Carmelo Bene disprezzava l’immagine. La deprecava. Lo afferma chiaramente nella propria autobiografia e ovunque abbia avuto modo di pronunciarsi sull’arte in senso stretto e sulle arti in senso lato. Deprecava l’immagine fissa – fotografia o dipinto che fosse –, come replica virtuale, e ancor più quella in movimento, quella cinematografica, che esasperava, nel suo essere evento già dato in modo univoco e filmato una volta per tutte, l’impossibilità della percezione d’una differenza, di un intervento da parte di chi guarda, limitandosi alla mediocrità della rappresentazione. Un’iconoclastia, quella di Bene, condotta appunto in nome di quella nozione che nell’estetica, e in generale nella speculazione del ’900, ha dato esiti decisivi (basti pensare a due autori come Deleuze e Derrida e alla correlata nozione di simulacro, centrale nell’opera di Klossowski), segnando in qualche modo quest’epoca del pensiero occidentale: quella di differenza. L’inefficienza dell’immagine artistica starebbe, dunque, proprio nel suo farsi rappresentazione di qualcosa, nel suo tentare d’essere testimonianza o copia d’un modello, nel suo essere mera «virtualità scontata» di una realtà. Eccezioni a questo discorso sono, per Bene, quei rari esempi (come Bacon in pittura e Bernini nella scultura) che nella storia dell’arte avrebbero superato l’arte stessa rendendosi capaci di «eccedere l’opera nella differenza», ossia di scavalcare ogni idea di identità, di unità, di rappresentazione, e perfino di dialettica e di conciliazione. E questa è stata esattamente la linea guida di tutta l’attività dell’artista salentino, del suo modo di fare e disfare il teatro e l’arte in genere.

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