Arti visive e teatro attraverso la lente di Sipario (1961-1969)

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Sipario è la rivista di teatro più letta e autorevole di tutti gli anni Sessanta. I dibattiti, le inchieste, i materiali, le immagini che occupano le sue pagine forniscono chiavi di lettura dei processi in atto e spesso ne influenzano l’andamento. In particolare sotto la direzione di Franco Quadri a partire dal 1962 e con il coinvolgimento di una parte della critica del tempo, Sipario accompagna e promuove fra l’altro la riconfigurazione delle prassi e delle progettualità che caratterizzano la scena teatrale degli anni Sessanta, processo in cui l’esplodere delle convenzioni e delle gerarchie tradizionali fra codici linguistici, l’affermazione del vasto campo del ‘performativo’ e le influenze delle sperimentazioni internazionali si rivelano momenti cardine. In questo suo interrogare la nostra scena e, sempre più sistematicamente, anche la scena sperimentale internazionale, Sipario crea una rete di riferimenti, di categorie interpretative, di exempla, che contribuiscono a costruire il terreno in cui anche le esperienze di incontro fra arti visive e teatro saranno poi lette e raccontate (e promosse).

Sipario is the most important theater magazine of all the Sixties. The debates, inquiries, materials, images that occupy its pages provide interpretations of the ongoing processes and often influence their progress. In particular, under the direction of Franco Quadri starting from 1962 and with the involvement of a part of the critics of the time, Sipario accompanies and promotes, among other things, the reconfiguration of the practices and planning that characterize the theatrical scene of the Sixties, a process in to which the explosion of traditional conventions and hierarchies between linguistic codes, the affirmation of the vast field of the ‘performative’ and the influences of international experimentation were fondamental moments. In his interrogating our scene and, increasingly systematically, also the international experimental scene, Sipario creates a network of references, of interpretative categories, of exempla, which contribute to building the field in which even the experiences of encounter between visual arts and theater will then be read and told (and promoted).

0. Premessa. Perché Sipario?

Se uno degli obiettivi di questo dossier è quello di rintracciare i fili di un fenomeno che dall’inizio degli anni Sessanta vede alcuni artisti italiani, provenienti da discipline differenti (teatro, danza, musica, arti visive, poesia), sperimentare vie di ricerca che erodono i confini netti fra una disciplina e l’altra, certo Sipario non è il luogo in cui tutto questo trova un’immediata cassa di risonanza e tanto meno una precoce attenzione.

D’altra parte, Sipario è la rivista di teatro più letta e autorevole di questo periodo,[1] capace di orientare il racconto di ciò che avviene e veicolare pensieri e punti di vista che incidono profondamente nella vita teatrale del tempo. I dibattiti, le inchieste, i materiali, le immagini che occupano le sue pagine forniscono chiavi di lettura dei processi in atto e spesso ne influenzano l’andamento. Gradualmente, in particolare sotto la direzione di Franco Quadri a partire dal 1962 e con il coinvolgimento di una parte della critica del tempo, Sipario accompagna e promuove fra l’altro la riconfigurazione delle prassi e delle progettualità che caratterizzano la scena teatrale degli anni Sessanta, processo in cui l’esplodere delle convenzioni e delle gerarchie tradizionali fra codici linguistici, l’affermazione del vasto campo del ‘performativo’ e le influenze delle sperimentazioni internazionali si rivelano momenti cardine. In questo suo interrogare la nostra scena e, sempre più sistematicamente, anche la scena sperimentale internazionale, Sipario crea una rete di riferimenti, di categorie interpretative, di exempla, che contribuiscono a costruire il terreno in cui anche le esperienze di incontro fra arti visive e teatro saranno poi lette e raccontate (e promosse). Ed è proprio qui che (con la sua lunga storia) questa rivista conquista un ruolo importante anche nella storia che questo dossier intende affrontare.

 

1. 1966: il ventennale e la dialettica direzione - redazione

Iniziamo dal centro, da un momento che si colloca nel mezzo della cronologia scelta e che riassume in modo emblematico elementi di continuità ed elementi di discontinuità del nostro racconto.

Nel maggio del 1966 esce il numero speciale di Sipario dedicato ai suoi primi venti anni di attività (1946-1966).

