Oltre lo specchio. Stefano Bessoni e il cinema

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La posizione di Stefano Bessoni, regista e illustratore, è per molti versi originale rispetto al contesto culturale di cui è protagonista. Il cinema rappresenta per lui il mezzo ideale per estendere le potenzialità delle idee catturate con carta e matita. Fugge dalle etichette di un certo cinema di genere horror sin dalle sue prime esperienza legate al video teatro. A partire dai lavori degli anni ’90 in cui si sperimenta con un cinema che potremmo definire ‘concettuale’, fino ad arrivare ai progetti  cinematografici, nel senso commerciale e standardizzato del termine, è evidente la sua cifra stilistica di matrice visiva, grottesca, fumettistica e molto poetica che molto deve a ‘padri’ cinematografici quali Peter Greenaway, Wim Wenders, Jean-Pierre Jeunet ed altri. Un cinema a tinte orrorifiche che affonda le proprie radici nelle paure più profonde che si nascondono nel cuore dell'animo umano.

The role of Stefano Bessoni, film director and illustrator, is original in many ways, expecially compared to the cultural context of which he is protagonist. The cinema for him is the ideal way to extend the potentialities of ideas captured with pencil and paper. Since of his first experience related to the video-theater, he flees from the labels of a certain kind of horror film. Starting from the works of the 90’s, a group of visual texts that we could define ʻconceptualʼ, until to the real cinematographic projects, which are for some aspects commercial and standardized, it is clear his stylistic hallmark of visual, grotesque, comic and poetic matrix, which owes much to ʻfathersʼ such as Peter Greenway, Wim Wenders, Jean-Pierre Jeunet and others. Bessoni’s cinema has its roots in the deepest fears that lurk in the human heart.

 

Quando ti guardi in uno specchio, sei sicuro di esserne al di fuori, di non essere te il riflesso di quel personaggio che emerge dalle acque oscure, dal di dentro te, altro?

Michel Schneider

 

 

1. Breve premessa

Lo sguardo filtrato attraverso la lente del perturbante che ritroviamo in pittori come Hieronymus Bosch e Pieter Brueghel, il mondo grafico oscuro proveniente dai paesi dell’Est, l’incisore «principe delle ombre» Mario Scarpati, artisti quali Fèlicien Rops e Alfred Kubin, fino ad arrivare a Dusan Kallay e Arthur Rackham. E poi l’incontro con creatori d’immagini e sperimentatori visivi quali Peter Greenaway, Wim Wenders, o i pionieri dell’animazione stop motion come Jan Švankmajer e i fratelli Quay. A questi aggiungiamo le ballate di Nick Cave e le fotografie di Joel Peter Witkin. Questo e non solo è l’universo che popola le opere di Stefano Bessoni che, con gli anni, grazie alle letture che spaziano dai trattati di zoologia e anatomia fino ad arrivare a Franz Kafka de La metamorfosi e al Bruno Schulz de Le botteghe color cannella passando per Lewis Carroll e la sua Alice e il Pinocchio di Collodi, è riuscito a creare una sua cifra stilistica originale. Illustrazione e cinema sono i due pilastri che reggono il suo universo, qui ci vogliamo soffermare sulle esperienze cinematografiche che gli hanno permesso di materializzare quello che «galleggiava in stato larvale sulla carta».[1]

Il suo non può essere definito un cinema convenzionale perché organizzato secondo canoni che si allontanano da quelli che si è abituati a vedere; un cinema fatto di immagini non gratuite, di musiche, di emozioni e di testi a volte complicati e a volte inesistenti, di teatralità, di finzione e, per assurdo, di spietata realtà. Simbolo e metafora divengono il riflesso in uno specchio, trasformandosi in maschera del reale che, proprio per questo, si fa più vero.

