni il corso di laurea in Scienze Biologiche, interessandosi di zoologia e anatomia, da qui l’interesse per il mondo della scienza che, insieme al coté fiabesco, costituisce il nucleo centrale per sviluppare la sua ricerca poetica.

Dal 1989 realizza film sperimentali, documentari e installazioni video-teatrali, destando l’attenzione della critica e ricevendo i primi riconoscimenti in festival nazionali e internazionali. Per lui il cinema è il mezzo ideale per accrescere le potenzialità delle idee catturate dalla matita e impresse sul foglio di carta.

Il suo esordio come film-maker lo vede confrontarsi con il teatro della crudeltà di Artaud (Grimm e il teatro della crudeltà) e con il racconto di Jorge Luis Borges La casa di Asterione (Asterione). Approda poi al cinema cosiddetto ‘commerciale’ con Frammenti di scienze inesatte che in un certo senso anticipa i progetti futuri (Immago mortis, Krokodyle e, nel 2013, i Canti della forca).

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A parlare è Giuseppe Bertolucci, il regista di 'Na specie de cadavere lunghissimo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole di Parma e dalla Fondazione culturale Edison (oggi Solares Fondazione delle Arti), andato in scena per la prima volta, a Napoli, il 4 febbraio 2004. Un progetto nato dalla scoperta, fatta da Gifuni, di Il Pecora, la prima parte dell'attuale Poemetto in due deliri di Giorgio Somalvico, scritto su commissione nel 1995, per i vent’anni della morte di Pier Paolo Pasolini; testo in cui si prova a costringere in metrica il delirio dell’omicida del poeta, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT. Il poemetto, pensato dall’autore come un melologo (genere musicale in bilico tra recitazione e canto: partitura musicale per voce ‘intonata’), alterna, stando a quanto evidenziato dallo stesso attore:

È attorno a questo testo che prende forma l’idea dello spettacolo. Come racconta Gifuni: «La lettura di tutti gli scritti civili pasoliniani, che da tempo mi accompagnava, non poteva forse sposarsi, in un matrimonio incestuoso, con i versi di Giorgio Somalvico?». Ecco allora che la riflessione di Pasolini, quella che apre Lettere luterane, diventa il fulcro tanto dell’ideazione quanto, poi, della messinscena:

La prima parte dello spettacolo è una summa del pensiero politico di Pasolini, costruita su estratti ripresi, oltre che da Lettere luterane, da Scritti corsari, e da Siamo tutti in pericolo (l’ultima intervsita rilascata a Furio Colombo). L’intento di Bertolucci e Gifuni, in strettissimo rapporto di interazione e coautorialità, è quello di trasmettere il teorema pasoliniano – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentrale dei media da parte del Nuovo Fascismo – sotto forma di un unico ragionamento socratico. Lavorando su frammenti di testi saggistici un’esposizione frontale avrebbe causato un sovraccarico declamatorio, dando così l’impressione di trovarsi di fronte a una predica o a un comizio. Da qui la scelta di creare una situazione colloquiale: immergere l’attore nel pubblico e fare dello spettatore un elemento teatrale con cui, chi è in scena, deve dialogare. Per stabilire questa idea di confronto i coaturi decidono di cominciare lo spettaccolo riprendendo la Lettera aperta a Italo Calvino, e quel «tu» su cui si apre il testo è il gesto d’interpellazione che permette a Gifuni di demolire del tutto la cosiddetta quarta parete:

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La sfida è fare nuova luce su una forma Ê»acquisitaʼ di spettacolarità, molto discussa ma solo in parte storicizzata, ancora non riconosciuta adeguatamente nella sua reale portata pionieristica. Muovendo da tale sfida, il testo di Jennifer Malvezzi Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano (Milano, Posmedia Books, 2015) va nella direzione di un’utile riscoperta di quelle esperienze sceniche liminali che, mescolando efficacemente linguaggi diversi, diedero vita al singolare fenomeno del videoteatro italiano all’altezza degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

L’intento è insieme arduo e ambizioso, giacché riportare in superficie e analizzare criticamente un Ê»oggettoʼ ondivago, multiforme e rizomatico quale fu il videoteatro italiano apre una serie di interrogativi non indifferenti riguardo la sua origine, la sua (dis)articolata evoluzione, le diverse ragioni del suo prematuro declino.