Editoriale, S., 1 maggio 1966, p. 2

La cura è di Franco Quadri[2] che, dall’ottobre del 1962, è anche il responsabile di redazione, dopo avere lavorato nella redazione di Marcatré probabilmente introdotto da Umberto Eco.[3] L’editoriale[4] è a firma di Valentino Bompiani,[5] alla direzione dal 1952. Ed ecco che proprio nella dialettica fra direzione e redazione, Bompiani e Quadri, si articola in buona parte la struttura di questo numero che è indicativa di una rivista la cui vocazione pluralista era stata fin dalla sua fondazione un tratto caratterizzante[6] e la cui politica culturale era tesa, negli ultimi anni, fra visioni del teatro profondamente diverse. Una, di cui Valentino Bompiani è in gran parte garante[7] che, pur con differenti sfumature, sostiene la centralità del codice letterario nel linguaggio teatrale (e che fra l’altro tende a fare coincidere l’intellettuale tout court con il letterato scrittore e che era molto diffusa complessivamente in Italia in quegli anni);[8] l’altra, rappresentata dalla nascente Nuova Critica[9] (Franco Quadri, Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci,[10] Ettore Capriolo, Edoardo Fadini) e da qualche altro critico (Sandro Bajni, Rodolfo Wilcock[11] per esempio), che si fa portatrice di un differente paradigma teatrale che possiamo in sintesi indicare, con l’espressione che sarà Bartolucci a battezzare, «scrittura scenica».[12] Ciò che stupisce oggi in queste pagine è che la prima linea sia ancora così preponderante nel 1966, tanto da sbilanciare gli equilibri del numero del ventennale verso una visione testocentrica del teatro. Solo cautamente, infatti, la Nuova Critica dà qui il suo segnale di discontinuità. In parte negli articoli di Bartolucci e di Capriolo,[13] ma soprattutto nell’intervento di Corrado Augias (‘Approssimazioni successive per una fisiologia dell’avanguardia’, pp. 91-94), con cui si chiude la sezione centrale del numero. E se un’avanguardia teatrale, sostiene Augias, esiste e se esiste a livello internazionale anche una drammaturgia di riferimento (Beckett), sarebbero poi Artaud e Brecht i padrini di quella scena, mentre il Living Theatre (nella prospettiva internazionale), Carmelo Bene e Carlo Quartucci (in quella nazionale) ne sarebbero, ciascuno in un modo differente, i rappresentanti più significativi. Sarà dunque dentro questo perimetro di artisti e di critici che dovremo muoverci, senza tuttavia dimenticare la dialettica (e la polemica), sottesa e sempre riaffiorante, con l’area più tradizionalista.

D’altra parte, e sempre per ricordare i venti anni di attività di Sipario, il 30 maggio, a Milano, a Palazzo Durini, viene organizzato un happening a cura di Franco Quadri. Due sono gli eventi in programma: Visage di Luciano Berio, con Cathy Berberian (che viene regolarmente realizzato) e Free Theatre Piece del Living Theatre (che invece non avrà luogo e tutti gli spettatori saranno costretti ad abbandonare la sala). Dal teatro musicale (che vede protagonisti due fra i rappresentanti più illustri della ricerca italiana), al Living Theatre sembra che Franco Quadri intenda dare un segnale per il futuro, più che per il ventennio passato. La bilancia in questo caso si sposta decisamente: non solo da una prospettiva testo-centrica a una propriamente scenica, ma anche da un teatro di rappresentazione a una dimensione aperta, nettamente anti-rappresentativa, in cui il corpo è centrale, la parola è quasi assente, il contatto col pubblico è programmatico, la creazione è collettiva, il tempo è indefinito. L’happening non avrà luogo, ma il fatto stesso che sia stato previsto e poi impedito[14] mette in luce quanto la proposta fosse allora la cartina tornasole di un conflitto e di un momento di passaggio, fuori e dentro Sipario. Siamo nel 1966 e dobbiamo ora fare un passo indietro.

 