Bessoni approda al cinema relativamente tardi e di riflesso. Da piccolo suo padre lo portava in sala e tutte le volte che il film gli piaceva tornava a casa e disegnava i personaggi di un film simile a quello che aveva visto. Nel decennio ‘80-’90 comincia a realizzare film sperimentali, installazioni video teatrali e documentari, aprendo la strada a quell’ibridazione delle varie forme d’espressione che caratterizzerà i lavori più maturi. Sono anni in cui ancora non si disponeva delle tecnologie digitali e quindi ogni segno, ogni forma portava con sé una patina artigianale. Oggi, dopo aver attraversato diverse esperienze artistiche, Bessoni riconosce che la sua partenza cinematografica è più vicina al medium teatrale, nonostante un rapporto ambivalente con il mondo della scena: «mi ha sempre messo paura, perché è legato a un concetto di morte… è una cosa già morta nel momento in cui si sta consumando. L’idea di registrazione mi permette invece di far vivere quella cosa, è questo per me fondamentale».[2] Guardando con affetto e distacco ai suoi esordi, ammette che i suoi modelli possono ritrovarsi nel Teatro della crudeltà di Antonin Artaud, nel Teatro della morte di Tadeusz Kantor, nel Surrealismo Panico di Roland Topor e nel Teatro nero di Praga ideato da Jiri Srnec.[3] Non c’è da stupirsi, del resto proprio Artaud in riferimento alla sua paura e avversione per il mezzo cinematografico diceva: «e come non identificare le tenebre del cinema con le tenebre notturne, i film con i sogni?».[4]

 

2. Da Rembrandt a Kafka passando attraverso specchi e labirinti

Alcuni tra i più grandi autori amano definirsi costruttori di sogni e Bessoni non è da meno. «Mi piace pensare e creare personaggi assurdi, visionari e sempre estremamente specializzati che vivono e si muovono in società popolate da altri individui con le loro stesse caratteristiche».[5] Questi personaggi sono catturati da Bessoni grazie alla raffigurazione su carta che costituisce il punto di partenza per quella fase di lavoro che culminerà con le riprese. Acquerelli e matite gli consentono di gettare sul foglio le idee in maniera veloce e così le cartelle si popolano di nuove creature. Quelle destinate, per scelta d’autore, a vivere oltre la carta cominciano ad esprimersi, a balbettare i loro concetti e le loro sensazioni, fino a quando non si ricorrerà alla figura dell’attore.

Le prime prove cinematografiche di Bessoni sono cortometraggi e film tv. Nel 1993 realizza Tulp (durata 55’), ispirato al celebre dipinto di Rembrandt La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp (1632) e inserito all’interno del progetto Immaginando le immagini.

Rembrandt

In questo lavoro ricrea un ipotetico seicento nel quale si muovono allucinati personaggi, interessati solamente all’anatomia e allo studio dei cadaveri, mentre cercano di trovare delle risposte a domande sull’esistenza.

Tulp

Bessoni immortala in video un momento storico in cui la scienza si reggeva ancora su pilastri di approssimazione e superstizioni, e rendendo vivo il quadro inventa le storie che l’opera d’arte gli suggerisce. Documentarsi sull’argomento gli serve per distaccarsi e trasformare uno di questi medici (austeri cattedratici) in un insegnante riflessivo, un filosofo intriso di strane credenze e ingenuità (para)scientifiche. Intorno a lui seguaci silenziosi che da spettatori-vittime assistono a lezioni sempre più logorroiche trasformando, nella loro mente, gli argomenti trattati. Tutto ciò è ambientato in un mondo oscuro, avvolto in un’atmosfera intrisa di morte e in cui l’unico interesse sembra rappresentato dalla sola fonte di razionalità: l’anatomia.

Se in questo cortometraggio la cadenza è segnata da scritte che lo dividono in capitoli (una trilogia che si snoda tra nascite mostruose, accoppiamenti incestuosi, morte e decomposizione), quasi a voler tradurre il video in un libro che si sfoglia sotto gli occhi dello spettatore, il cortometraggio di poco successivo parte proprio da un celebre racconto di Franz Kafka: La metamorfosi.

Gregor Samsa (1993, durata 20’) è, per stessa dichiarazione del regista, una liberissima trasposizione. Il Kafka rivisitato è una messa in scena che ricorda alla lontana quella di alcuni film di Carmelo Bene, dove l’assurda vicenda capitata al protagonista viene affrontata in modo teatrale e il processo di trasformazione è messo in scena con uno stato larvale creato da un bozzolo di lenzuola, prima, e dallo spuntare di un secondo paio di braccia, poi.

Gregor Samsa

La scelta di trasformare il protagonista da commesso viaggiatore a rappresentante ambulante di articoli per entomologia serve a Bessoni per rendere la presenza degli insetti angosciante sin dal primo fotogramma. Anche l’ambientazione concorre a sottolineare uno spazio tetro e opprimente in cui la raccolta di insetti praticata dai familiari di Gregor diviene un’ossessione maniacale. Qui i fatti sono scanditi da ritmi biologici che fanno riferimento agli stadi di sviluppo degli insetti e anche il protagonista è dapprima larva, poi crisalide ed infine adulto.

