Sconfinamenti. Su Michele Sambin. Performance fra musica, pittura e video, a cura di S. Lischi e L. Parolo

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Mancava finora una monografia completa sull’intera opera di Michele Sambin (Padova 1951), artista polimorfo, attivo fin dai primi anni Settanta in svariati campi: cinema, video, musica, pittura, teatro. Certo, non facevano difetto contributi anche notevoli su singoli aspetti o fasi della sua attività: ne cito uno per tutti, il volume curato da Fernando Marchiori su Tam Teatromusica.[1] C’erano sicuramente reali difficoltà a cogliere, secondo una prospettiva unitaria, un’attività che si sviluppa in oltre quarant’anni all’insegna della sperimentazione continua e che consegue risultati rilevanti, senza tuttavia chiudersi in se stessa.

Tanto più apprezzabile appare, quindi, l’uscita di Michele Sambin. Performance fra musica, pittura e video, frutto del meritevole impegno di una piccola casa editrice, la Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova (Cleup 2014), abitualmente dedita alla saggistica accademica.[2] Si tratta di una esaustiva monografia a più voci e, allo stesso tempo, di un’edizione d’arte. Il volume è curato da Sandra Lischi, voce autorevole e vivace che da anni lavora alla frontiera tra cinema e video-arte, e Lisa Parolo, una giovane studiosa laureata all’Università di Padova e dottoranda all’Università di Udine, la cui ricerca, impegnata su due fronti (studio storico-critico e problematiche di conservazione/restauro della MediaArt), si colloca in un ambito che ha nell’Università di Udine il suo centro più importante e in Cosetta G. Saba la sua principale animatrice.[3]

 

1. Una questione di forma

Una recensione di Michele Sambin. Performance fra musica, pittura e video deve necessariamente partire dalla sua forma, dal modo in cui il libro è stato pensato e «messo in pagina». Questo significa cogliere la stretta relazione che in quest’impresa si realizza tra i caratteri peculiari dell’opera di Sambin e la struttura della ricca documentazione e dei percorsi di analisi che i testi propongono. Non si tratta, come si fa nei supplementi letterari dei quotidiani, di dare un punteggio (in palline o stellette) allo stile di scrittura e alla copertina, mettendo assieme valutazione del contenuto e giudizio sulla confezione merceologica del prodotto. Qui va preso in considerazione il ruolo che l’organizzazione dei materiali critici e della documentazione iconografica assume in questo artefatto che è un vero e proprio «libro d’artista». La prima copertina è priva di scritte. La quarta riproduce una frase scritta a mano, ripetuta più volte e in modo incompleto, smozzicato, quasi si trattasse di prove grafiche: «Performance implica corpo». E subito ti vien fatto di pensare come tutta la nomenclatura del manufatto-libro implichi riferimenti al corpo umano (risguardo, occhiello, nervi, dorso...). Ma pensi anche ai libri giapponesi che si aprono all’inverso dei libri occidentali.