2. Le distanze e i punti di convergenza. Una mappa di orientamento

Sebbene Sipario sia una rivista di per sé decisamente orientata a restare entro i margini che potremmo dire disciplinari, la presenza stessa di Valentino Bompiani alla sua direzione la colloca entro una rete di relazioni, di politica culturale ed editoriale, estesi e interdisciplinari. Gli intrecci fra le persone ci sono: nel 1961 Franco Quadri è nella redazione di Almanacco Letterario Bompiani subito prima di passare a Sipario, mentre fra il 1965 (ottobre) e il 1966 Fabio Mauri è responsabile della redazione romana di Sipario, per ritornare alla fine del 1968 e restare anche dopo l’abbandono di Quadri nel 1969; Furio Colombo è collaboratore di entrambe le riviste, oltre che essere autore Bompiani di spicco con il suo Nuovo teatro americano; ugualmente Nicola Chiaromonte; Achille Perilli, una delle firme di Almanacco, interviene anche su Sipario fra il 1961 e il 1962. Eppure, il dibattito sulle pagine dell’Almanacco, che è spesso ampiamente interdisciplinare, riserva in questi anni al teatro complessivamente poche pagine e spesso con un taglio piuttosto tradizionale, mentre su Sipario fra il 1959 e il 1966 lo sfondamento verso altri campi artistici è limitato, per lo più circoscritto a occasioni particolari. Perché? Un’ipotesi è che Sipario vada a coprire un’area di cui l’Almanacco poco si occupa; un’altra, complementare, è che proprio la matrice letteraria e testo-centrica dello sguardo sul teatro di prosa italiano di molti dei collaboratori vicini a Bompiani assottigli le possibilità di scambio interdisciplinare e le limiti a poche eclatanti occasioni. D’altra parte, il panorama del teatro di prosa italiano durante tutta la prima metà degli anni Sessanta, a differenza di quello artistico e musicale, pare segnato da ‘elefantiasi’, ripiegato su se stesso, attraversato dalla crisi, in ritardo rispetto alle altre arti. E, comunque sia, diverso. E, in quanto tale, da trattare separatamente. Certo, con l’arrivo di Franco Quadri in redazione, qualcosa lentamente inizia a mutare. Uno sguardo attento allo specifico teatrale e un’apertura ancora più marcatamente internazionale, alla ricerca di segnali di una rottura e di una svolta che, per il momento, definirei in modo generico anti-rappresentativa e ‘performativa’, iniziano a caratterizzare una parte del lavoro della rivista. E, se inizialmente è soprattutto la scena internazionale a fornire i punti di riferimento, le chiavi di lettura, i paradigmi rispetto al percorso che stiamo seguendo in questo dossier, a partire da lì è possibile individuare delle somiglianze (oltre che delle differenze) con quanto accade nella musica e nel campo del visivo in Italia e con i discorsi critici e teorici che da lì muovono. Non necessariamente, dunque, racconteremo in queste pagine di incontri effettivi: a lungo si tratterà di rintracciare fili sottili che richiamano analogie, parallelismi, sintonie, punti di contatto. Poi arriverà anche il tempo degli incontri, ma sarà soprattutto dopo il 1966 con cui abbiamo aperto.

Proviamo allora a indicare rapidamente gli snodi principali di quel lungo discorso che si dipana per dieci anni e a poco a poco si chiarisce; quasi fosse una mappa d’orientamento preliminare, per non perderci troppo rapidamente nei moltissimi rivoli che questo oggetto di ricerca suggerisce. Innanzitutto, e in estrema sintesi, gli aspetti in cui si articola la negazione di un modello teatrale, che è ancora egemone in Italia alla metà degli anni Sessanta e oltre, e che da più parti inizia a essere messo in discussione. La negazione, dunque:

 

  • dell’opera chiusa;

  • della dimensione rappresentativa (a partire dalla negazione della rappresentazione mimetica fino ad arrivare alla negazione tout court della rappresentazione);

  • della gerarchia dei codici (in primis il primato del codice letterario);

  • dell’autore unico;

  • delle coordinate spazio-temporali assolute: dello spazio unico e assoluto, con una netta distinzione fra palco e platea, e del tempo unico, continuo e lineare;

  • della recitazione come interpretazione di un personaggio;

  • del corpo come strumento;

  • dell’opposizione arte-realtà, estetico-non estetico;

  • della critica teatrale dei letterati.

In opposizione, alcune linee proposte:

  • il passaggio dall’opera chiusa, all’opera aperta e poi all’evento;

  • l’affermazione della dimensione della presenza (anti-rappresentativa);

  • la copresenza dei differenti codici, posti tutti allo stesso livello (verso la scrittura scenica);

  • l’autore (spesso) collettivo;

  • lo spazio performativo che non è già dato, ma si produce a partire dal riutilizzo di spazi non adibiti allo spettacolo; lo spazio frammentato; la tensione verso una drammaturgia dello spazio;

  • il tempo non definito;

  • la copresenza corporea di attore/performer e di spettatore (e spesso il loro contatto);

  • la recitazione come manifestazione del sé e come gesto autoreferenziale;

  • il corpo come luogo dell’esperienza e del significato;

  • l’accentuazione dell’elemento rituale;

  • l’accentuazione dell’elemento politico;

  • il recupero spettacolare dell’oggetto;

  • il collasso delle opposizioni arte-realtà, estetico-antiestetico;

  • l’affermazione di una critica analitica, con un certo debito nei confronti dello strutturalismo francese;

  • l’affermazione di una squadra di critici teatrali militanti che sono anche operatori culturali.

