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Nel periodo che va dal dicembre del 1966 al maggio del 1968 lo spazio del Piper pluriclub ospitò alcune fra le realtà più significative della ricerca teatrale italiana e di quella internazionale, complice la mediazione di Edoardo Fadini, con il quale i coniugi Derossi erano molto legati e che era in quel momento responsabile dell’attività teatrale dell’Unione Culturale di Torino. E così arrivarono al Piper Carlo Quartucci con il suo Teatro Gruppo nel 1966, il Living Theatre nel 1967, Carmelo Bene nel 1968. Chiuderà la stagione l’Open Theatre nel maggio del 1968. 

From December 1966 to May 1968, the Piper pluriclub hosted some of the most significant realities of Italian and international theatrical research, through Edoardo Fadini’s mediation. Carlo Quartucci arrived at Piper with Teatro Gruppo in 1966, the Living Theater in 1967, Carmelo Bene in 1968. The Open Theater closed the theater season in May 1968. 

Nel periodo che va dal dicembre del 1966 al maggio del 1968 lo spazio del Piper pluriclub ospita alcune fra le realtà più significative della ricerca teatrale italiana e di quella internazionale, complice la mediazione di Edoardo Fadini, in quel momento responsabile dell’attività teatrale dell’Unione Culturale di Torino. È certamente Fadini la figura chiave per la programmazione teatrale del Piper. I coniugi Derossi frequentano le sale di Via Cesare Battisti (dove si trova la sede dell’associazione) e dove fin dal 1966 Carlo Quartucci con il suo Teatro Gruppo è protagonista di serate di lettura e nel 1967 è ospitato il Living Theatre. Così per questi artisti come per Carmelo Bene al Piper nel 1968, mentre sarà un contatto cercato e inseguito da lontano da parte di Graziella Gay Derossi quello con il quale si concluderà nel maggio del 1968 l’esperienza teatrale del locale, l’Open Theatre, ospite nello stesso periodo del Teatro Carignano.

 

1. 22 dicembre 1966: Teatro Gruppo, Improvvisazione su Istruzioni operative per 10 attori[1]

Carlo Quartucci

(Messina, 1936), figlio d’arte, fa le sue prime esperienze nella compagnia di teatro dialettale del padre. Debutta poi come regista e attore a Roma nel 1959 con la prima regia di Aspettando Godot, ma la sua affermazione sulle scene, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, avviene una volta che si costituisce la Compagnia della Ripresa: qui, accanto a Leo de Berardinis, Rino Sudano, Claudio Remondi e Anna D’Offizi, Quartucci prosegue il suo percorso di ricerca nel ruolo di regista. Fra il 1964 (Aspettando Godot a Genova) e il 1965 (il Festival beckettiano a Prima Porta e Zip alla Biennale di Venezia), Carlo Quartucci e la sua compagnia si affermano come una delle punte più avanzate della ricerca teatrale italiana. Il riconoscimento da parte della critica alla Biennale, tuttavia, non corrisponde al consolidarsi della Compagnia della Ripresa che presto si scioglie. Quartucci inizia allora a gravitare su Torino dove, soprattutto per il legame con Edoardo Fadini, avvia una collaborazione con l’Unione Culturale, della cui programmazione teatrale Fadini è il responsabile. Qui, con la nuova compagnia del Teatro-Gruppo si susseguono letture da testi di Calvino, Parise, Brecht e poi Vitrac, Artaud, Jarry, Weiss. Nel dicembre del 1966 Quartucci è al Teatro Gobetti con la regia di Libere Stanze di Roberto Lerici, con il quale inizia un’intensa collaborazione. È questo l’avvio di un progressivo interesse del Teatro Stabile torinese per Quartucci che proseguirà nei due anni successivi, complice anche il cambio di direzione nel 1968 (Gianfranco De Bosio lascia e subentra la direzione Chiarella-Bartolucci-Doglio-Morteo).

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Sipario è la rivista di teatro più letta e autorevole di tutti gli anni Sessanta. I dibattiti, le inchieste, i materiali, le immagini che occupano le sue pagine forniscono chiavi di lettura dei processi in atto e spesso ne influenzano l’andamento. In particolare sotto la direzione di Franco Quadri a partire dal 1962 e con il coinvolgimento di una parte della critica del tempo, Sipario accompagna e promuove fra l’altro la riconfigurazione delle prassi e delle progettualità che caratterizzano la scena teatrale degli anni Sessanta, processo in cui l’esplodere delle convenzioni e delle gerarchie tradizionali fra codici linguistici, l’affermazione del vasto campo del ‘performativo’ e le influenze delle sperimentazioni internazionali si rivelano momenti cardine. In questo suo interrogare la nostra scena e, sempre più sistematicamente, anche la scena sperimentale internazionale, Sipario crea una rete di riferimenti, di categorie interpretative, di exempla, che contribuiscono a costruire il terreno in cui anche le esperienze di incontro fra arti visive e teatro saranno poi lette e raccontate (e promosse).

Sipario is the most important theater magazine of all the Sixties. The debates, inquiries, materials, images that occupy its pages provide interpretations of the ongoing processes and often influence their progress. In particular, under the direction of Franco Quadri starting from 1962 and with the involvement of a part of the critics of the time, Sipario accompanies and promotes, among other things, the reconfiguration of the practices and planning that characterize the theatrical scene of the Sixties, a process in to which the explosion of traditional conventions and hierarchies between linguistic codes, the affirmation of the vast field of the ‘performative’ and the influences of international experimentation were fondamental moments. In his interrogating our scene and, increasingly systematically, also the international experimental scene, Sipario creates a network of references, of interpretative categories, of exempla, which contribute to building the field in which even the experiences of encounter between visual arts and theater will then be read and told (and promoted).