Inoltre, la prima copertina presenta su uno sfondo, che appare come un’atmosfera di color blu, un clarinetto appeso a un filo, quasi si trattasse di un pendolo (in realtà, è una citazione dalla serie dei Disegni blu, 1980, relativi a installazioni video quali BAC CAB e From left to right).[4] Tutto questo fornisce l’impressione di uno spazio non definito, non limitato dai bordi della copertina. Credo che raramente la grafica di un libro ne abbia sintetizzato in modo tanto esatto il senso e l’ unicità. Robert Escarpit diceva che, come ogni cosa viva, il libro è un oggetto «indefinibile».[5] Quest’idea si adatta in modo del tutto speciale a quest’opera, se a indefinibile diamo il significato di ciò che non può essere circoscritto dentro una struttura predeterminata. La forma di questo volume si fonda sulla pratica dello ‘sconfinamento’ allo stesso modo in cui la pratica dello sconfinamento è il contrassegno del lavoro di Michele Sambin. Ciò che rende unica quest’opera nel panorama della letteratura storico-critica contemporanea è la singolarità della figura di Michele Sambin. Questo libro sembra annullare le differenze tra monografia critico-interpretativa e biografia. La monografia su un artista ipostatizza l’unità, la coerenza interna, il sistema delle relazioni intertestuali. La biografia di un artista si muove in più direzioni, acquisisce elementi rilevanti in ambiti differenti, mette le fonti più disparate al servizio di una narrazione in cui le n dimensioni del tempo esistenziale sono ricondotte al percorso unitario del tempo storico (l’artista e il suo tempo). E tuttavia né l’una né l’altra classificazione esauriscono il senso di questo volume che sfugge, programmaticamente, a ogni definizione, come del resto lo stesso contesto in cui si colloca la sperimentazione di Sambin. Le curatrici lo definiscono un’«un’epoca di scoperte e di veloci transizioni e metamorfosi tecnologiche, un quadro fluido, senza cornici e senza bordi, in cui dialogano l’utopia e l’infrazione, l’irriverenza e la serietà dell’impegno, il gioco e la sfida che da culturale si fa anche, in senso ampio e nobile, politica».[6]

2. Dal libro all’archivio (in rete)

Il problema che hanno dovuto affrontare le curatrici può essere così sintetizzato: come evitare, nella trattazione di vari aspetti dell’attività di Sambin, di accreditare l’idea di eclettismo? E come mantenere invece, nell’articolazione dei saggi che lo compongono, l’idea di un percorso unitario nel quale il passaggio dalla pittura al film, al video, alla performance multimediale e al teatro risultino momenti di un percorso reso necessario dai suoi stessi presupposti? Quest’idea non solo sostanzia i saggi raccolti nel volume ma informa lo sviluppo del testo inteso come un dialogo tra la dimensione argomentativa della scrittura critica e quella progettuale della documentazione iconografica, in un gioco di spostamenti progressivi. Il libro si apre con una lunga e dettagliata intervista di Lisa Parolo a Michele Sambin, realizzata in tempi successivi. E si conclude con il saggio della stessa Parolo www.michelesambin.com. L’archivio Sambin. Metodologie per la Media Art, corredato dalle schede analitiche delle opere conservate. Tra i due contributi si colloca idealmente un preciso saggio, ancora di Parolo, che, nonostante il titolo minimalista (Storie tra Padova e Venezia), costituisce un apporto fondamentale, in quanto fa pienamente luce sul contesto artistico-culturale, tra Padova e Venezia, in cui ha inizio e prende forma l’esperienza artistica di Michele Sambin. Tra la prima parte (l’intervista) e l’ultima (l’archivio Sambin) si stabilisce un rapporto funzionale: l’intervista fornisce le informazioni per chiarire le condizioni originarie in cui si è svolta ogni singola performance oggi solo parzialmente riproducibile attraverso i materiali pervenuti (e riprodotti in rete). Inoltre essa fornisce elementi preziosi per gettare luce sul contesto delle esperienze artistiche realizzate. Cito solo, a titolo di esempio, i passaggi dedicati a Giuseppe Mazzariol, straordinaria figura di critico, docente, organizzatore culturale. Creatore tra le altre cose dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia, con sede a Palazzo Fortuny, nel cui ambito prende avvio la sperimentazione video di Sambin. Egli ne parla in questi termini: «Personalità aperta a esperienze artistiche internazionali, ma contemporaneamente legato alle problematiche del territorio – si è inventato l’UIA per creare un collegamento tra l’insegnamento e i problemi concreti della città lagunare».[7] Il saggio conclusivo e le schede ad esso correlate sono l’aspetto più innovativo di quest’opera in quanto non si limitano a fare il punto sulle problematiche e le metodologie del progetto di recupero e di restauro delle opere, ma forniscono la chiave d’accesso alla loro consultazione. È su questo piano che la «forma libro» e la «forma rete» s’incontrano, l’una sconfina nell’altra: ciò consente un utilizzo pieno e consapevole dell’archivio in rete, sottraendolo all’indeterminatezza della navigazione casuale e collocandolo in una prospettiva «storica», nel senso che dà conto della distanza che esiste tra ciò che è oggi visibile nella rete e ciò che l’evento originario era.