Bessoni continua a costruire microcosmi alternativi al nostro e a popolarli di personaggi nati dalla sua mente, dal bagaglio visivo legato alla storia dell’uomo, alla storia dell’arte, alle tradizioni popolari, alle paure che si annidano nel profondo dell’animo umano. Nel 1995 nasce Grimm e il teatro della crudeltà (durata 67’), un’incursione macabra nel mondo delle fiabe raccontata con gli occhi di un Antonin Artaud reduce da una seduta di elettroshock. È un mediometraggio di forte impianto teatrale dove lo ‘stordito’ Artaud esplica alcuni concetti di base del suo Teatro della crudeltà. Antonin, novella Alice, attraversa lo specchio ed entra in un mondo popolato da scrittori di favole e dalle loro fantasiose creature. In questo ambiente virtuale incontra Grimm che lo accompagnerà nella ‘discesa agli inferi’; non si tratta però del Jacob Grimm che conosciamo, ma del suo doppio, un personaggio che odia i bambini, sadico e spietato.

Grimm: Salve!
Artaud (allucinato e intontito): Salve… a voi…
Grimm: Io sono Grimm…Jacob Grimm, lo scrittore di fabulette per mocciosi infanti… il maggiore dei due fratelli Grimm… Ma ora sono solo, sono il solo ed unico fratello Grimm… Non vi sembra una cosa interessante?
Artaud (confuso, ma più per il trattamento subito che per la situazione): Si…interessante…estremamente interessante…
Grimm: Il mio adorato fratellino Wilhem non c’è più, è morto…è passato a miglior vita…L’ho ucciso!!!
No…non spaventatevi è una cosa normale… normalissima, in fondo è il banale svolgersi degli eventi, è il logico modo di comportarsi da secoli… da millenni! Sono stati Caino e Abele a iniziare a dare il buon esempio…
Caino disse ad Abele… “Andiamo fuori”… e quando furono lontani, in un bel campo assolato, prese un enorme pietra aguzza, spigolosa, sicuramente creata per usi cruenti e, con rara maestria per un principiante, gli fracassò la tenera testolina… Sono passati i tempi e cambiati i costumi, ma i sentimenti sono sempre gli stessi di quel primo focoso assassinio…
Grimm si sposta e si avvia verso il corpo esanime del fratello, seguito con lo sguardo da Antonin. Wilhem è coperto di sangue e sul volto è congelata una rigida smorfia di morte.
Grimm: Che dolce… che tenerezza, sembra un inerme fanciullino che consuma il suo sonnellino… Dormi Wilhelm … dormi… Stanotte io e Antonin attendiamo visite, ma cercheremo di non far rumore… Vedrai non ti daremo il minimo disturbo! Dormi amato fratello mio… Dormi!!!
Grimm canticchia una monotona e sinistra nenia, mentre si esibisce in una squinternata e sbalorditiva danza. Artaud lo osserva ammirato e compiaciuto.[6]

I due protagonisti, entrambi in camicia da notte (Grimm in realtà indossa anche una cuffia bianca e ha le dita della mano destra che terminano con dei grandi e affilati pennini da calligrafia), sono immersi in un ambiente appena illuminato dalla luce fioca delle candele, nel quale si aggirano come anime perse. Il corpo di Wilhelm, stretto da una camicia da notte insanguinata, giace a terra, privo di sensi. Il mondo rappresentato è crudele, deviato ed esasperato; dentro questo girone infernale la lotta tra bene e male non trova mai requie mentre la morte, elemento incombente, osserva silenziosa, pronta a intervenire. Nonostante tale spessa cortina limbale, la raffigurazione non rinuncia a toni ironici e fiabeschi (si pensi alla danza fanciullesca che Jacob e Antonin fanno alla fine di questa scena), perché in fondo si tratta di un ambiente speculare alla realtà, in cui tutto è ribaltato e le regole sovvertite da forze misteriose.

Grimm e il teatro della crudeltà

Grimm e Artaud dialogheranno, nel corso di una notte di viaggio, con il reverendo Carroll, con Collodi, con Pinocchio, con la Fata Turchina, con l’affabulatrice (un’insolita narratrice di favole) e, per finire, con il marchese De Sade in tenuta sadomaso, accompagnato da due effemminati figuri.