0. Premessa. Perché Sipario?

Se uno degli obiettivi di questo dossier è quello di rintracciare i fili di un fenomeno che dall’inizio degli anni Sessanta vede alcuni artisti italiani, provenienti da discipline differenti (teatro, danza, musica, arti visive, poesia), sperimentare vie di ricerca che erodono i confini netti fra una disciplina e l’altra, certo Sipario non è il luogo in cui tutto questo trova un’immediata cassa di risonanza e tanto meno una precoce attenzione.

D’altra parte, Sipario è la rivista di teatro più letta e autorevole di questo periodo,[1] capace di orientare il racconto di ciò che avviene e veicolare pensieri e punti di vista che incidono profondamente nella vita teatrale del tempo. I dibattiti, le inchieste, i materiali, le immagini che occupano le sue pagine forniscono chiavi di lettura dei processi in atto e spesso ne influenzano l’andamento. Gradualmente, in particolare sotto la direzione di Franco Quadri a partire dal 1962 e con il coinvolgimento di una parte della critica del tempo, Sipario accompagna e promuove fra l’altro la riconfigurazione delle prassi e delle progettualità che caratterizzano la scena teatrale degli anni Sessanta, processo in cui l’esplodere delle convenzioni e delle gerarchie tradizionali fra codici linguistici, l’affermazione del vasto campo del ‘performativo’ e le influenze delle sperimentazioni internazionali si rivelano momenti cardine. In questo suo interrogare la nostra scena e, sempre più sistematicamente, anche la scena sperimentale internazionale, Sipario crea una rete di riferimenti, di categorie interpretative, di exempla, che contribuiscono a costruire il terreno in cui anche le esperienze di incontro fra arti visive e teatro saranno poi lette e raccontate (e promosse). Ed è proprio qui che (con la sua lunga storia) questa rivista conquista un ruolo importante anche nella storia che questo dossier intende affrontare.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

Il mio disprezzo per l’attore contemporaneo è qui: nella sua tanto ricercata incapacità di mentire, nel suo elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d’autoemarginazione; nel suo noioso cicalare di ‘crisi del teatro’ e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d’un teatro della crisi; nella sua tecnica (e se mai così può definirsi un limite penoso) esclusivamente maschia (Bene, 1982, p. 65).

 

Nel 1962 Carmelo Bene apre a Roma il Teatro Laboratorio e lo inaugura il 5 giugno con Pinocchio; dopo una ripresa nel 1964 (a Spoleto) con poche variazioni, presenta una seconda edizione del testo di Collodi nel 1966, una terza nel 1981 e poi ancora un’ultima nel 1998 [fig. 1].

Come l’Amleto, Pinocchio è per Bene un precoce e duraturo amore; un mondo poetico e linguistico a cui fare ritorno, come per confrontarsi con una parte di sé e della propria storia che, pur nelle discontinuità per alcuni aspetti profonde, segna tuttavia la persistenza di motivi poetici e di tratti stilistici in un’attività artistica lunga più di trent’anni.

In questa avventura di riscritture, che qui ripercorrerò rapidamente e per frammenti, la vera cesura si colloca fra le versioni del 1962 e 1966 e quella del 1981: in estrema sintesi, nel passaggio da un impianto epico grottesco a uno decisamente simbolico e lirico; da un Pinocchio realizzato con una compagnia di attori, a un Pinocchio per voce sola (tutte le parti sono varianti d’una sola voce, quella di Bene, eccetto quella della Bambina Provvidenza, interpretata da Lydia Mancinelli), che è il passaggio da un teatro del conflitto agito in scena, anche attraverso il pluriprospettivismo delle presenze attoriali, all’esplosione plurivocale e polifonica dell’io.

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Carmelo Bene disprezzava l’immagine. La deprecava. Lo afferma chiaramente nella propria autobiografia e ovunque abbia avuto modo di pronunciarsi sull’arte in senso stretto e sulle arti in senso lato. Deprecava l’immagine fissa – fotografia o dipinto che fosse –, come replica virtuale, e ancor più quella in movimento, quella cinematografica, che esasperava, nel suo essere evento già dato in modo univoco e filmato una volta per tutte, l’impossibilità della percezione d’una differenza, di un intervento da parte di chi guarda, limitandosi alla mediocrità della rappresentazione. Un’iconoclastia, quella di Bene, condotta appunto in nome di quella nozione che nell’estetica, e in generale nella speculazione del ’900, ha dato esiti decisivi (basti pensare a due autori come Deleuze e Derrida e alla correlata nozione di simulacro, centrale nell’opera di Klossowski), segnando in qualche modo quest’epoca del pensiero occidentale: quella di differenza. L’inefficienza dell’immagine artistica starebbe, dunque, proprio nel suo farsi rappresentazione di qualcosa, nel suo tentare d’essere testimonianza o copia d’un modello, nel suo essere mera «virtualità scontata» di una realtà. Eccezioni a questo discorso sono, per Bene, quei rari esempi (come Bacon in pittura e Bernini nella scultura) che nella storia dell’arte avrebbero superato l’arte stessa rendendosi capaci di «eccedere l’opera nella differenza», ossia di scavalcare ogni idea di identità, di unità, di rappresentazione, e perfino di dialettica e di conciliazione. E questa è stata esattamente la linea guida di tutta l’attività dell’artista salentino, del suo modo di fare e disfare il teatro e l’arte in genere.

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