3. «VTR & I»

I saggi in cui si articola il libro toccano tutti gli aspetti dell’attività di Michele Sambin. Da citare, innanzi tutto, i due saggi liminari dedicati al contesto internazionale e a quello nazionale: il primo, di Sandra Lischi, mette a confronto le esperienze di Sambin nel campo della video-arte con alcune delle coeve espressioni sul piano internazionale (Bill Viola, Nam June Paik & Charlotte Moorman, Steina & Woody Vasuka). Ciò che emerge quale tratto distintivo dell’artista padovano è la relazione che di volta in volta egli stabilisce tra differenti temporalità («diretta», «differita» e «performance dal vivo») e differenti modalità (scontro, dialogo, gioco ironico). Nell’analisi di Lischi diventa centrale la funzione del loop, quando il dispositivo della chiusura del nastro ad anello non era, come accade oggi nelle videoinstallazioni, una tecnica puramente funzionale allo scorrimento in continuità delle immagini, ma un vero e proprio «attore dalle sorprendenti doti performative».[8] Il saggio di Silvia Bordini sul contesto nazionale va letto in parallelo con quello di Parolo, già citato, in quanto permette di evidenziare differenze e specificità, dell’ambiente artistico di Padova e di Venezia, ma anche i punti di contatto con esperienze parallele. Puntuali e circostanziati sono poi i saggi su aspetti specifici dell’opera di Sambin, i quali hanno come tratto comune l’adozione di una prospettiva dinamica che tende a cogliere i movimenti in atto piuttosto che circoscrivere singoli aspetti. Ci limitiamo a qualche esempio. Riccardo Caldura, nel suo saggio su grafica e pittura,[9] traccia l’efficace ritratto di un pittore che non può o non vuole essere più tale e che, allo stesso tempo, non può o non vuole disconoscere quello che rimane un punto di partenza, una fonte. Il saggio di Cristina Grazioli, Il tempo della luce: costruire e dissolvere, è probabilmente quello che si spinge più avanti nella definizione del ruolo che suono e luce giocano nella ricerca di Sambin, con l’intento di isolarli e valorizzarli come energia originaria, anteriore al senso codificato, facendoli emergere come ciò che nella rappresentazione è irrappresentabile e diventa esclusivamente agibile. Si tratta di una dimensione che Grazioli illustra recuperando, da un saggio di Brunella Eruli sul teatro d’immagine e il teatro di poesia in Italia, suggestivi riferimenti a Wittgenstein («Su ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere») e a Valéry («una lunga esitazione tra il suono e il senso»).[10] Quest’area della sperimentazione di Sambin, nella quale ciò che è illuminato «non è necessariamente più parlante o più visibile di ciò che è immerso nell’ombra», potrebbe, a mio giudizio, essere ricondotta alla definizione di «figurale» (in opposizione a figurativo) di Jean-François Lyotard, vale a dire al campo delle emergenze dinamiche ed espressive di forze che eccedono (e precedono) ogni convenzione linguistica. Questa fondamentale categoria del pensiero lyotardiano non è senza connessioni con le esperienze cinematografiche d’avanguardia maturate tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta: penso in particolare al saggio L’acinéma (1973), recentemente riproposto in un numero monografico di «Aut-Aut» su Lyotard.[11] Bruno Di Marino, uno dei maggiori esperti di cinema d’artista, colloca la produzione cinematografica di Sambin, svolta tra 1968 e 1977, all’insegna della joyciana «ineluttabile modalità del visibile», cercando di conciliare l’esigenza di definire l’esperienza cinematografica dell’artista padovano come «necessaria premessa all’arte elettronica» e la tentazione di considerarla un’«esperienza in sé conclusa».[12] In quest’ultima prospettiva, l’esperienza cinematografica nella sua spinta verso l’astrazione è assimilata alla pittura, mentre nella prima prevale una concezione del dispositivo di riproduzione come «macchina che genera scarti, faglie, intervalli cronologici, apparato di registrazione e simultaneamente di cancellazione».[13]