De Sade: Salve, Grimmuccio caro… Non vi aspettavate una mia venuta questa notte, non è vero?
Grimm (emozionato): No…ma ogni volta che vedo la vostra persona il cuore mi scoppia di infinita gioia… Non faccio Altro che leggere e rileggere i vostri romanzi… il vostro si che è un vero paese delle meraviglie e la vostra Justine ha molte cose da insegnare a quella collegiale di Alice…naturalmente con tutto il rispetto per il mio amico Lewis Carrol…
De Sade: Quanta ammirazione mio caro ometto…
Grimm: Come non potrei ammirare e osannare colui che ha fatto della perversione, della cattiveria, della crudeltà una ragione di vita, una forma di scrittura…una filosofia…colui che ha dato il nome a un modo maniacale di comportarsi…il sadismo…[7]

Se da una parte Bessoni comincia a guardare a quel mondo che tanto spazio avrà nelle sue illustrazioni, quello dell’infanzia e delle favole, contemporaneamente con l’entrata in scena di Sade affronta il tema della perversità e della maniacalità che si annida nel fondo dell’animo di ognuno di noi. La superficie visiva di Grimm richiama le atmosfere deformate di certo cinema espressionista, tra Wiene e Murnau: alcuni dei personaggi di Grimm ricordano infatti il sonnambulo Cesare Caligari, con il suo sguardo diabolico e malato, ma tutta la grana dell’immagine pare riprodurre i toni di un universo alterato, cromaticamente e mentalmente. Altro modello che concorre all’evidenza figurativa del film è Oskar Kokoschka, uno degli artisti più amati da Bessoni; rappresentante di una poetica dalla forte cromia che riesce a scavare l’anima, Kokoschka è presente attraverso alcune citazioni che si sommano a prestiti dalla tradizione dell’arte popolare. Le inquadrature insistono su questa materialità iconica, accentuata da sovraimpressioni e angolature insolite che conferiscono a questo mediometraggio un aspetto illustrativo e al contempo straniante.

Sempre in ambito teatrale e con un approccio simile a Grimm e il teatro della crudeltà si muove Asterione, del 1996 (durata 17’), ispirato al racconto di Jorge Luis Borges La casa di Asterione (1949).

Il film racconta la storia e la solitudine del Minotauro per mezzo d’inquadrature sospese tra l’arte pittorica e quella video (una donna nuda che accarezza il cranio di un bovino, un’altra che stringe al seno, avvolto in un lenzuolo, la testa sanguinante di un vitello), mentre i drammatici monologhi di Franco Mazzi (protagonista anche del lungometraggio Frammenti di scienze inesatte, del 2005) scandiscono la colonna visiva con un ritmo palesemente teatrale e caricato.

Asterione

La struttura teatrale di Asterione secondo Bessoni si inserisce nel filone neobarocco aperto da Peter Greenaway con L’ultima tempesta e The baby of Macon. Tale effetto è creato ed esaltato dalla cura pittorica dell’immagine in cui la visione prevale sulla parola. Bessoni come Greenaway ambisce ad agguantare il frame utilizzandolo come grandiosa ‘tavola’ sulla quale sperimentare grazie alla convergenza di musica, letteratura, pittura, teatro e nuove tecnologie. L’uso insistito di dissolvenze incrociate trasforma ogni singolo fotogramma in un oggetto plurisignificante. Sul piano dei contenuti, poi, come nelle opere precedenti il confine tra bene e male si fa più labile mentre quello tra apparenza e realtà diventa sempre più ambiguo.

I testi fin qui analizzati rappresentano (anche) il desiderio di Bessoni di utilizzare la ‘macchina’ cinema forzandone il limite, al fine di costruire un personale assemblaggio di visioni che ricorda più un’opera di video arte in stile Bill Viola che non un classico prodotto audiovisivo. Come nelle opere dell’artista newyorkese anche nei primi prodotti cinematografici di Bessoni si attraversa il confine del mondo corporeo, si oscilla fra vita e morte. Bisogna avere il coraggio di rompere il muro (d’acqua per Viola, della placenta per Bessoni), di oltrepassare la soglia, per rendersi conto che la nostra fisicità è solo un viaggio.

Prima di affrontare il discorso sui film che appartengono al cosiddetto cinema commerciale e all’arte della stop motion, è bene soffermarsi su un progetto di video-teatro rimasto nel ventre della balena.

