Questa pagina fa parte di:

  • Arabeschi n. 15→

Ne La delicatezza del poco e del niente Roberto Latini legge una selezione di poesie di Mariangela Gualtieri, lasciando che queste scorrano una dopo l'altra, in una sequenza articolata in voce, suoni e respiri. Su un palco minuscolo, al centro di una scena nuda, l'attore vestito di bianco sta solo con il leggio, le aste e i due microfoni dentro una chiazza di luce. Così in un'essenzialità che odora di sacro, di antico, ma anche di accoglienza e di partecipazione, si snodano i singoli testi provenienti da diverse raccolte, come se si trattasse di un'unica poesia.

La limitatezza dello spazio impone un confine dello sguardo, ed è da questo luogo ristretto, controllabile in quanto fatto di margini materiali, che la poesia di Mariangela Gualtieri si smargina nella voce di Roberto Latini e nel paesaggio sonoro costruito da Gianluca Misiti, mentre la semplicità del disegno luci di Max Mugnai rimanda all'essenza primaria del teatro, ovvero al corpo dell'attore che in purezza si offre allo sguardo altrui.

L'inizio con il Monologo del Non so (da Parsifal) immette su una strada maestra che è quella del legame fortissimo della parola con il teatro, attraverso il personaggio che si presenta alla scena e dice 'io', sebbene sia sempre un io che afferma di non sapere, di non capire. Nel dichiarare i propri limiti, l'attore apre un dialogo con lo spettatore, dichiara di sapere poco, ma quel 'poco' lo rivolge ad un altro che ascolta, lo porge come un atto e una richiesta di comunicazione. Più ci si abbandona all'ascolto, lasciandosi guidare dal suono e non dal senso delle parole, più la strada maestra si biforca in sentieri diversi, percorsi possibili in cui l'io di Parsifal diventa il 'voi' del Sermone ai cuccioli della mia specie, assieme predica e preghiera, adorazione e implorazione rivolta agli adulti che siamo e ai bambini che un tempo siamo stati. Il contrasto è molto forte, soprattutto per chi conosce la versione audio pubblicata dal Teatro Valdoca nel 2012; la voce della poetessa che nel Sermone guarda 'da una quasi nausea' il mondo dei grandi e prova pietà, nel timbro maschile di Latini si nutre di nuovi slittamenti di persona, di genere, di numero. Gli aggettivi al femminile come 'piccola' e 'lontanissima' restano credibili e rinnovano, nella loro indicazione di un tempo e di uno spazio che appartengono all'indeterminatezza dell'infanzia, il ricordo di quando ognuno di noi, prima di diventare una persona grande, dal buio provava ad allontanare la paura recitando parole magiche, inventando la propria 'formula che salva'.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

In un’epoca in cui si impone in modo rilevante la questione dell’enigmatica eredità lasciata dalla performance teatrale, della possibilità o meno che le sue tracce, i suoi resti, possano farsi reale memoria e testimonianza, una pubblicazione come Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) del Teatro Valdoca rappresenta un caso del tutto peculiare. I due volumi che compongono l’opera, infatti, sembrano muoversi nella direzione di un tentativo non tanto di rendere conto a posteriori di ciò che uno spettacolo (Giuramenti, 2017) e la sua realizzazione hanno rappresentato, quanto di intercettare le potenze, i flussi di energia, i nuclei di tensione che ne sono stati spinta iniziale e dinamica propulsione costante. Attraverso la parola e l’immagine, messe in campo in un modo capace di far saltare la consueta forma-libro e di spingerla ad accogliere l’ebollizione non addomesticata di una materia così potente, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti non mira all’impossibile meta di riconvertire le ceneri nel fuoco da cui sono nate, ma ci catapulta, piuttosto, nel bruciare stesso che ha generato quel fuoco e che infiniti altri ne può ancora attivare.