 

Molti di questi elementi trovano il corrispettivo nelle arti visive di quel tempo. Certo non tutti compaiono contemporaneamente in teatro e non sempre divengono oggetto di riflessione su Sipario. Ma è una mappa che ci sarà utile. Anche perché cercheremo di seguire l’andamento della rivista, e non quella del singolo critico o del singolo artista, tracciando linee, inseguendo percorsi e segnalando una grande questione trasversale: l’attore.

 

3. Per iniziare: 1961 (e 1962): scenografia come azione

Nel fare una scelta di alcuni momenti particolarmente significativi per la nostra storia, non si può che partire dal 1961 e ricordare, innanzitutto, le pagine a cura di Franco Molina dedicate ai tre «spettacoli astratti» di teatro musicale, Intolleranza 60 (cfr. <http://www.arabeschi.it/13il-1961-happenings-e-spettacolo-astrattiil--lanno-della-primatournce-in-italia-del-living-theatre-che-fa-t/>) Collage e Scatola magica, del luglio di quell’anno.[15]

F. Molina, ‘Tre spettacoli astratti’, S., luglio 1961, p. 4

La struttura dell’approfondimento, che prevede l’intervento diretto degli artisti inserito all’interno della cornice critica, è tipica di Sipario. E, se i tre spettacoli certamente rappresentano una tappa fondamentale di un modo nuovo di intendere la scena, il rapporto fra i diversi linguaggi, lo spazio, lo spettatore, le pagine di Sipario restituiscono, proprio attraverso le parole degli artisti, il senso un’operazione che anticipa quanto, nello specifico campo del teatro, si farà strada, e lentamente, solo negli anni successivi. Molti dei punti sopra elencati trovano in queste pagine un primo momento di enucleazione: è Molina stesso a indicare nella frantumazione dei confini linguistici uno degli aspetti di queste libere composizioni; nell’elemento astratto e non rappresentativo il carattere formale costitutivo; nella ricerca di un nuovo spazio una tensione che percorre tutti gli artisti, compositori e pittori ugualmente coinvolti nel processo creativo autoriale. Vedova ricorda Mejerchol’d, Piscator, il Bauhaus, sottolinea la necessità di un coinvolgimento dello spettatore «investito» dalle proiezioni sonore, ricorda che l’accordo fra musica e proiezioni avvenne quasi fatalmente e senza una programmazione precisa; Perilli, che marca più fortemente la discontinuità con la tradizione teatrale (Brecht e Beckett compresi), parla di azione scenica (anziché di rappresentazione), dell’esigenza di unire più forme espressive, di lavorare sulla dimensione astratta, di dare grande spazio alla luce, di una collaborazione «di natura poetica» con lo spettatore, di gruppi di lavoro interdisciplinari (e non di singole autorialità); nell’operazione di Scatola magica la presenza degli artisti, evocata dalle loro parole registrate e riportata a frammenti su Sipario, mette in luce la forte componente soggettiva dell’artista, presente in prima persona e parte integrante dell’opera. Tutti ricordano tre figure autoriali: l’artista, il compositore, il regista. Grande assente, l’attore. L’incontro avvenuto fra musica contemporanea e ricerca visiva non è ancora possibile nel teatro di prosa. Qui, se la logica del testo condiziona tanto la critica quanto la produzione, d’altra parte la presenza di un altro protagonista della scena, l’attore, complica le cose. È la grande questione che resta per ora aperta, una questione nuova che la critica non seppe immediatamente enucleare.[16]

