Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate

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Carmelo Bene disprezzava l’immagine. La deprecava. Lo afferma chiaramente nella propria autobiografia e ovunque abbia avuto modo di pronunciarsi sull’arte in senso stretto e sulle arti in senso lato. Deprecava l’immagine fissa – fotografia o dipinto che fosse –, come replica virtuale, e ancor più quella in movimento, quella cinematografica, che esasperava, nel suo essere evento già dato in modo univoco e filmato una volta per tutte, l’impossibilità della percezione d’una differenza, di un intervento da parte di chi guarda, limitandosi alla mediocrità della rappresentazione. Un’iconoclastia, quella di Bene, condotta appunto in nome di quella nozione che nell’estetica, e in generale nella speculazione del ’900, ha dato esiti decisivi (basti pensare a due autori come Deleuze e Derrida e alla correlata nozione di simulacro, centrale nell’opera di Klossowski), segnando in qualche modo quest’epoca del pensiero occidentale: quella di differenza. L’inefficienza dell’immagine artistica starebbe, dunque, proprio nel suo farsi rappresentazione di qualcosa, nel suo tentare d’essere testimonianza o copia d’un modello, nel suo essere mera «virtualità scontata» di una realtà. Eccezioni a questo discorso sono, per Bene, quei rari esempi (come Bacon in pittura e Bernini nella scultura) che nella storia dell’arte avrebbero superato l’arte stessa rendendosi capaci di «eccedere l’opera nella differenza», ossia di scavalcare ogni idea di identità, di unità, di rappresentazione, e perfino di dialettica e di conciliazione. E questa è stata esattamente la linea guida di tutta l’attività dell’artista salentino, del suo modo di fare e disfare il teatro e l’arte in genere.

Nel pensare a una mostra dedicata a Carmelo Bene – specialmente una mostra fotografica – diviene quasi inevitabile fare in qualche modo i conti con l’idea che egli, nella sua strenua adesione alla nozione di differenza, aveva dell’immagine, delle sue possibilità, dei suoi limiti. Occorre considerare la quasi paradossalità del tentativo di dare una qualche testimonianza del passaggio di chi negava fermamente la storicità, l’azione e persino la propria esistenza (appellandosi all’inesistenza dell’Io), di chi ha chiesto, prima di morire, che la propria memoria fosse affidata a una fondazione denominata l’Immemoriale; ancor più se tale testimonianza è affidata appunto all’immagine, alla fotografia, se ripone fiducia nella sua possibilità di farsi sufficiente ed efficace rivelazione di un evento radicale come il transito nel mondo del teatro – e non solo – di Carmelo Bene. Sono domande preliminari quasi ineludibili per la peculiarità del personaggio in questione e della sua concezione artistica ed è proprio con queste che ci si avvicina a una mostra del genere, con la consapevolezza di una sorta di contraddizione e di incongruità del fissare in scatti quello che è stato per vocazione e filosofia un assoluto iconoclasta.

Inaugurata il 4 dicembre scorso al Palazzo delle Esposizioni di Roma, la mostra propone una scelta tra le fotografie che Claudio Abate – fotografo romano che negli anni ’60 e ’70 ha documentato da dietro l’obiettivo le gesta delle avanguardie della capitale e che ha stretto sodalizi professionali con artisti del calibro di Kounellis e Pascali – scattò nei primi dieci anni circa del percorso artistico di Carmelo Bene, per la precisione dal 1963 al 1973. Tra foto di scena, immagini ‘rubate’ sul set e provini di trucco e luci, le tre sale ripercorrono di parete in parete undici tra le primissime opere di Bene: dal contestatissimo Cristo ’63 alle due edizioni teatrali di Nostra Signora dei Turchi, passando per Pinocchio ’66, Faust o Margherita, Il Rosa e il Nero, Arden of Feversham, Salvatore Giuliano, Vita di una rosa rossa, Don Chisciotte e Salomè (nella doppia versione teatrale e cinematografica). Fotografie che tentano la testimonianza, che provano a rendere conto di eventi memorabili, come quelle della storica serata del Cristo ’63 che valse a Bene la chiusura del suo Teatro Laboratorio per atti osceni, vilipendio e oltraggio (e in riferimento alla quale Bene scrisse la frase che fa da titolo alla mostra) o quelle che permettono di gettare uno sguardo dietro le quinte, sulle prove casalinghe del Faust o Margherita o tra un ciak e l’altro della Salomè cinematografica, sui test del bellissimo trucco de Il Rosa e il Nero con le pietre colorate à la Huysmans o sulle rare immagini del Don Chisciotte realizzato insieme a Leo De Berardinis, in una scena – quella del Teatro Carmelo Bene – cosparsa di carta stagnola. Immagini rare dunque, di opere che, perlopiù, non ci hanno lasciato ulteriori tracce. Una documentazione preziosa e utile, insomma, coniugata alla maestria tecnica e artistica di Abate.