Malvezzi allora fa un passo indietro nella storia, guarda all’oggetto della sua indagine con gli occhi del Ê»cronistaʼ in praesentia, recupera recensioni e dichiarazioni dell’epoca per restituirci il più possibile quello che fu lo spirito del tempo, lo stato d’animo corrente, l’euforica sensazione d’apertura sperimentale che permeò il nostro teatro trent’anni fa, sull’onda di un’intensa ibridazione tra la scena e i dispositivi testuali e linguistici introdotti dai media audiovisivi.

Per inquadrare i fermenti della stagione videoteatrale italiana nella giusta prospettiva storico-critica, evidenziandone il ruolo di primo piano nello sviluppo di una spettacolarità intertestuale, strettamente connessa alla cultura mediatica e precorritrice dell’ampia produzione tecnologica odierna, Malvezzi dà alla sua indagine un taglio cronologico ben preciso, circoscrivendola al decennio 1978-1988, quando «il fenomeno non si era ancora sclerotizzato in forme manieristiche, bensì si poneva come momento di rottura sia rispetto alla tradizione che alle ricerche di marca poverista».

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Il mio cervello

pullula di belle idee per il teatro.

Ma non so se mi ci dedicherò.

Italo Calvino, 1942

 

In occasione dei trent’anni dalla scomparsa di Italo Calvino, uno degli scrittori più eclettici del secondo dopoguerra, riprendiamo il bel volume di Enrica Maria Ferrara, Calvino e il teatro: storia di una passione rimossa (edito da Peter Lang nel 2011), votato a ripercorrere la traiettoria dell’avventura teatrale dello scrittore sanremese dagli esordi alla travagliata riscrittura di Un re in ascolto che lo accompagnerà sino alla morte nel 1985. Il volume disegna la ‘linea dell’arco’ lungo la quale si evolve l’esperienza drammaturgica calviniana e, pur non avendo a disposizione tutte le ‘pietre’ lasciate dallo scrittore, l’autrice riesce a consegnarci un Calvino inedito facendo ricorso a due gruppi di documenti: le recensioni teatrali, apparse su L’Unità fra il 1949 e il 1950, e l’epistolario dello scrittore, pubblicato nel 2000 nella collezione “I Meridiani”, che include numerose missive indirizzate a Eugenio Scalfari tra il 1941 e il 1943, ricche di dettagliate descrizioni delle opere teatrali progettate e realizzate in gioventù, nonché dei suoi modelli e della sua poetica.

Grazie agli stralci delle lettere presenti nel volume e alla ricostruzione appassionata fatta da Ferrara scopriamo l’intensa vocazione teatrale di Calvino, elemento questo che stupisce se si considera la totale scomparsa delle opere scritte in quel periodo: l’unico testo teatrale giovanile a disposizione della critica e del pubblico dei lettori è infatti I fratelli di Capo Nero (1943), pubblicato nel terzo volume dei Romanzi e Racconti. Durante la fase giovanile, narrativa e teatro sono compresenti, almeno a livello progettuale, e lo scrittore si rende conto che la produzione teatrale può essere congeniale al suo piglio. Eppure, ci fa notare l’autrice, il Calvino narratore ostenta «noncuranza e critica distanza» nei confronti della propria produzione drammaturgica, assecondando l’opinione della critica che il teatro facesse parte di un terreno ‘sperimentale’ e minore nel suo impegno letterario. Rimane però il fatto che dal marzo del 1942 fino all’estate del 1943 le lettere di Calvino fervono di progetti per opere teatrali (12 sono i titoli di cui fa menzione) che solo in parte saranno realizzati e del cui adattamento lo scrittore invia puntuali e dettagliate notizie all’amico Scalfari. Contemporaneamente, Calvino si dedica alla narrativa e matura la decisione di portare una copia del suo manoscritto di racconti, dal titolo Pazzo io o pazzi gli altri, al giudizio di Einaudi (che rifiuta la proposta). In questo periodo l’evoluzione del gusto calviniano e i modelli da lui seguiti si avvicendano con un ritmo che rispecchia da un lato la ricerca estetica dello scrittore esordiente, dall’altro la molteplicità delle forme teatrali che convivono sulla scena italiana nel ventennio fascista. Ferrara affronta il rapporto che lo scrittore intrattiene con quelli che reputa modelli ‘ispiratori’: se i due assi portanti del teatro novecentesco italiano sono senza dubbio Luigi Pirandello (presenza ‘ingombrante’) e Gabriele D’Annunzio, il confronto con drammaturghi come Henrik Ibsen, Eugene O’Neill e Edmond Rostand rende impossibile l’imitazione di modelli abusati dal teatro tradizionale.