 

3. Carissimo Pinocchio

Pinocchio Apocrifo

Le avventure di Pinocchio non cesseranno mai di stupire per la loro straordinaria capacità evocativa e onirica. Nel 1997 Bessoni progetta una sua versione video-teatrale contaminando la fiaba collodiana con influenze lombrosiane e shelleyane: nasce così Pinocchio apocrifo.[8]

La creatura forgiata dalle mani di Geppetto si ribella e allora è facile richiamare la creazione in vitro dell’Homunculus di Paracelso o il perturbante Frankestein di Mary Shelley.

L’anatomia, la patologia, la teratologia e altre forme di scientificità maniacale fanno da cornice a questo manipolo di personaggi, che ho cercato di riproporre secondo una logica molto vicina a quella dell’uomo tardo medievale barocco. Come se il Pinocchio fosse stato scritto anziché da Carlo Lorenzini, da un sanguigno commediografo elisabettiano, per poi passare nelle mani di pittori come Bosch o Bruegel…[9]

Il Pinocchio bessoniano, muto e infelice, mostra poi i tratti del ‘delinquente nato’ di Cesare Lombroso che lo avrebbe sicuramente bollato negativamente. Su tutti i personaggi torna ad aleggiare il fantasma di Artaud che trasmuta il mondo in un luogo crudele e spietato, fatto di dolore e thanatos. La Fata Turchina diventa così una fanciulla cadaverica (la ritroveremo nell’illustrazione del 2014 per i tipi Logos) e il Gatto e la Volpe si trasformano in perversi malfattori.

 Pinocchio apocrifo Fata Turchina. Illustrazione per Pinocchio 2014, Logos

Il progetto finale, forse un po’ troppo intellettuale e sicuramente molto sperimentale, spinge Bessoni a trovare un compromesso più commerciale. L’edizione del Pinocchio di Roberto Benigni (2002), la comparsa di una serie di ‘pinocchietti strambi’ (si veda il fumetto di Ausonia Pinocchio. Storia di un bambino - 2006) o del disorientante film giapponese 964 Pinocchio (prodotto nel 1991 ma disponibile in DVD solo nel 2007) gli fanno accantonare l’idea in attesa di tempi più propizi; per fortuna ha già in cantiere un nuovo progetto: I Galgenlieder (Canti della forca) dello scrittore tedesco Christian Morgenstern.

 

4. Di mad doctor, Wunderkammer e becchini

Bessoni approda al lungometraggio con Frammenti di scienze inesatte (2005) che racconta la storia di costruttori di Wunderkammer, creatori di omuncoli, cercatori di angeli, abbinata agli studi inesatti del professor Zacchia, anatomista e scultore tassidermico, per certi versi prototipo dello scienziato pazzo il cui operato filmico però non si conclude con una folle e pericolosa creazione, ma con l’ispirare e fomentare le ossessioni di chiunque si avvicini al suo laboratorio.

 Frammenti di scienze inesatte Frammenti di scienze inesatte

Spesso i film di Bessoni sono selezionati all’interno di rassegne e festival di cinema horror, ma lui non si considera un regista di genere e con le sue opere tocca l’orrore una sola volta con quello che, probabilmente, rimane il film più conosciuto dal grosso pubblico: Imago Mortis[10] (2008), coproduzione italo-spagnola. La pellicola segna il suo ingresso nel cinema mainstream, ma rappresenta anche il lavoro meno personale per l’autore, forse troppo condizionato da disposizioni produttive.

 Imago mortis

Incentrato sulla thanatografia, una tecnica fotografica che avrebbe permesso allo scienziato Girolamo Fumagalli di immortalare, asportando la retina delle sue vittime, l’ultima immagine vista in vita, il film porta avanti un’interessante riflessione sull’ossessione dello sguardo e sulla voglia d’immortalità in cui l’occhio è nello stesso tempo oggetto e soggetto della visione. Nella scuola di cinema “F.W. Murnau”, tempo dopo, uno studente del corso di regia viene improvvisamente colto da strane allucinazioni e, nel tentativo di dare una risposta all'inquietante fenomeno, la sua vita finisce per intrecciarsi con la terribile storia del folle scienziato.

