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Abstract: ITA | ENG

Il saggio analizza come il teatro nella poetica di Fanny & Alexander si mescola ad altre arti. In particolare si ripercorrono cronologicamente i principali progetti teatrali della compagnia sotto tre prospettive differenti. La prima riguarda la presenza del cinema nel progetto Ada o ardore. La seconda affronta la potenza dell’immagine nel progetto Oz. La terza e ultima tratta invece il più recente dispositivo, chiamato “eterodirezione”, che ha inaugurato un nuovo procedimento compositivo a stretto contatto con la parola e la letteratura (Progetto Discorsi, Storia di un’amicizia e Se questo è Levi).

The essay analyzes how theater, in Fanny & Alexander's poetics, meets many other arts. In particular, the main theatrical projects of the company are traced chronologically from three different perspectives. The first concerns the presence of cinema in the project Ada o ardore. The second deals with the power of the image in the Oz project. The last deals with the most recent device, called “heterodirection”, that is remote control, which inaugurated a new compositional process involving language, dance and literature (Discorsi Project, Storia di un’amicizia and Se questo è Levi).

 

1. Prologo

Piccole fiammelle tremolanti illuminano la ribalta. Sull’arcoscenico campeggia la frase Ei blot til, lyst, che in italiano significa «non per il solo piacere», un invito, che è anche un ammonimento. I personaggi sono figurine di carta colorata. Un bambino, Alexander, con occhi pieni di immaginazione, contempla il proprio teatrino, prima di alzarsi in piedi, chiamare Fanny ed esplorare la casa della nonna, che tra lampadari di cristallo, tende, drappeggi, antichi quadri alle pareti, un letto con il baldacchino e sedie di legno intagliato che sembrano dei troni, appare, agli occhi del bambino, una reggia. La prima scena del film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (1982)[1] ha un sapore iniziatico. À rebours la scelta della compagnia ravennate – fondata dieci anni dopo l’uscita del film, nel 1992, da Luigi De Angelis e Chiara Lagani – di utilizzare come proprio nome, e marchio di fabbrica, il titolo del film di Bergman, appare quanto mai esatta. Le forme, le atmosfere e i temi ci sono già tutti, o quasi: l’archetipo dell’infanzia, la potenza dell’immaginazione e dell’arte, il piacere della macchineria artigianale e della meraviglia, la costruzione di dispositivi della visione, la complicità di una coppia, un fratello e una sorella… E poi dell’immaginario di Bergman si potrebbero aggiungere i contrasti tra eros libertino e rigore nordico, amore per le grandi opere e ossessione per il dettaglio, fascinazione per una raffinata tradizione borghese e carica innovativa nella rottura delle forme.[2] Fanny & Alexander nasce richiamandosi a un grande regista cinematografico e teatrale, che è soprattutto un artista-intellettuale creatore di mondi.

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Abstract: ITA | ENG

Da sempre vicini al mondo della letteratura, Chiara Lagani e Luigi De Angelis, fondatori della compagnia Fanny & Alexander, dal 2017 al 2019 hanno realizzato il progetto drammaturgico Storia di un’amicizia tratto dal ciclo di romanzi di Elena Ferrante L’amica geniale. Il presente saggio propone uno studio critico dei tre spettacoli che compongono il progetto: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta. Data la forte matrice letteraria di queste produzioni sceniche, la prospettiva d’indagine adottata si colloca all’incrocio tra teatrologia e analisi letteraria, vale a dire nello spazio liminale proprio delle ricerche intersemiotiche. L’ambito epistemologico dei media studies, e le categorie di intermedialità, transmedialità e rimediazione, costituiscono infatti il frame teorico entro cui si sviluppa il contributo; partendo da una contestualizzazione del lavoro di Fanny & Alexander tra gli ‘effetti culturali’ prodotti dall’opera ferrantiana, per giungere ad un ampio affondo ermeneutico nelle sue strutture formali e tematiche. Facendo leva su una precisa costellazione di elementi (recitazione eterodiretta, gestualità coreutiche, fotografie e filmati in Super8, interpolazioni narrative) l’adattamento teatrale di Lagani e De Angelis acquista un autonomo valore espressivo, che rivela le potenzialità del transito dalla forma-romanzo alla forma-teatro, e con esse lo slancio libero e vitale dell’immaginazione drammaturgica. 