In an era when thoughts about the enigmatic heritage of theatrical performance rule and when question about the possibility that its tracks can become an effective memory is being debated, a publication like Teatro Valdoca’s Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) represents a very particular case. Its two volumes don’t try, in fact, to account for a show (Giuramenti, 2017) and for what it has been, but they attempt to intercept the powers, the energy flows and the tension nuclei that have been the initial push and the constant propulsion of it. Fielding words and images in a way capable of blowing up the book-form because of the break-in of a so powerful and non-domesticated material, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti doesn’t try to reconvert ashes into the fire from which they come, but catapults us in the burning that generated that fire and that can still produce infinite pyres.

Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri

Gustav Mahler

 

1. Ciò che innesca il rogo e ciò che resta del fuoco

Il fuoco e le ceneri: si potrebbe condensare in queste due immagini essenziali così strettamente correlate e al tempo stesso così sideralmente distanti, inconciliabili, la questione che la performance teatrale pone rispetto al proprio lascito, alla propria possibilità di convertirsi o meno in traccia significativa, espressiva.

Quando Jacques Derrida scrive che «la rappresentazione teatrale è finita, non lascia dietro di sé, dietro alla sua attualità, alcuna traccia, nessun oggetto da portare via» e che «non è né un libro né un’opera ma un’energia e in questo senso è la sola arte della vita»,[1] descrive un’arte, quella scenica, che come nessun’altra è accostabile all’idea del fuoco, che come il fuoco brucia e si consuma nell’atto vivo e presente, senza possibilità di replica, di reale memoria. D’altronde è della visione artaudiana di teatro che sta scrivendo, di quell’Antonin Artaud che, in un passaggio ormai divenuto celebre, scrive dell’arte scenica come di un’arte capace di farci sentire «come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme»,[2] permettendo a Derrida di descriverla come «l’arte della differenza e del dispendio senza economia, senza riserva, senza riscatto, senza storia».[3] Di un tale fuoco, insomma, sembrerebbe impossibile che si diano dei resti capaci di fornirne testimonianza efficace e potente quanto le fiamme che l’hanno costituito.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Nina's, Queen Lear

di

     

Questa pagina fa parte di:

  • Arabeschi n. 15→

Formatesi nel 2007 al Teatro Ringhiera di Milano da un’intuizione di Fabio Chiesa, le Nina’s sono un collettivo teatrale en travesti che, grazie al fortunato incontro con Francesco Mieli – regista di opera lirica edirettore artistico del gruppo –, ha saputo creare un proprio linguaggio imperniato sulla plasticità e teatralità del performer drag queen, facendone il fulcro della propria ricerca estetica. Nasce così un fare teatro che inchioda lo spettatore di fronte agli interrogativi della contemporaneità e lo spinge a confrontarsi con il proprio senso identitario e comunitario; un’estetica imperniata sull’elemento corporale dove l’eccesso non è però mai fine a se stesso, ma diviene piuttosto uno sguardo sagace sulla realtà e uno strumento di sottile critica sociale. Dopo il successo delle prime riscritture di grandi classici teatrali – Il giardino delle ciliegie (Anton Chekhov, 2012), L’opera del mendicante (John Gray, 2015), Vedi alla voce Alma (Jean Cocteau, 2016) –, il 10 gennaio 2019 la compagnia ha debuttato al Teatro Carcano di Milano con la rivisitazione queer di una tra le più celebri e luttuose tragedie shakespeariane, un Re Lear calato in chiave contemporanea dove il sovrano del titolo è una signora affetta da demenza senile e la brughiera una Gran Bretagna pre-Brexit alle prese con i migranti.