Il passaggio dal video al teatro è indagato, con intelligenza critica e vicinanza empatica, da Anna Maria Monteverdi nel saggio Da solo a molti. Dalle video-performance solitarie al collettivo tecnoteatrale.[14] Il contributo di Monteverdi sviluppa la tematica del «contagio» considerata, sulla base di una lunga conversazione con l’artista, la parola chiave «per mostrare gli inizi, gli sviluppi e l’attuale teatro di Sambin e del Tam Teatromusica».[15] Pur inserendosi perfettamente nel quadro d’insieme dell’opera, questo contributo va opportunamente integrato con altri quali Partiture. Michele Sambin dalle videoperformance al teatro carcere della stessa Monteverdi, in «Ateatro. Webzine di cultura teatrale», 59.40, 10/19/2003, (http://www.ateatro.org/mostranotizie2bis.asp?num=59&ord=40).[16]

4. Sconfinamenti

Vorrei, infine, ritornare sul tema dello sconfinamento che può essere indicato come il filo conduttore che ci guida nello svolgimento dei saggi di questo libro, in quanto esso è l’idea chiave di tutta l’opera di Sambin. Anche se quella del video resta l’attività che emerge con maggior forza e originalità (soprattutto grazie al ruolo giocato dal dispositivo del loop), va osservato che essa non è mai indagata per se stessa, come esperienza autosufficiente, ma come processo verso un’altra dimensione: dalla video-arte a quella che si configurerà poi come arte elettronica, dalle esperienze video al teatro come del resto ribadisce in varie occasioni Sambin stesso: «Le video-installazioni sono un elemento fondamentale del mio passaggio al teatro: il pubblico assiste a un processo che non è solo elettronico ma anche fisico».[17] La spinta centrifuga della ricerca di Sambin nasce da un costante rifiuto della norma/normalizzazione dell’esperienza estetica: esso si configura come tratto caratterizzante del fare artistico, ma anche come risposta ‘politica’ agli accadimenti congiunturali: ed è così che lo sconfinamento verso il teatro diventa la necessaria risposta al «ritorno all’ordine» rappresentato dalla transavanguardia, con quanto di restaurativo essa comportava rispetto alla galassia della video-arte.