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L’articolo prende in esame la relazione linguistica tra la costruzione scenica dei progetti Motel e Strettamente Confidenziale di gruppo nanou e le teorie sull’immagine fotografica contenute ne La Camera Chiara di Roland Barthes.

The essay examines the linguistic relationship between the stage's construction of the projects Motel and Strettamente Confidenziale performed by gruppo nanou and the theories on the photographic image expressed by Roland Barthes in Camera Lucida.

La trilogia Motel, faccende personali (2008-2011) rappresenta il punto di non ritorno, la nomenclatura e il fulcro concettuale dell’intera produzione performativa di gruppo nanou. Articolato su tre camere (Prima Stanza, Seconda Stanza e Anticamera), che sono al contempo finestre in sé conchiuse ed episodi di una serie, il progetto è stato recentemente celebrato attraverso l’ostensione di alcuni suoi elementi in Strettamente Confidenziale, un’originale operazione di musealizzazione articolata anch’essa in stanze che fungono da contenitori dell’azione, sorta di time boxes che, aperte a distanza di anni, espongono frammenti di memorie deformate dal tempo e dal ricordo.

Topos della cinematografia da Alfred Hitchcock in poi, la camera del motel è il non-luogo per eccellenza, il paradigma di quell’essenza tutta americana dell’abitare transitando. Gli oggetti in essa contenuti, solo apparentemente anonimi, rappresentano in realtà il «paesaggio reificato» e l’«oggettivizzazione delle personalità degli abitanti che la occupano».[1] L’utilizzo della stanza di motel come dispositivo scenico, che diviene una sorta di assoluto per i nanou, trova un noto precedente sulle scene italiane in Twin Rooms (2002) di Motus. Lo spettacolo, mediante un serrato montaggio di frammenti video unito a costanti riferimenti alla letteratura postmoderna americana inscenava il potenziale narrativo connaturato all’immaginario cinematografico del luogo.[2]

Fin dal primo episodio di Motel, la critica teatrale italiana ha guardato anche agli ambienti scenici di gruppo nanou evidenziandone il rapporto con l’immaginario cinematografico.

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In ritardo rispetto alle traduzioni in altre lingue europee, appare finalmente anche in edizione italiana, grazie all’editore Carocci, questo consistente volume di Erika Fischer-Lichte, studiosa fra le più autorevoli della storia e della teoria del teatro. La chiara introduzione e la traduzione meditata e impegnativa sono di Tancredi Gusman.

Estetica del performativo parrebbe sulle prime rimandarci al vivace campo discorsivo dei performance studies, che negli ultimi decenni hanno mostrato come sia possibile riformulare l’analisi della cultura, nelle sue varie manifestazioni, a partire dai paradigmi della performance e della performatività. Tuttavia, l’ambiziosa proposta di Fischer-Lichte è quasi opposta alle linee di sviluppo dei performance studies di area americana (da Richard Schechner a Diana Taylor, per intenderci). Questi hanno postulato l’estensione della categoria di performance oltre il campo ristretto delle arti della scena, a includervi le performance politiche, sociali, sportive, mediatiche, e hanno negato la priorità dell’estetica nella definizione e analisi degli eventi performativi, compresi quelli artistici (come ha spiegato Fabrizio Deriu nella sua introduzione a Magnitudini della performance di Schechner). La proposta di Fischer-Lichte muove invece in senso contrario (come nota anche Marvin Carlson nell’introduzione all’edizione inglese del volume di Fischer-Lichte, The Transformative Power of Performance, 2006). Gli oggetti di studio da lei considerati sono infatti le performance artistiche e in particolare il teatro, l’arte di azione (Aktionskunst) e la performance art, nei loro sviluppi intrecciati in Occidente, dal secondo Novecento ad oggi; e la studiosa rivendica la priorità dell’estetica come disciplina atta a comprenderne e spiegarne il funzionamento, e la necessità di rinnovarne i paradigmi e le concettualizzazioni tradizionali per argomentare appieno la ‘svolta performativa’ che caratterizza l’indirizzo delle arti della scena (e delle arti tout-court) negli ultimi decenni.