Always close to the world of literature, Chiara Lagani and Luigi De Angelis, founders of the Fanny & Alexander company, from 2017 to 2019 have realized the dramaturgical project Storia di un’amicizia taken from the cycle of novels by Elena Ferrante L’amica geniale. This essay proposes a critical study of the three plays that compose the project: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta. Given the strong literary matrix of these stage productions, the perspective of investigation adopted is placed at the crossroads between theatrology and literary analysis, in the liminal space of intersemiotic researches. The epistemological field of media studies, and the categories of intermediality, transmediality and remediation, constitute in fact the theoretical frame within which the contribution is developed; starting from a contextualization of Fanny & Alexander’s work among the ‘cultural effects’ produced by the Ferrante’s novel, to arrive at a broad hermeneutic dig in its formal and thematic structures. Leveraging a precise constellation of elements (heterodirect acting, coreutic gestures, photographs and films in Super8, narrative interpolations) the theatrical adaptation of Lagani and De Angelis acquires an autonomous expressive value, which reveals the potentials of the transition from the novel-form to the theater-form, and with them the vital and free impulse of the dramaturgical imagination.

 

1. Transitare dalla pagina al palco: il progetto Storia di un’amicizia

Così Elena Ferrante, nella sua raccolta di interviste e saggi d’occasione La frantumaglia, descrive la potenza mitica del racconto letterario, ovvero la capacità congenita della pagina narrativa di farsi «rampa per il decollo»[2] dell’immaginazione.

Secondo la scrittrice, più esattamente, dalle relazioni che si instaurano tra testi e lettori nascono sempre dei «libri intermedi»,[3] altri racconti fabbricati dallo sguardo e dalla sensibilità di chi legge. Il nuovo «libro che si fa nel rapporto tra vita, scrittura e lettura […] diventa evidente soprattutto quando il lettore è un lettore privilegiato, uno che non si limita a leggere ma dà forma alla sua lettura, per esempio con una recensione, un saggio, una sceneggiatura, un film».[4] La feconda intuizione di Ferrante convalida la pratica principe della cultura artistica contemporanea legata alla ricezione romanzesca, ossia lo slancio intermediale[5] con cui, superate rigide divisioni di generi e forme, i lettori ‘privilegiati’ si appropriano delle strutture diegetiche e retoriche della comunicazione letteraria, per rimediarle[6] in una pluralità di codici espressivi. Dare forma all’immaginazione messa in moto dalla lettura è il privilegio di chi possiede un linguaggio artistico con cui compiere una traduzione: il passaggio dal corpus di parole dei testi d’origine, alla trama polimorfica[7] dei ‘libri intermedi’ intrecciata dai lettori.

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In un freddo pomeriggio di fine gennaio, l’appuntamento è alla stazione di Ravenna. Chiara Lagani passa a prenderci in auto e, insieme, ci si sposta a Bassette. Ardis Hall, l’ormai storico spazio di lavoro di Fanny & Alexander, si trova lì, nella zona industriale della città romagnola. Spazio di lavoro ma anche a disposizione di altre realtà teatrali per le loro prove e la loro ricerca e aperto al pubblico per performance, mostre, convegni, laboratori e festeggiamenti: qui, come si legge sul sito della compagnia, «ha provato Marisa Fabbri, ha ballato Susan Sontag, ha cenato Ermanno Olmi». Un edificio di origine industriale, diviso in sala prove, laboratorio scenografico, magazzino e uffici. Ed è in questi ultimi che, una volta arrivato anche Luigi De Angelis, si sceglie di girare la videointervista: un’ora lungo la quale, grazie alla estrema disponibilità e generosità di Lagani e De Angelis, si attraverseranno i nodi centrali del percorso artistico e della poetica della compagnia che, in quasi trent’anni di lavoro, è divenuta una delle realtà più importanti nel panorama del teatro contemporaneo italiano.

Riprese audio-video e montaggio: Vittoria Majorana e Flavia Mazzarino

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

1. Gioco, folgorazioni e lanterne magiche: l’origine multipla del duo

D: Che ne dite di partire dalla vera e propria origine di Fanny & Alexander? Origine tanto come esigenza e necessità primaria del fare teatro che come scelta del nome stesso della compagnia?