Prima di aprire lo scenario su questo tema, è però importante soffermarci ancora sul numero speciale di Sipario del dicembre 1962 dedicato alla ‘Scenografia italiana d’oggi’, a cura di Guido Ballo.[17] Titolare della cattedra di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, amico e grande estimatore di Lucio Fontana, grande esperto di Futurismo, complice del gruppo ‘Continuità’ che vedeva riuniti Franco Bemporad, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Gastone Novelli, Achille Perilli, Arnaldo e Gio’ Pomodoro, Giulio Turcato, Pietro Consagra, Ballo è un importante collaboratore di Sipario in questi anni e qui firma un articolo di apertura, in cui traccia una sintetica storia dei contributi dei maggiori scenografi italiani, a partire da Prampolini fino ad arrivare a Perilli, sottolineando in particolare, per ciò che riguarda il secondo dopoguerra, l’influenza dell’espressionismo costruttivista e poi di quello astratto americano (più immediato, aggressivo e crudo), ma sottolinea anche l’involuzione formalista e calligrafica degli ultimi anni e chiude evidenziando l’arretratezza delle scene teatrali italiane, nelle quali non si trova un eguale di Beckett, o di Pollock, di Fontana o di Burri, Novelli, Pomodoro. Le esperienze più interessanti restano a suo avviso quelle di Vedova, Perilli, Damiani e Luzzati.[18] Seguono un interessante affondo di Luigi Squarzina, uno di Luigi Pestalozza, ma è soprattutto, ancora una volta, l’articolo di Achille Perilli[19] (dal titolo emblematico Scenografia come azione e come programmazione)[20] a porre il problema di fondo e sottolineare uno spostamento del paradigma da un teatro che è rappresentazione a un teatro che è «convergenza di azioni», «sintesi delle varie forme espressive», in cui musica, parola, immagine, movimento e colore partecipino in eguale misura; da un teatro in cui lo spettatore è passivo a uno in cui è coinvolto nell’azione scenica in una «collaborazione di natura poetica», «mentale» e «fantastica». Di questo teatro sarebbero rappresentanti i pittori newyorkesi che hanno avviato la sperimentazione negli happening (Jim Dine, Red Grooms, Alan Kaprow e Claes Oldenburg) ma anche alcuni italiani, come Emilio Vedova in Intolleranza o lui stesso in Collage. «Posso considerare un’altra ipotesi sola e contraria totalmente a questa: […] la continuazione della scuola costruttivistica russa»,[21]di Tatlin, Rabinovitch, Exter, in una ricerca «di spazi, di forme, di realtà concreta e di movimenti definiti», che comporterebbe di fatto l’espulsione della dimensione dei sentimenti e delle sensazioni, raggelandosi in una costruzione formale fredda e meccanica. Ancora una volta manca completamente una riflessione sulla presenza in scena dell’attore, il cui contributo era stato invece previsto nel piano originario da Franco Quadri («uno scrittore, un pittore, un regista, un attore e un architetto» avrebbero dovuto fare «il punto sulla situazione della nostra scenografia teatrale d’oggi»).[22]

 

4. Sipario 1964 e 1965 e i Novissimi

Prendiamo ora ad esempio il numero del gennaio 1964. Quadri è caporedattore da ormai più di un anno. Dal 3 all’8 ottobre a Palermo si era tenuta la IV Settimana di Musica contemporanea in occasione della quale il neocostituito Gruppo 63 aveva presentato alcune composizioni teatrali.[23] Il numero è un bell’esempio di intrecci e contraddizioni tipiche di quella ecumenicità carica di tensioni che caratterizza Sipario. Al suo interno spiccano poi tre interventi: la traduzione del Manifesto per un nuovo teatro di Elia Kazan, espressione limpida di una delle proposte più rilevanti del teatro americano di rappresentazione (nonostante l’espressione ‘nuovo teatro’ che in capo a pochi anni si connoterà in Italia in modo differente); un interessante intervento di Sandro Bajini, Teatralità: si riapre la discussione, e l’articolo di Giuseppe Bartolucci sulla Settimana della Nuova musica a Palermo. E se Bajini, riferendosi direttamente ad Antonin Artaud, si fa sostenitore dell’autonomia della scrittura scenica dal codice testuale,[24] Giuseppe Bartolucci,[25] dopo aver ricordato tre modelli possibili a cui la sperimentazione del Gruppo 63 avrebbe potuto guardare (il teatro cabaret, il teatro letterario e il teatro d’avanguardia) e sottolineando, tuttavia, che a nessuno di questi l’esperienza palermitana poteva essere ricondotta, si concentra sull’aspetto testuale (sebbene ‘aperto’ alla scena): per Balestrini il coinvolgimento del pubblico e i collage sonori, per Giuliani qualcosa che assomiglia a una specie di happening, per Pagliarani la drammaticità della poesia resa a più voci. Proprio Bartolucci, che era stato presente alle giornate palermitane, non fa il minimo riferimento ai due gruppi teatrali che avevano agito in scena: non solo non nomina il CUT di Bologna, di cui Gozzi è regista, ma soprattutto non fa cenno all’ACT di Roma e a Ken Dewey, figura internazionale importante, appena tornato dalla Conferenza del Festival internazionale degli scrittori di Edimburgo dove, su commissione di John Calder, aveva realizzato un grande happening – In Memory of Big Ed – con Charles Marowitz, Marc Boyle, Allan Kaprow[26] e che dal 1961 lavorava accanto a Lee Breuer, R. G. Davis e Anna Halprin. Anche qui, chi agisce in scena scompare. Eppure, il concetto e la pratica dell’happening vengono dal teatro e in questo caso certamente dalla presenza di Dewey. Ancora una volta l’autore in senso forte (qui, inoltre, responsabile di una rottura formale) sembra essere chi scrive.[27]