Queen Lear attinge apertamente a situazioni e personaggi della tragedia di Shakespeare, sempre adattandoli però ai nostri giorni. Le drag queen interpretano i personaggi shakespeariani entrando ed uscendo dalla propria parte di continuo, dimodoché la loro esperienza personale in quanto interpreti (queer) che rivestono ruoli drag diviene essa stessa materia narrativa: “Di rimorsi / di rimpianti / tempo più non è / per guardare ancora avanti”; “L’avventura di una vita / spiegare non si può / nelle cose che hai lasciato”.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Le realtà alternative, le trame ambigue dei film di David Lynch e i protagonisti che le abitano sono stati spesso forieri di riflessioni sull’estetica delle sue opere, sull’aspetto perturbante che le accomuna e, non da ultimi, sugli stati della mente dei personaggi, presi ad esempio anche nell’ambito degli studi psicanalitici. Nel ripercorrere la filmografia del regista statunitense, il saggio affronta un’analisi delle scene che più concorrono a trasmettere una sensazione inquietante e straniante allo spettatore, rilevando come Lynch abbia scelto di caratterizzare queste particolari scene con elementi che rimandano al teatro o di circoscriverle su un vero e proprio palcoscenico. Si è cercato dunque di dare un’interpretazione alla scelta registica di rinviare all’estetica del teatro nei momenti salienti e quasi sempre rivelatori delle sue opere, per mezzo di un’analisi semiologica e iconografica che non manca di approfondire anche lo stile recitativo impiegato in queste cornici perturbanti.

The alternative realities and the ambiguous plots of the movies of David Lynch, together with the protagonists that inhabit them, have been the object of studies about both his aesthetics and the uncanny behaviours of those characters. While tracing a path along the filmography of the American director, the essay analyses some of the most meaningful scenes that inspire eerie and alienating sensations to the spectator, with the aim to highlight how these particular scenes are distinguished by a peculiar theatrical space setting or acting. The author investigates this director’s choice through a semiological and iconographical analysis, deepening also the acting style employed in these uncanny frames that furthermore are often a solution key of the events.

 

 

Chissà perché ho il pallino dei sipari

dal momento che non ho mai fatto teatro.[1]

 

 

Le riflessioni proposte negli ultimi trent’anni sulle opere di David Lynch sono molte, stimolate nella maggior parte dei casi dal singolare modo di raccontare del regista, dalla particolare poetica che sottende i suoi film e soprattutto dal desiderio di aggiungere un’interpretazione alle realtà in essi narrate, spesso ambigue e poco comprensibili. Nel tentativo della ricerca di un senso, molti studiosi si sono avvalsi delle teorie sviluppate in ambito psicologico o psicanalitico, partendo da Sigmund Freud, passando da Jacques Lacan, per finire con Slavoj Žižek.[2] Certo, sin dai primi film Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980) – senza escludere cortometraggi come Grandmother (1969) – la struttura narrativa con cui Lynch compone le sue opere potrebbe essere assimilabile a quella che definisce le realtà vissute da chi soffre di disordini mentali e indagate in ambito psichiatrico. Gli studi incentrati sull’analisi psicologica dei protagonisti e delle loro fantasie non sono però sufficienti a comprendere la poetica lynchiana, per la quale invece andranno prese in considerazione altre questioni di ordine estetico. Se è vero che il fascino perturbante delle opere di Lynch risiede nel suo saperci condurre in mondi oscuri, incomprensibili, i cui confini spesso sfumano in realtà impossibili che dall’inconscio (da stati onirici o allucinatori) trascendono nel soprannaturale, è altrettanto vero che a renderle ineguagliabili è lo sguardo eclettico del regista che fa uso sapiente dei diversi registri – iconografico, musicale, linguistico – per tesserli in un montaggio che si concede i tempi dell’ostensione e le sospensioni per una riflessione. Inoltre, il regista ci pone spesso di fronte all’ostentazione della finzione cinematografica, mostrandoci nel medesimo film realtà apparentemente slegate e confuse tra loro e privandoci, con un sicuro effetto di straniamento, di un’immersione nella diegesi. Ciò avviene per mezzo di una concatenazione di mondi immaginati o sognati dai protagonisti, ma anche tramite l’inserimento di personaggi che, seppur apparentemente umani, palesano un’appartenenza al soprannaturale o si distinguono nettamente come esseri ultraterreni.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Emilio Isgrò (1936) è oggi riconosciuto come una delle figure più importanti del panorama artistico italiano del secondo Novecento. Questi ha infatti dato vita, sin dalla metà degli anni Cinquanta, ad una vasta ed eterogenea produzione artistica e intellettuale che, tutt’oggi, spazia dalla poesia visiva alla scrittura tout court, passando per la drammaturgia e il teatro.