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La compagnia ravennate Fanny&Alexander è stata fondata nel 1992 da Luigi De Angelis e Chiara Lagani. Sin dagli esordi si è distinta per una rinnovata attenzione per il mondo della letteratura e delle arti visive, realizzando negli anni diverse produzioni: da spettacoli teatrali ad azioni performative e musicali, passando per installazioni e mostre, fino alla realizzazione di libri fotografici e opere video. Una «bottega d’arte» dove cooperano diverse personalità artistiche ‒ si pensi alla lunga collaborazione con il fotografo Enrico Fedrigoli, lo studioso Stefano Bartezzaghi e il collettivo Zapruderfilmmakersgroup. Tra questi figura anche l’attore Marco Cavalcoli che dal 1997 si è unito stabilmente alla compagnia.

Nel 1996 va in scena il primo spettacolo, scritto e ideato dagli stessi F&A, che attira l’attenzione del grande pubblico: Ponti in core. I protagonisti sono due ragazzi, Dorotea (Chiara Lagani) e Cipresso (Luigi De Angelis), che, accogliendo gli spettatori in un piccolo teatro anatomico, inscenano un susseguirsi di giochi macabri e funerei, in bilico tra l’innocenza e l’abiezione, la vita e la morte. È evidente come, sin dagli esordi, lo spazio e i dispositivi tecnologici che ‘orientano’ lo sguardo dello spettatore ‒ così come il tema del doppio ‒ si mostrino quali elementi cardini della poetica di Fanny&Alexander.

Le esperienze degli anni successivi, molto legate alla ricerca sul suono e sullo spazio, traghettano la compagnia verso la produzione del primo grande progetto dedicato alla messa in scena di un romanzo: Ada, tratto da Ada o l’ardore di Nabokov. Il progetto comprende sette spettacoli ‒ Ardis I (2003), Ardis II (2004), Adescamenti (2004), Aqua Marina (2005), Vaniada (2005), Lucinda Museum. Adieu por Elle (2005) e Promenada (2006) ‒ che esplorano l’opera-mondo di Nabokov secondo due traiettorie: quella dell’incesto e quella del rapporto tra spettatore e rappresentazione. Dalla deflagrazione dell’universo nabokoviano nascono anche altre ‘opere’ satelliti che completano il progetto Ada: la video installazione Rebus per Ada (Luca Sossella, 2007), realizzata insieme al collettivo Zapruderfilmmakersgroup e il foto-testo Ada. Romanzo teatrale per enigmi in sette dimore liberamente tratto da Vladimir Nabokov (Ubulibri 2006), che ripercorre, attraverso un’inedita drammaturgia verbo-visiva, il lavoro svolto dalla compagnia.

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Quando scrisse Platonov, Anton Pavlovič ÄŒechov era uno studente di medicina di appena vent’anni: nonostante i numerosi interventi di revisione, l’opera non fu mai rappresentata né pubblicata mentre il suo autore era in vita: ritrovata dal fratello in un cassetto della sua scrivania, venne pubblicata postuma e senza titolo nel 1920. Da allora, però, non sono mancati adattamenti e riscritture, sebbene il lavoro sia stato spesso considerato non rappresentabile, trattandosi di un’opera di oltre 230 pagine, con ventitré personaggi, scene incomplete e un finale irrisolto. Tra queste riproposizioni si situa adesso la messinscena curata da Marco Lorenzi, giovanissimo regista della compagnia torinese Il Mulino di Amleto, insieme a Lorenzo De Iacovo, a partire da un’esperienza di residenza d’artista in cui il regista e la compagnia si sono immersi nel testo čechoviano, come ha spiegato l’attore Angelo Maria Tronca incontrando il pubblico in occasione della rappresentazione l’8 febbraio 2020 al Teatro Massimo (Cagliari): «L’italiano è l’unica lingua che usa il verbo ‘recitare’, ‘citare di nuovo’, in riferimento al lavoro attoriale; le altre lingue impiegano il verbo ‘giocare’, che è esattamente quello che fa un attore, ed è quello che abbiamo fatto noi nel portare in scena il Platonov di ÄŒechov».