Un anno dopo, nel luglio del 1965, Roberto Rebora recensisce una serata romana dei Novissimi,[28] con scene di Achille Perilli, Toti Scialoja e Carlo Battaglia, la direzione di Toti Scialoja e Piero Pansa (che è anche in scena), testi di Giordano Falzoni (L’occhio), Elio Pagliarani (Merce esclusa), Nanni Balestrini (Improvvisazione) e Alfredo Giuliani (Povera Juliet); (cfr. <http://www.arabeschi.it/17-il-1965-nuova-arte-nuovo-teatro-pubblico-nuova-scena/>). Composizioni «in gran parte mimiche e figurative», che non raggiungono, a parere del critico, l’efficacia dirompente che aveva avuto la serata del Living, sempre a Roma, con i Mysteries (cfr. infra): allora un «rigoroso professionismo», qui un «vago dilettantismo». Mi soffermo solo su questo giudizio perché credo che colga nel segno e ci dia una chiave di lettura del mancato incontro fra il Gruppo 63 e il teatro italiano di ricerca del tempo: un incontro tentato a Palermo e riproposto qui, con il coinvolgimento di importanti rappresentanti della ricerca artistica di quegli anni (Scialoja, Perilli, Battaglia). È necessario leggere queste parole di Rebora in controluce con quelle di alcuni teatranti, come per esempio Rino Sudano, che sottolineano la distanza fra il loro mondo e, soprattutto il loro modo di essere attori, e quei testi assolutamente letterari lontani da un confronto reale con la scena.[29] È un problema antico, che già in parte aveva coinvolto il futurismo: una scrittura per il teatro che intende rompere le convenzioni ma fatica a confrontarsi con il linguaggio teatrale, le sue tradizioni e, per questo, tenta un’azione che risulta velleitaria, astratta, di corto respiro. Rebora, che conosce il teatro, non può che notare questo scollamento e sottolineare fra l’altro la distanza rispetto alla proposta del Living nella quale, come vedremo fra poco, è il corpo in scena a ridefinire il linguaggio, non la parola letteraria; dove la rottura è profonda, necessaria, scandalosa, mentre l’azione dei Novissimi risulta ben poco urtante, anzi «pacifica», tanto da suscitare una «deferenza quasi cordiale».[30] Nonostante il coinvolgimento di importanti figure del mondo dell’arte, la proposta teatrale resta all’interno di una dimensione dilettantesca. E qualcuno in Sipario sembra cogliere il fatto.

E qui è necessario aprire una breve parentesi. Lo scollamento fra teatranti attori e intellettuali letterati, nell’alveo della ricerca e della sperimentazione, è in Italia in questi anni ancora molto forte; molto più di quello fra letterati e mondo dell’arte visiva o della musica. I letterati conoscono poco la scena teatrale e faticano a relazionarsi con la sua frammentazione. I teatranti che avviano il processo di ripensamento radicale della scena lo fanno spesso confrontandosi con uno stato di crisi endemica, in gran parte originatosi trent’anni prima, quando progressivamente e inesorabilmente un intero sistema di regole, di tradizioni, di pratiche era stato smantellato senza che ad esso si fosse sostituito null’altro di paragonabile.[31] Emblema di quella crisi era ancora all’inizio degli anni Sessanta la subordinazione della scena (e dell’attore) al testo scritto che, proprio per questo motivo, diviene per la legge del contrappasso uno dei primi obiettivi polemici di questi anni. Riconquistare l’autorialità piena dell’intero processo creativo scenico, spesso passando attraverso la creatività attoriale, diviene la strada che molti percorrono. È il caso di Carmelo Bene, di Carlo Quartucci, di Leo de Berardinis, di Perla Peragallo, ma anche di Paolo Poli, di Dario Fo. L’intellettuale letterato, che pensa di rigenerare il teatro passando attraverso la parola scritta, è da un’altra parte, anche se facendo ciò trova sintonie interdisciplinari, con pittori e musicisti. O meglio: una parte del teatro è altrove, e in Italia deve fare i conti con il corpo dell’attore, con una storia stratificata e non liquidabile, con un mestiere antico anche se squassato, con una tecnica, un sapere e una disciplina che non si possono demolire. Alcuni critici, su Sipario e non solo,[32] si interrogano anche su questo. Ne sono prova molti interventi e in particolare il numero speciale dedicato al ‘Teatro cabaret nel mondo’ del dicembre 1963,[33] e il numero doppio ‘Rapporto sull’attore’ del dicembre 1965 a cura di Bartolucci e Quadri.[34]Su quest’ultimo esempio vale la pena soffermarsi rapidamente. La quinta domanda dell’inchiesta recitava così: «5) Stiamo assistendo a diverse esperienze teatrali, specialmente straniere, che rivalutano l’attore e in certo qual modo aprono un discorso. Come si colloca lei e come si pone la società italiana di fronte a queste tendenze espressive antitradizionali?». Prima domanda: a cosa stanno alludendo Quadri e Bartolucci? Seconda domanda: come mai le risposte sembrano sottolineare la distanza fra il punto di vista dei due critici e i loro interlocutori? Nell’elenco non ci sono né Carlo Quartucci, né alcuno degli attori con cui sta allora lavorando (Leo De Berardinis, Rino Sudano, Claudio Remondi), né Carmelo Bene, né Paolo Poli; non c’è Mario Ricci. Non sono ancora abbastanza famosi e riconosciuti per essere interlocutori della critica teatrale italiana. Ci sono però Dario Fo e Franca Valeri, espressione appunto di quel teatro allora legato al cabaret sul quale Sipario (e in particolare Bartolucci) ha posto una certa attenzione.[35] Le risposte confermano complessivamente una visione ancora fortemente legata al testo e poco disponibile a mettere in discussione lo statuto tradizionale dell’attore e il suo rapporto con la regia; ma questo potrebbe dipendere appunto dagli interlocutori. E quanto alla prima domanda: a chi fanno riferimento sottotraccia Quadri e Bartolucci?