Pur senza ‘cadere’ in sintesi troppo riduttive, è possibile osservare come ci sia, alla base di questa suggestiva tensione multidisciplinare, la volontà da parte dell’artista di esplorare zone liminali del linguaggio che costeggiano tanto il regno del verbale quanto quello del visivo. In questo senso si può dire che è la parola, intesa quale segno generatore della comunicazione umana, a suscitare da sempre l’interesse artistico di Emilio Isgrò. Questi ha di fatti cominciato la sua produzione intellettuale operando nel campo, se vogliamo, più prossimo all’universo dell’espressione verbale: quello della poesia.

È il 1956 quando, da poco trasferitosi a Milano dalla Sicilia, la neonata casa editrice di Arturo Schwarz pubblica infatti la sua prima raccolta di poesie Fiere del sud, opera che, accolta positivamente dalla critica, gli permette di entrare in contatto, oltre che con il suo vecchio compagno di scuola Vincenzo Consolo, con alcune delle figure più rilevanti del panorama letterario dell’epoca, quali: Vittorio Sereni, Elio Vittorini e Luciano Anceschi. All’attività poetica Isgrò affianca ben presto anche le prime esperienze di scrittura giornalistica, prima lavorando come collaboratore presso l’Avanti! poi, grazie alla conoscenza con Giuseppe Longo, ottenendo il posto di responsabile della terza pagina del Gazzettino.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →
  • Arabeschi n. 14→

 

 

Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

All’interno delle categorie paradigmatiche rilevate da Rizzarelli nella sua «cartografia dell’attrice che scrive» (Rizzarelli 2017), Una vita all’improvvisa (2009) [fig. 1] di Franca Rame si colloca nel genere della narrazione autobiografica, scritta quasi a fine carriera (Rame avrebbe compiuto 80 anni pochi mesi dopo l’uscita del volume) e votata «a consacrare l’immagine divistica già affermata e consolidata da tempo» (ibidem). Ne viene fuori un testo in cui interviene anche Fo e in cui emerge una tensione dialogica dettata dal desiderio di cercare il contatto con un ipotetico destinatario, un «lettore privilegiato» (Battistini 2007), che ora è il marito ora è il pubblico che tanto l’ha amata e seguita durante la sua lunga carriera. Un racconto artistico e biografico in forma di affabulazione teatrale con tanto di didascalie per regolare i meccanismi scenografici e registici di un’ipotetica messa in scena (i disegni di Fo accompagnano per immagini questa storia, quasi uno per pagina), che oscilla sul terreno mutevole, «vivente e interpretante della memoria» (Battistini 2007) in cui Rame ripercorre, a balzi ed episodi, la sua vita vissuta «in modo esagerato», a cominciare dagli anni dell’infanzia fino alle prime esperienze d’attrice, apprendendo così «l’arte antica di andar all’improvvisa», ovvero di recitare a soggetto senza seguire integralmente un copione (ecco il titolo del volume), nonché il suo cammino a fianco del marito.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