Se la pratica dello sconfinamento è l’idea guida della ricerca di Sambin, resta la necessità di individuare un denominatore comune nelle varie attività: pittura, cinema, video, teatro. Esso è chiaramente indicato e indagato nel saggio di Roberto Calabretto, Esperienze molteplici all’insegna di un comun denominatore: la musica.[18] Ma dire musica significa ben poco, se non si pone mente al modo d’essere e di prodursi della musica nell’arte di Sambin dove, sia pure attraverso l’adozione di mezzi differenti, quella che è costantemente in gioco è l’interazione tra corpo, suono, immagine, luce. E in questo sistema la musica passa sempre attraverso la dimensione del gesto, del corpo, della fisicità di azioni, di luoghi e di contesti. Una citazione riportata da Calabretto mi sembra particolarmente chiarificatrice, al di là del suo apparente valore aneddotico: «quello che ho appreso, l’ho appreso frequentando persone e ambienti [...]. Sarà banale, ma a me piaceva sedermi sempre vicino a Stockhausen o a Cage, perché c’era questo desiderio di assorbire».[19] A integrazione del saggio di Calabretto, in cui si ricorda l’importanza che per Sambin ha avuto l’ascolto di un concerto di Thelonius Monk presso il Centro d’Arte degli Studenti di Padova («prezioso tassello della sua formazione accanto a John Coltrane, Miles Davis, Ornette Coleman»), troviamo la riproduzione di un dépliant progettato ed eseguito da Sambin in occasione del concerto di Monk. Nel suo commento, Sambin ricorda che, in questo che è il suo primo lavoro grafico, i caratteri che compongono il nome del pianista sono incisi a mano su linoleum. Era stato lo stesso tipografo a consegnargli un pezzo di linoleum perché ricavasse direttamente la matrice per la stampa. Apparentemente è un piccolo dettaglio marginale e tuttavia in questo passaggio attraverso la dimensione manuale della produzione dell’immagine si realizza la congiunzione con la dimensione tattile della produzione musicale. L’idea di una resa della partitura in termini puramente visivi informa di sé tutta la ricerca plastica, musicale e scenica e deriva dalla lezione di questi musicisti che avevano portato la gestualità dell’esecuzione a livelli di grande evidenza scenica. Questa dimensione si realizza compiutamente nel rapporto che Sambin stabilisce tra videotape e performance musicale dal vivo: per esempio, in Spartito per violoncello (1974), dove vediamo che il video funziona da spartito musicale nel senso che fornisce le suggestioni a partire dalle quali l’esecutore dà luogo alla sua improvvisazione.[20]


1 F. Marchiori (a cura di), Megaloop: l'arte scenica di Tam Teatromusica, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2010 (con contributi dello stesso Marchiori e di Antonio Attisani, Cristina Grazioli, Veniero Rizzardi, Riccardo Caldura).

2 S. Lischi, Lisa Parolo (a cura di), Michele Sambin. Performance fra musica, pittura e video, Padova, Cleup, 2014.

3 Il volume raccoglie, oltre a quelli delle curatrici Sandra Lischi e Lisa Parolo, i contributi di Silvia Bordini, Riccardo Caldura, Roberto Calabretto, Bruno di Marino, Francesca Gallo, Andreina Di Brino, Cristina Grazioli, Anna Maria Monteverdi e si avvale della collaborazione dello stesso Sambin, tanto per l’apparato iconografico quanto per le numerose note integrative.

4 S. Lischi, Lisa Parolo (a cura di), Michele Sambin, p. 253.

5 R. Escarpit, La rivoluzione del libro, Padova, Marsilio, 1968, p. 8.

6 S. Lischi, L. Parolo (a cura di), Michele Sambin, p. 11 (corsivi miei).

7 Ivi, p. 19.

8 Ivi, p. 46.

9 R. Caldura, ‘«Ho un modo di annotare graficamente le idee»’, in ivi, pp. 82-104.

10 B. Eruli, ‘Dire l’irreprésentable, répresenter l’indicible. Théâtre d’images, théâtre de poésie en Italie’, in B. Picon-Vallin (dir.), La scène et les images, Paris ,CNRS, 2002.

11 ‘L’acinema di Jean François Lyotard’, numero monografico di Aut-Aut, 338, aprile-giugno 2008, a cura di A. Costa e R. Kirchmayr (con interventi sul figurale di Chateau, Bertetto e altri).

12 B. Di Marino, ‘«Ineluttabile modalità del visibile». Il cinema (1968-1977)’, in S. Lischi, L. Parolo (a cura di), Michele Sambin, pp. 126-132.

13 Ivi, p. 126.

14 Ivi, pp. 200-216.

15 Ivi, p. 200

16 Si veda inoltre A. Balzola, Anna Maria Monteverdi (a cura di), Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2004.

17 S. Lischi, L. Parolo (a cura di), Michele Sambin, p. 202.

18 Ivi, pp. 106-124.

19 Ivi, p. 107.

20 Si veda la scheda di Lisa Parolo contenuta nel volume.