 Imago mortis

Al centro del racconto si situano macabre utopie barocche che hanno come padre il Greenaway de Lo zoo di Venere, un contributo non da poco nella riflessione su cinema-occhio-morte-sguardo. Le ambientazioni richiamano invece l’influsso della nuova ondata gothic di matrice spagnola, il cui esponente Alejandro Amenábar è stato continua fonte d’ispirazione. Convincenti sono le atmosfere che Bessoni riesce a creare grazie anche alle felici collaborazioni con Briseide Siciliano (alle scenografie), Arnaldo Catinari (alla fotografia, che potremmo definire ‘pittorica’), Leonardo Cruciano (agli effetti speciali) e Bruno Albi Marini (a quelli digitali). Lo script è un po’ debole (la sceneggiatura è firmata anche da Luis Berdejo) per stessa ammissione del regista, ma forse il film rappresenta la possibilità di tornare a lavorare in piena libertà espressiva.

Gli scorci verticali sulle scale, le continue variazioni di ripresa (necessarie per seguire le ricerche del protagonista Bruno), i carrelli laterali all’esterno dell’Istituto, codificano una cifra registica che, insieme alla fotografia ricca di ombre sui volti e un po’ plumbea di Catinari, testimonia una spiccata abilità tecnica che troverà il punto di massima espressione in Krokodyle[11] (2010). Qui siamo di fronte a una sorta di diario personale (la didascalia che apre la pellicola chiarisce gli intenti: Questa è una storia molto personale, stupida e senza una morale... forse macabra... e un po’ paranormale), in cui Bessoni veste i panni del film-maker esordiente Kaspar Toporski (Lorenzo Pedrotti), che vive in un mondo sospeso tra l’ideale e il reale, ossessionato da wunderkammer, omuncoli (soggetti poi di due libri illustrati sempre per i tipi Logos) e fotografi macabri. Com’è nato questo lavoro lo racconta il regista nelle pagine del suo blog, ma attenzione perché il racconto è ancora una volta frutto della sua fantasia:

Qualche anno fa, in un mercatino dell’usato a Berlino, acquistai per pochi soldi una vecchia cinepresa 16 mm. Nella borsa c’erano delle scatole con alcuni spezzoni di pellicola, impressionati, stando a quanto riportato sull’etichetta, da un certo Kaspar Toporski nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro. Li feci sviluppare e scoprii che contenevano le inquadrature di un piccolo film di animazione oscuro e perturbante. Le montai, in senso cronologico, in modo da provare a dargli un labile filo narrativo. Le animazioni erano state realizzate con la tecnica della stop-motion e raccontano lo strano rapporto di un bambino con un coccodrillo, che sembra filare idilliaco fino al momento in cui il rettile non tenta prima di vendere il suo piccolo amico al becchino preparatore di un museo di storia naturale, e poi una volta a casa lo divora, senza pensarci troppo. Sono sequenze in animazione scattose, grossolane, che ricordano per affinità espressiva alcune opere dell’artista praghese Jan Švankmajer, o il capolavoro dei fratelli Quay “Street of Crocodiles”, cosa che porta a pensare che la scelta di un coccodrillo come protagonista non sia del tutto casuale. Non ho mai trovato la minima traccia di Kaspar Toporski, né facendo ricerche nelle biblioteche e sui giornali dell’epoca e neanche spulciando i cataloghi dei festival di cinema, anche i più piccoli e misconosciuti. Toporski sembra non essere mai esistito, tranne per questo piccolo misterioso filmato di pochi minuti. La figura di questo filmmaker inesistente mi ha appassionato a tal punto da decidere di erigerlo a mio alter ego e a costruirci sopra un film completamente libero, estremamente personale, che contenesse tutti i miei appunti, le mie idee e le mie istanze espressive. Nacque così, nel 2010, “Krokodyle”.[12]
Krokodyle

Toporski-Bessoni vorrebbe riuscire a materializzare le sue idee sullo schermo, ma non riesce a trovare la strada e gli interlocutori giusti per farlo. In attesa di risposte, trascorre il suo tempo disegnando, scrivendo e inventando un mondo immaginario che giorno dopo giorno sembra diventare sempre più reale. Nutre fin da bambino un’ammirazione sfrenata per i coccodrilli, che considera esseri perfetti in grado di controllare lo scorrere del tempo, e per fissare le sue idee inizia a realizzare un film su se stesso, una sorta di taccuino di appunti cinematografici, fatto d’immagini catturate d’istinto, di disegni, di fotografie, di brevi animazioni, di suoni, di parole e di musica, di sogni e di incubi. Con il passare del tempo e il progredire del film nel film, l’allontanamento di Kaspar dal mondo reale sembra farsi sempre più insistente, fino a spingerlo a credere di essere lui stesso il frutto bizzarro della sua irrefrenabile fantasia. Anche qui, come in Frammenti, ritroviamo la divisione in capitoli, e un personaggio che fa da trait d’union (il bravo Orfeo Orlando) a colloquio con un fantomatico produttore che non comparirà mai per tutto il film.