La dimensione, solo apparentemente leggera, del gioco è evidente sin dal modo in cui gli attori accolgono il pubblico a teatro, offrendo agli spettatori generosi cicchetti di vodka, a rappresentare la russità čechoviana e a preannunciare l’intima connessione tra la scena e lo spazio circostante che si concretizzerà durante i cento minuti della pièce. Le luci non si sono ancora spente, le attrici e gli attori sono già seduti al lato della scena; a un certo punto, un giovane con ai piedi un paio di infradito si alza, accende uno zampirone e si spruzza dello spray antizanzare sotto le ascelle, dopodiché si reca alla postazione tecnica sulla sinistra del palco. Tutt’attorno regna il silenzio, se non fosse per un ticchettio nevrotico, incalzante, che amplifica l’attesa. Una delle attrici si avvicina al grande tavolo posto al centro del palco e inizia ad affettare una cipolla su un tagliere di legno: è scossa da un pianto sommesso, senza lacrime, dal quale, però, si riprende subito. Ancora non conosciamo il suo nome, né quale sia il motivo del suo tormento, ma proviamo per lei una sincera empatia: l’attrice è Roberta Calia e il vestito arioso che indossa è quello della gaudente e sensuale Anna Petrovna, vedova del Generale Voinìtsev e proprietaria terriera.

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Ne La delicatezza del poco e del niente Roberto Latini legge una selezione di poesie di Mariangela Gualtieri, lasciando che queste scorrano una dopo l'altra, in una sequenza articolata in voce, suoni e respiri. Su un palco minuscolo, al centro di una scena nuda, l'attore vestito di bianco sta solo con il leggio, le aste e i due microfoni dentro una chiazza di luce. Così in un'essenzialità che odora di sacro, di antico, ma anche di accoglienza e di partecipazione, si snodano i singoli testi provenienti da diverse raccolte, come se si trattasse di un'unica poesia.

La limitatezza dello spazio impone un confine dello sguardo, ed è da questo luogo ristretto, controllabile in quanto fatto di margini materiali, che la poesia di Mariangela Gualtieri si smargina nella voce di Roberto Latini e nel paesaggio sonoro costruito da Gianluca Misiti, mentre la semplicità del disegno luci di Max Mugnai rimanda all'essenza primaria del teatro, ovvero al corpo dell'attore che in purezza si offre allo sguardo altrui.

L'inizio con il Monologo del Non so (da Parsifal) immette su una strada maestra che è quella del legame fortissimo della parola con il teatro, attraverso il personaggio che si presenta alla scena e dice 'io', sebbene sia sempre un io che afferma di non sapere, di non capire. Nel dichiarare i propri limiti, l'attore apre un dialogo con lo spettatore, dichiara di sapere poco, ma quel 'poco' lo rivolge ad un altro che ascolta, lo porge come un atto e una richiesta di comunicazione. Più ci si abbandona all'ascolto, lasciandosi guidare dal suono e non dal senso delle parole, più la strada maestra si biforca in sentieri diversi, percorsi possibili in cui l'io di Parsifal diventa il 'voi' del Sermone ai cuccioli della mia specie, assieme predica e preghiera, adorazione e implorazione rivolta agli adulti che siamo e ai bambini che un tempo siamo stati. Il contrasto è molto forte, soprattutto per chi conosce la versione audio pubblicata dal Teatro Valdoca nel 2012; la voce della poetessa che nel Sermone guarda 'da una quasi nausea' il mondo dei grandi e prova pietà, nel timbro maschile di Latini si nutre di nuovi slittamenti di persona, di genere, di numero. Gli aggettivi al femminile come 'piccola' e 'lontanissima' restano credibili e rinnovano, nella loro indicazione di un tempo e di uno spazio che appartengono all'indeterminatezza dell'infanzia, il ricordo di quando ognuno di noi, prima di diventare una persona grande, dal buio provava ad allontanare la paura recitando parole magiche, inventando la propria 'formula che salva'.