 

5. Dal 1965: ‘vedere’ attraverso la scena internazionale

Se durante tutti gli anni che interessano questa ricerca, la presenza di dossier di approfondimento, di inchieste sul campo e di numeri speciali è molto ricorrente, con l’arrivo di Franco Quadri l’attenzione verso la scena internazionale di questi contributi inizia a caratterizzare sempre più evidentemente la politica culturale della rivista.[36] Dalla lettura di Artaud, dalle riletture di Brecht,[37] dagli interventi di Barba su Grotowski, dalle immagini degli spettacoli del Living Theatre, dalle interviste a Peter Brook, a Julian Beck a Judith Malina, alle traduzioni di articoli di Lebel o di Kaprow Sipario trova i riferimenti per fare terremotare le categorie tradizionali attraverso le quali guardare e raccontare il teatro. Anche quello italiano. Da lì inoltre arrivano esempi di un modo diverso di intendere la presenza dell’attore in scena, fuori dal paradigma della rappresentazione, che scuotono non solo la critica.

Particolare in questo senso è il numero dedicato interamente al teatro della crudeltà (n. 230, giugno 1965) in cui, oltre a proporre testi di Antonin Artaud per la prima volta in traduzione italiana dopo il numero del Verri del 1964, [38] (cfr. <http://www.arabeschi.it/16-il-1964-una-nuova-relazione-tra-visivo-e-performativo/>) sono gli artisti ad essere chiamati in causa: Roger Blin, Charles Marowitz e Peter Brook,[39] Peter Weiss, oltre che Julian Beck e Judith Malina. Artaud arriva attraverso la scena e arriva soprattutto per problematizzarla; arriva attraverso la voce, le immagini, i progetti di artisti contemporanei che, nella maggior parte dei casi, pongono la questione del rapporto arte-vita, da un lato, e quella di un attore nuovo, dall’altro. Ed Artaud, ancor più di Brecht, si pone come riferimento cerniera fra la riflessione delle avanguardie e degli anni Venti e Trenta e quelle degli anni Sessanta, nella tensione al superamento della dimensione del rappresentativo.

Attraverso Artaud, fra tutti gli artisti sopra citati, nel 1965 spicca senz’altro il Living Theatre che, proprio a partire da quest’anno inizia a essere raccontato da Sipario in un modo nuovo anche attraverso le immagini, senza che l’elemento testuale (come era accaduto in precedenza nel caso di The Connection e in quello di The Brig) abbia più nettamente il sopravvento e dando forma a quell’acuta intuizione che Ruggero Jacobbi aveva avuto nel 1961, quella di un «teatro vivente», ossia «un teatro cementato dalla misteriosa consistenza della recitazione, la quale può servire un testo, ma può anche al di là di un testo indicare onestamente il senso di un mondo, le vie del comportamento».[40] Prima del numero dedicato al ‘Teatro della crudeltà’, ne era già stata una prova il numero di maggio in cui Mysteries and small pieces (a Roma per ‘Il marzo teatrale Americano’ organizzato dal Teatro Club)[41] aveva occupato la copertina con un’immagine molto evocativa e molto distante dall’iconografia precedentemente utilizzata.