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Mancava finora una monografia completa sull’intera opera di Michele Sambin (Padova 1951), artista polimorfo, attivo fin dai primi anni Settanta in svariati campi: cinema, video, musica, pittura, teatro. Certo, non facevano difetto contributi anche notevoli su singoli aspetti o fasi della sua attività: ne cito uno per tutti, il volume curato da Fernando Marchiori su Tam Teatromusica.[1] C’erano sicuramente reali difficoltà a cogliere, secondo una prospettiva unitaria, un’attività che si sviluppa in oltre quarant’anni all’insegna della sperimentazione continua e che consegue risultati rilevanti, senza tuttavia chiudersi in se stessa.

Tanto più apprezzabile appare, quindi, l’uscita di Michele Sambin. Performance fra musica, pittura e video, frutto del meritevole impegno di una piccola casa editrice, la Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova (Cleup 2014), abitualmente dedita alla saggistica accademica.[2] Si tratta di una esaustiva monografia a più voci e, allo stesso tempo, di un’edizione d’arte. Il volume è curato da Sandra Lischi, voce autorevole e vivace che da anni lavora alla frontiera tra cinema e video-arte, e Lisa Parolo, una giovane studiosa laureata all’Università di Padova e dottoranda all’Università di Udine, la cui ricerca, impegnata su due fronti (studio storico-critico e problematiche di conservazione/restauro della MediaArt), si colloca in un ambito che ha nell’Università di Udine il suo centro più importante e in Cosetta G. Saba la sua principale animatrice.[3]

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Con la pubblicazione di Tre pièces e soggetti cinematografici di Goliarda Sapienza (editi da La Vita Felice nell’ottobre del 2014) si aggiunge un tassello importante all’opera di una scrittrice ingiustamente rimasta nell’ombra fino a poco tempo fa, ma soprattutto si illumina un capitolo fondamentale della sua esperienza artistica. La ‘prima vita’ di Sapienza (così la considera Angelo Pellegrino, curatore del volume, per distinguerla dalla ‘seconda’, dedicata alla scrittura) è infatti legata alla scena e al grande schermo. Come è ormai noto, la scrittrice aveva lasciato la Sicilia appena sedicenne ed era approdata a Roma per frequentare la Regia Accademia di Arte drammatica. Dal 1942, anno del suo esordio con l’interpretazione del personaggio di Dina in Così e (se vi pare), fino al 1960 Goliarda Sapienza si dedica alla carriera di attrice di teatro e al cinema. Nell’ambiente cinematografico ha nel fattempo incontrato Citto Maselli, con il quale collaborerà in molti film, sia nella sceneggiatura che nella regia. Dagli anni Sessanta in poi, le brevi apparizioni sulla scena hanno soltanto una funzione pratica, mentre il teatro e il cinema diventano prevalentemente oggetto della sua scrittura, come queste tre pièce e i tre soggetti cinematografici dimostrano.

Pur appartenendo a periodi cronologicamente differenti (anche se per la verità sulla datazione il curatore dice poco e bisognerà ancora provare a fare chiarezza), i tre drammi presentano elementi tematici comuni e un impianto drammaturgico molto simile. Al centro di ognuno di essi c’è la ‘macchina della tortura’ dei rapporti familiari. Non si tratta di famiglie di sangue bensì di ‘famiglie psichiche’: quella che vive nella comune in cui è ambientata I due fratelli («questa povera famiglia inventata»), la famiglia d’elezione che si stringe attorno ad Anna, protagonista della Grande bugia, o infine il ‘gruppo di famiglia in un interno’ che un po’ casualmente si raccoglie nel finale a casa di Marta e Piera in Due signore e un cherubino. Si direbbe che, pur sovvertendo e forzando i ruoli di genere e di parentela, Sapienza non possa farne a meno per costruire drammaturgicamente la tela di relazioni che lega i suoi personaggi: in ciascuna pièce irrompe sempre un ospite più o meno gradito, capace di innescare un gioco di rivelazioni e svelamenti che tocca l’acme dell’azione. I protagonisti sono chiamati così a raccontare la propria storia e, nel contempo, a indossare e nascondere la propria maschera, a interrogare e decostruire la propria identità. Altro elemento comune, e basso continuo, è la concezione della scena come «sala operatoria» in cui si porta allo scoperto, si illumina e si tenta di estirpare il cancro della menzogna che ammorba i rapporti umani.

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