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Abstract: ITA | ENG

In un’epoca in cui si impone in modo rilevante la questione dell’enigmatica eredità lasciata dalla performance teatrale, della possibilità o meno che le sue tracce, i suoi resti, possano farsi reale memoria e testimonianza, una pubblicazione come Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) del Teatro Valdoca rappresenta un caso del tutto peculiare. I due volumi che compongono l’opera, infatti, sembrano muoversi nella direzione di un tentativo non tanto di rendere conto a posteriori di ciò che uno spettacolo (Giuramenti, 2017) e la sua realizzazione hanno rappresentato, quanto di intercettare le potenze, i flussi di energia, i nuclei di tensione che ne sono stati spinta iniziale e dinamica propulsione costante. Attraverso la parola e l’immagine, messe in campo in un modo capace di far saltare la consueta forma-libro e di spingerla ad accogliere l’ebollizione non addomesticata di una materia così potente, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti non mira all’impossibile meta di riconvertire le ceneri nel fuoco da cui sono nate, ma ci catapulta, piuttosto, nel bruciare stesso che ha generato quel fuoco e che infiniti altri ne può ancora attivare.

In an era when thoughts about the enigmatic heritage of theatrical performance rule and when question about the possibility that its tracks can become an effective memory is being debated, a publication like Teatro Valdoca’s Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) represents a very particular case. Its two volumes don’t try, in fact, to account for a show (Giuramenti, 2017) and for what it has been, but they attempt to intercept the powers, the energy flows and the tension nuclei that have been the initial push and the constant propulsion of it. Fielding words and images in a way capable of blowing up the book-form because of the break-in of a so powerful and non-domesticated material, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti doesn’t try to reconvert ashes into the fire from which they come, but catapults us in the burning that generated that fire and that can still produce infinite pyres.

Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri

Gustav Mahler

 

1. Ciò che innesca il rogo e ciò che resta del fuoco

Il fuoco e le ceneri: si potrebbe condensare in queste due immagini essenziali così strettamente correlate e al tempo stesso così sideralmente distanti, inconciliabili, la questione che la performance teatrale pone rispetto al proprio lascito, alla propria possibilità di convertirsi o meno in traccia significativa, espressiva.

Quando Jacques Derrida scrive che «la rappresentazione teatrale è finita, non lascia dietro di sé, dietro alla sua attualità, alcuna traccia, nessun oggetto da portare via» e che «non è né un libro né un’opera ma un’energia e in questo senso è la sola arte della vita»,[1] descrive un’arte, quella scenica, che come nessun’altra è accostabile all’idea del fuoco, che come il fuoco brucia e si consuma nell’atto vivo e presente, senza possibilità di replica, di reale memoria. D’altronde è della visione artaudiana di teatro che sta scrivendo, di quell’Antonin Artaud che, in un passaggio ormai divenuto celebre, scrive dell’arte scenica come di un’arte capace di farci sentire «come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme»,[2] permettendo a Derrida di descriverla come «l’arte della differenza e del dispendio senza economia, senza riserva, senza riscatto, senza storia».[3] Di un tale fuoco, insomma, sembrerebbe impossibile che si diano dei resti capaci di fornirne testimonianza efficace e potente quanto le fiamme che l’hanno costituito.

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Nina's, Queen Lear

di

     

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Formatesi nel 2007 al Teatro Ringhiera di Milano da un’intuizione di Fabio Chiesa, le Nina’s sono un collettivo teatrale en travesti che, grazie al fortunato incontro con Francesco Mieli – regista di opera lirica edirettore artistico del gruppo –, ha saputo creare un proprio linguaggio imperniato sulla plasticità e teatralità del performer drag queen, facendone il fulcro della propria ricerca estetica. Nasce così un fare teatro che inchioda lo spettatore di fronte agli interrogativi della contemporaneità e lo spinge a confrontarsi con il proprio senso identitario e comunitario; un’estetica imperniata sull’elemento corporale dove l’eccesso non è però mai fine a se stesso, ma diviene piuttosto uno sguardo sagace sulla realtà e uno strumento di sottile critica sociale. Dopo il successo delle prime riscritture di grandi classici teatrali – Il giardino delle ciliegie (Anton Chekhov, 2012), L’opera del mendicante (John Gray, 2015), Vedi alla voce Alma (Jean Cocteau, 2016) –, il 10 gennaio 2019 la compagnia ha debuttato al Teatro Carcano di Milano con la rivisitazione queer di una tra le più celebri e luttuose tragedie shakespeariane, un Re Lear calato in chiave contemporanea dove il sovrano del titolo è una signora affetta da demenza senile e la brughiera una Gran Bretagna pre-Brexit alle prese con i migranti.