 Krokodyle

Forte anche della splendida fotografia di Ugo Lo Pinto, Krokodyle può definirsi un coraggioso esperimento di cinema indipendente. Bessoni per bocca del protagonista afferma che «i registi si dividono tra quelli che sanno disegnare e quelli che non sanno disegnare», e lui, al pari dei film-maker che hanno influito sulla sua formazione (Greenaway, Gilliam, Burton), è un grande creatore d’immagini (non solo su pellicola) e proprio da questo suo rapporto con l’universo pittorico deriva «l’aura di fascinazione che traspare in ogni suo fotogramma».[13] Krokodyle è costellato da disegni, schizzi, creature e animazioni partoriti dalla mente di Kaspar (ovvero da quella di Bessoni), e da oggetti e pezzi di collezioni sparse un po’ per tutto il film. Il racconto è ricco inoltre di citazioni fiabesche, dall’Alice di Carrol al Pinocchio di Collodi, il tutto accompagnato da una colonna sonora composta da brani classici tra cui spicca il bellissimo Carnevale degli Animali di Camille Saint-Saëns.

Le creature fantastiche, partorite dagli appunti di Bessoni, interagiscono con gli attori in carne e ossa e sono realizzate con animazioni semplici (burattinai che muovono sul set le creature) e con effetti digitali più complessi (grazie al lavoro di Bruno Albi Marini). Fanno parte di una fase di sperimentazione portata avanti da Bessoni sin dai suoi esordi e che culminerà nel 2013 (anche se non sappiamo in futuro il regista cosa ci riserverà) con i Canti della forca,[14] sorta di spin-off di Krokodyle.

Era il 1993 o forse il 1994, per anni buttai giù schizzi su strambi personaggi, ispirandomi a quegli scritti che ormai avevo letto, riletto ed imparato a conoscere anche attraverso un apparato di scritti critici faticosamente racimolato in giro per biblioteche, poi nel 1999 decisi di fare una prima incursione cinematografica nell’universo morgensterniano e realizzai un piccolo rudimentale cortometraggio basato su una mia personale selezione dei canti del patibolo, sostenendolo con dei miei scritti aggiunti per fornirgli una semplicissima ed apparente struttura narrativa. Il cortometraggio incontrò il favore di alcuni critici, che mi onorarono della paternità della scoperta e della divulgazione di un autore misconosciuto, ma sollevò le perplessità e lo sconcerto di buona parte del pubblico, sicuramente non propenso al non-sense, soprattutto se di natura macabra. Decisi comunque che prima o poi avrei continuato il lavoro, quindi pur lavorando in questi anni su progetti più commerciali, non ho mai smesso di pensare ai Galgenlieder e di buttare giù schizzi ed appunti.[15]
 I canti della forca

Nasce così un libro accompagnato dal cortometraggio (durata 15’) in stop motion (a onor del vero va ricordato che in Italia Stefano Bessoni è uno dei maestri di ‘passo uno’), in cui ritroviamo Lorenzo Pedrotti nel ruolo di un illustratore che sta lavorando su una personale trasposizione dei Canti della Forca, raccolta di poesie macabre dello scrittore tedesco Christian Morgenstern. Perso nelle sue fantasie, comincia a vedere il mondo da una prospettiva diversa, la prospettiva dei Fratelli della Forca: «assassini, ladri, truffatori, ma anche innocenti sognatori, che a forza di penzolare l’uno accanto all’altro decidono di unirsi in una confraternita».[16] Le sue illustrazioni prendono vita e i protagonisti si animano magicamente. Il Piccolo impiccato, il cicciottello Lalula, Pauretto, un vecchietto vestito da marinaretto e Sophie, l’assistente del boia, ci accompagnano in una riflessione profonda sul senso della vita ricordandoci che non dobbiamo dimenticare quello che Nietzsche sosteneva e cioè che «in ogni adulto veramente tale si cela un fanciullo e questo fanciullo vuole giocare».