Eppure, non c’è solo questo tra gli scatti in mostra a Roma. Non sarebbe forse abbastanza, come dicevamo, perché non renderebbe piena giustizia a chi ha invocato oblio sulla propria arte e declinato l’arte come oblio, come buco nero, come abbandono, come accecamento dell’immagine, come immediatezza irrappresentabile. Non c’è solo questo perché, tra gli scatti della ‘testimonianza’, se ne possono individuare altri che potremmo definire dell’intestimoniabilità, nei quali la mostra raggiunge il proprio apice. Non hanno una collocazione speciale: sono posizionati lì tra gli altri, eppure sono radicalmente differenti e se ne ha la netta percezione. Forse sono una minoranza, ma restituiscono il senso dell’intera mostra, dell’intera operazione commemorativa, perché sono istantanee che sono riuscite a farsi buchi neri, nuclei d’implosione dell’azione e dell’immagine. Alcune di queste sono attimi di congelamento di un gesto, di uno sguardo, di un grido (si osservino ad esempio l’urlo di un Pinocchio immerso in una densa luce rossa, i pesanti sguardi di Erode o ancora le posture in surreale equilibrio, come aggrappate al nulla, sempre del Pinocchio ’66 o di Nostra Signora dei Turchi), congelamenti che sprigionano – come avrebbe detto lo stesso Bene – «un’energia sospesa, impassibile di una fruizione definitiva da parte di chi guarda», come un punto nel quale si addensa l’immediatezza dell’azione e che al contempo sembra dover esplodere da un momento all’altro e aprire possibilità indefinite. Altre, sempre di questa tipologia, sembrano farsi simili a quelle che Deleuze, parlando proprio del cinema di Bene, definiva «immagini-cristallo»: immagini che scongiurano la mera riproduzione virtuale garantendo, nella loro capacità di farsi compresenza inscindibile di attuale e virtuale, la differenza; basti osservare certe foto di scena de Il Rosa e il Nero, con quei volti deturpati da pietre colorate e che appaiono in modo quasi fantasmatico, i primi piani spettrali tratti dalle prove trucco della medesima opera, o l’incastro delle figure dei protagonisti di Nostra Signora dei Turchi tra i pannelli che li esponevano al pubblico solo per frammenti, e ancora certi ritratti da Arden of Feversham, nei quali il nero si fa entità che divora lineamenti e visi e i corpi sembrano incastrati per metà nell’esistenza e per metà nel nulla, o infine, certi scatti dal Faust o Margherita, nei quali il volto di Bene sembra apparire – o sparire – tra il fumo e un’oscurità che pare essersi fatta materia. Sono queste, indubbiamente, le foto nelle quali l’arte di Bene, il suo far deragliare il teatro verso l’abisso dell’incomunicabile, il suo rifiuto della raffigurazione e della riproduzione trovano un adeguato corrispettivo e un’efficace fusione in immagine, un’immagine che – per la sua peculiarità di essere contemporaneamente istantanea e scaglia del mondo teatrale di Bene – sembra quasi attingere quell’aura che Walter Benjamin riteneva svanita con l’avvento della fotografia: un’immagine che non ambisce a rappresentare o a testimoniare nulla se non il modo in cui l’immediatezza e l’inesauribilità dell’atto riescono potentemente a fissarsi in un fotogramma mentre il buio ‘impressiona’ una pellicola.

 

Benedette Foto!

a cura di Daniela Lancioni, con Francesca Rachele Oppedisano

Roma, Palazzo delel Esposizioni

4 dicembre 2013 - 3 febbraio 2013