Queen Lear attinge apertamente a situazioni e personaggi della tragedia di Shakespeare, sempre adattandoli però ai nostri giorni. Le drag queen interpretano i personaggi shakespeariani entrando ed uscendo dalla propria parte di continuo, dimodoché la loro esperienza personale in quanto interpreti (queer) che rivestono ruoli drag diviene essa stessa materia narrativa: “Di rimorsi / di rimpianti / tempo più non è / per guardare ancora avanti”; “L’avventura di una vita / spiegare non si può / nelle cose che hai lasciato”.

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Le realtà alternative, le trame ambigue dei film di David Lynch e i protagonisti che le abitano sono stati spesso forieri di riflessioni sull’estetica delle sue opere, sull’aspetto perturbante che le accomuna e, non da ultimi, sugli stati della mente dei personaggi, presi ad esempio anche nell’ambito degli studi psicanalitici. Nel ripercorrere la filmografia del regista statunitense, il saggio affronta un’analisi delle scene che più concorrono a trasmettere una sensazione inquietante e straniante allo spettatore, rilevando come Lynch abbia scelto di caratterizzare queste particolari scene con elementi che rimandano al teatro o di circoscriverle su un vero e proprio palcoscenico. Si è cercato dunque di dare un’interpretazione alla scelta registica di rinviare all’estetica del teatro nei momenti salienti e quasi sempre rivelatori delle sue opere, per mezzo di un’analisi semiologica e iconografica che non manca di approfondire anche lo stile recitativo impiegato in queste cornici perturbanti.

The alternative realities and the ambiguous plots of the movies of David Lynch, together with the protagonists that inhabit them, have been the object of studies about both his aesthetics and the uncanny behaviours of those characters. While tracing a path along the filmography of the American director, the essay analyses some of the most meaningful scenes that inspire eerie and alienating sensations to the spectator, with the aim to highlight how these particular scenes are distinguished by a peculiar theatrical space setting or acting. The author investigates this director’s choice through a semiological and iconographical analysis, deepening also the acting style employed in these uncanny frames that furthermore are often a solution key of the events.

 

 

Chissà perché ho il pallino dei sipari

dal momento che non ho mai fatto teatro.[1]

 

 

Le riflessioni proposte negli ultimi trent’anni sulle opere di David Lynch sono molte, stimolate nella maggior parte dei casi dal singolare modo di raccontare del regista, dalla particolare poetica che sottende i suoi film e soprattutto dal desiderio di aggiungere un’interpretazione alle realtà in essi narrate, spesso ambigue e poco comprensibili. Nel tentativo della ricerca di un senso, molti studiosi si sono avvalsi delle teorie sviluppate in ambito psicologico o psicanalitico, partendo da Sigmund Freud, passando da Jacques Lacan, per finire con Slavoj Žižek.[2] Certo, sin dai primi film Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980) – senza escludere cortometraggi come Grandmother (1969) – la struttura narrativa con cui Lynch compone le sue opere potrebbe essere assimilabile a quella che definisce le realtà vissute da chi soffre di disordini mentali e indagate in ambito psichiatrico. Gli studi incentrati sull’analisi psicologica dei protagonisti e delle loro fantasie non sono però sufficienti a comprendere la poetica lynchiana, per la quale invece andranno prese in considerazione altre questioni di ordine estetico. Se è vero che il fascino perturbante delle opere di Lynch risiede nel suo saperci condurre in mondi oscuri, incomprensibili, i cui confini spesso sfumano in realtà impossibili che dall’inconscio (da stati onirici o allucinatori) trascendono nel soprannaturale, è altrettanto vero che a renderle ineguagliabili è lo sguardo eclettico del regista che fa uso sapiente dei diversi registri – iconografico, musicale, linguistico – per tesserli in un montaggio che si concede i tempi dell’ostensione e le sospensioni per una riflessione. Inoltre, il regista ci pone spesso di fronte all’ostentazione della finzione cinematografica, mostrandoci nel medesimo film realtà apparentemente slegate e confuse tra loro e privandoci, con un sicuro effetto di straniamento, di un’immersione nella diegesi. Ciò avviene per mezzo di una concatenazione di mondi immaginati o sognati dai protagonisti, ma anche tramite l’inserimento di personaggi che, seppur apparentemente umani, palesano un’appartenenza al soprannaturale o si distinguono nettamente come esseri ultraterreni.

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