1. Questa è la storia di un gruppo di ragazzi…

Con questa premessa Paola Pitagora introduce il suo Fiato d’artista, libro di memorie che ripercorre, a distanza di quasi quarant’anni, le tensioni avanguardistiche della Roma degli anni Sessanta. A condurre il lettore tra gallerie d’arte, piazze, bar, palcoscenici, set cinematografici e case private, sono le voci intrecciate di due amanti appassionati che all’epoca fecero della loro relazione il motore comune dell’esperienza artistica. È Pitagora stessa a spiegare che l’idea di scrivere questo romanzo autobiografico è nata rileggendo, negli anni Novanta, i quaderni scritti con Renato Mambor ai tempi della loro storia d’amore. Il risultato è un libro composito, fatto non solo della testimonianza privata dei due ma anche del racconto con cui Pitagora cuce insieme una lettera con l’altra, usando tutto ciò che può servire a dar di nuovo corpo a quella storia: molte parole certamente (oltre alle sue anche quelle di chi scrisse di quegli anni, da Pasolini a Calvesi), ma anche immagini scelte per spingere il lettore all’incrocio fra arti diverse là dove, all’epoca dei fatti, si attivava ogni creazione artistica [fig. 1].

Di per sé Fiato d’artista è un libro che permette di cogliere molti aspetti di una doppia vocazione realizzata dall’interazione tra scrittura e performance (Rizzarelli 2017). Intanto perché chi scrive è un’attrice versatile che ha raggiunto un pubblico molto vasto, popolare e non, frequentatore di teatri o appassionato di cinema, amante degli sceneggiati televisivi o anche semplicemente avventore casuale davanti ai programmi Rai degli anni Sessanta. In secondo luogo perché in questo libro, così materico nella sua composizione, si parla molto del lavoro dell’attore nella sua inafferrabile dimensione antropologica. A farlo sono i due protagonisti che si incontrano proprio a un workshop di recitazione nel 1958. Sedici anni lei, ventidue lui. Grandi doti mimiche il giovane pittore del Quadraro; puro potenziale invece la ragazzina emiliana che a quel mondo si era avvicinata principalmente per noia. Poco più di un anno dopo i loro percorsi erano già delineati: Mambor allestiva la mostra alla Galleria Appia Antica con Cesare Tacchi e Mario Schifano, mentre Pitagora, sotto contratto con la casa di produzione cinematografica Vides di Franco Cristaldi, cominciava a frequentare le lezioni di recitazione di Alessandro Fersen a via della Lungara. «La vita per noi è cambiata» scriveva allora Pitagora, «io vado a scuola tutti i giorni, sto in un ambiente nuovo. Ed ecco le naturali problematiche, abituata com’ero a pensare con la tua visione» (Pitagora 2001, p. 36. Corsivo mio). L’atto della visione è centrale in Fiato d’artista certamente per la sua doppia natura di opera verbo-visuale (Cometa 2017), ma anche perché esso nutre la formazione attorica di chi scrive: «avrei potuto diventare attrice se non avessi incontrato quel buffo pittore? Forse sì ma in altro modo. Intanto, il vedere. Un pittore insegna in qualche modo a vedere» (Pitagora 2001, p. 56).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

Nel panorama abbondante, diversificato e discontinuo delle scritture delle attrici teatrali – in attesa di un censimento vero e proprio – intendo mettere a fuoco i seguenti punti.

 

1. 1887, la prima autobiografia d’attrice in Italia Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori

Tutti e quattro i protagonisti della generazione del Grande attore – Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Antonio Petito – scrivono le loro memorie ma non per questo è meno forte il gesto di Ristori di riconoscersi soggetto degno di biografia, sia pure novant’anni dopo il pionieristico Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Le memorie sono uno strumento fondamentale di costruzione e diffusione della propria immagine pubblica, dunque fissano immagini artificiali e idealizzate che vanno decodificate. Ristori fornisce di sé un’immagine edificante di moglie e di madre ma nello stesso tempo mette in luce i suoi poteri come primadonna e capocomica e non ne nasconde i lati faticosi. E, soprattutto, oltre alle vicende biografiche, propone sei studi approfonditi dei maggiori personaggi interpretati [fig. 1]. Da questo punto di vista rappresenta un modello avanzato rispetto a produzioni successive anche recenti, pur significative: la stessa Valentina Cortese – indiscutibilmente una diva – è avara di approfondimenti sul suo lavoro specifico di attrice (Quanti sono i domani passati) e ancor meno dicono le memorie di Ilaria Occhini (La bellezza quotidiana).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12