Il mondo della scienza è via via divenuto il nucleo centrale della poetica di Bessoni. I film, come i suoi libri, ruotano sempre attorno a quest’universo e in particolare all’anatomia umana, alla zoologia e a tutte le cosiddette ‘scienze inesatte’, o ‘anomale’. Il suo altrove preferito è la Wunderkammer, uno spazio che lo fa sentire a proprio agio, che vede nascere nuove idee per i suoi film, per le sue storie e i suoi disegni. Contiene animaletti rinsecchiti, crani, ossa, vecchi balocchi, semi, foglie, conchiglie, denti, insetti, fossili, insomma tutto ciò che desta sorpresa e meraviglia. Oggetti che non può fare a meno di collezionare per esibirli in un suo personale museo del mondo. La Wunderkammer, magnifica ossessione, è un territorio che per natura riesce a esaltare il suo immaginario, che diventa affascinante nei suoi disegni e visivamente spiazzante nel suo cinema. E d’altra parte cos’è il cinema se non una camera delle meraviglie?

Come uno degli anatomisti dei suoi film, o come il Geppetto del suo macabro Pinocchio, Bessoni, moderno Prometeo, crea ogni suo personaggio su carta, prima ancora di pensare di metterlo sullo schermo. La macchina da presa diviene così una sorta di ‘matita magica’ che dà vita ad un microcosmo popolato da protagonisti irreali, e ci consente di andare al di là del vetro, alla scoperta di un mondo fantastico che si trova a portata di mano, oltre lo specchio.

 


1 Il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari ha pubblicato un suo saggio sul lavoro intorno alla creazione di un personaggio, dal titolo Attraverso lo specchio. Nella pubblicazione sono inseriti la sceneggiatura e i bozzetti del film Grimm e il teatro della crudeltà. Cfr. S. Bessoni, Attraverso lo specchio, Roma, ETL, 1994-1995, p. 3.

2 Da una conversazione con Stefano Bessoni, Museo Luzzati di Porta Siberia, Genova 20 febbraio 2016.

3 Sulle radici della sua immaginazione, e sui tanti riferimenti al mondo della scena, si rimanda a Videointervista a Stefano Bessoni, a cura di G. Barbagallo e S. Scattina, Arabeschi, IV, 7, http://www.arabeschi.it/videointervista-a-stefano-bessoni-/ .

4 S. Bessoni, Attraverso lo specchio, p. 3.

5 Ivi, p. 4.

6 Dalla sceneggiatura di Grimm e il teatro della crudeltà, citata in S. Bessoni, Attraverso lo specchio, p. 17.

7 Ivi, p. 34.

8 Per quest’opera ricevette anche il patrocinio della Fondazione Nazionale Carlo Collodi.

9 S. Bessoni, ‘Il burattino e la strega’, Ciak, maggio 1996.

10 Imago mortis, con Geraldine Chaplin, Alberto Amarilla, Oona Chaplin, Leticia Dolera, durata 109 minuti, distribuzione Medusa, Italia/Spagna/Irlanda 2009.

11 Krokodyle, con Lorenzo Pedrotti, Jun Ichikawa, Franco Pistoni, Orfeo Orlando, Francesco Martino, durata 80 minuti, distribuzione Twin Film, Algemene Vereniging Radio Omroep (AVRO), Constantin Film, Twin Video e DPI. Realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte. Vincitore in Brasile al Cinefestival 2011 come miglior lungometraggio, menzione d’onore per il miglior contributo artistico al Fantaspoa 2011, menzione speciale – Méliès d’Argento al Sitges 2011, miglior film a Puerto Rico Horror Film Fest 2011, miglior film fantasy a Cinefantasy 2011.

12S. Bessoni, ‘Kaspar Toporski “DZIECKA I KROKODYL” (1989) Krokodyle’, in http://stefanobessoni.blog.tiscali.it/?s=krokodyle [accessed 30 dicembre 2015]

13 L. Ruocco, ‘Le finte scienze di Stefano Bessoni’, InGenere Cinema, gennaio 2014.

14 Ideazione e realizzazione burattini di Stefano Bessoni, modellazione burattini e realizzazione stampi di Gigi Ottolino presso il Leonardo Cruciano Workshop, animazioni di Claudia Brugnaletti, scenografie di Briseide Siciliano, Musiche degli Za Bùm. Produzione del cortometraggio INTERZONE VISIONS.

15 S. Bessoni, ‘Canti della forca’, in http://stefanobessoni.blog.tiscali.it/?s=canti+della+forca [accessed 30 dicembre 2015]

16 Ibidem.