Copertina, S., maggio 1965

Nessun primo piano degli attori; al contrario, l’intero collettivo in cerchio, ripreso dall’alto, in bianco e nero. Allo stesso modo, le immagini che avevano accompagnato il saggio di Arnaldo Frateili,[42] esteticamente non particolarmente belle, risultano ancora oggi efficaci nel restituire il senso di un’azione scenica radicalmente anti-illusionista: emergono i corpi degli attori (pantaloni e maglietta) che compiono azioni, esercizi, su un palco spoglio, dalle cui pareti spicca la scritta «Vietato fumare» e null’altro. D’altra parte, Frateili aveva fatto appello alle arti pittoriche (a Rossetti, a Ensor, a Grosz), in cerca di elementi visivi che potessero dare una chiave di lettura e di accesso a quei corpi, rivelando l’impaccio di una critica che non riusciva a trovare al proprio interno un linguaggio adatto per descriverli.[43] Potenti in questo senso sono anche le immagini che accompagnano l’intervento di Capriolo nel numero successivo, quello dedicato appunto al teatro della crudeltà: una sequenza di fotografie piccole sul lato destro della pagina, come la striscia di un provino, che ci restituiscono ‘il movimento’ di un esercizio collettivo di Mysteries, la sua dinamica, con i corpi come protagonisti in sé: non strumenti per esprimere altro, ma significanti in se stessi.[44] Paradossalmente, però, l’articolo di Capriolo sull’influenza di Artaud negli Stati Uniti parla solo ed esclusivamente di testi drammaturgici. Insomma, dal 1965 su Sipario si inizia a imporre una diversa iconografia dei corpi, mentre il linguaggio della critica manifesta ancora le sue oscillazioni, il suo impaccio e, a tratti, la sua radicata prospettiva testo-centrica. Le eccezioni sono quelle in cui Sipario dà voce direttamente agli artisti: è il caso di Marowitz- Brook su Artaud ed è soprattutto il caso di Grotowski intervistato da Eugenio Barba nel numero di agosto-settembre del 1965.[45] Allora il discorso si focalizza in modo centrale e quasi esclusivo sull’attore, sulla necessità di una presenza del corpo in scena fuori dal paradigma della rappresentazione e, soprattutto, sui processi creativi (la tecnica induttiva, per sottrazione, volta al raggiungimento della presenza ‘reale’ dell’attore santo); le parole di Grotowski si rafforzano nell’immagine di Cieslak in Akropolis, un corpo che pare voli arcuato all’indietro, sospeso nel vuoto, vestito di iuta. E così apparato iconografico e discorso critico si rispecchiano e si rafforzano l’uno con l’altro, mettendo fra l’altro in luce ancora una volta quanto sia forte la necessità per la rivista di porre al centro volti e parole di chi opera direttamente in teatro più ancora che fare discorsi critici complessivi.

 

6. L’Italia fra lentezze e impennate a partire dal 1965. Carlo Quartucci ‘per’ Sipario

Se leggiamo quanto, sempre negli stessi mesi di cui abbiamo sopra detto e sempre su Sipario, viene pubblicato in relazione al teatro italiano e al suo dibattito interno, sembra di venire catapultati in un altro mondo e tempo. L’inchiesta sul mancato incontro in Italia fra ‘Gli scrittori e il teatro’ a cura di Marisa Rusconi[46] del 1965 è emblematica. Le risposte degli intellettuali sono la conferma della granitica letterarietà del punto di vista di molti che non pongono assolutamente in discussione il tradizionale rapporto autore drammatico-scena[47] e il pressoché totale disinteressamento per il teatro concreto.[48] D’altra parte, nelle risposte degli uomini di teatro (critici, registi e attori) solo pochi mettono in discussione quell’assunto (Fersen per esempio, Dario Fo,[49] ma poi anche Roberto Lerici[50] fra i giovani), finché Roberto Rebora chiude, nel numero di agosto-settembre, con un articolo ricco di problematicità e dal titolo emblematico: Contributo alla confusione. Profondamente deluso dalle risposte in cui, salvo pochi casi, si son dati «giudizi dilettanteschi», «si sono fatte esibizioni di provincialismo culturale», Rebora invita scrittori e letterati a interrogarsi seriamente su cosa sia il teatro (la recitazione, la regia, la scenografia) e a pensare a «un testo che sia teatro».[51] Mentre nello stesso numero Barba intervista Grotowski, il mondo teatrale italiano fotografato da Sipario arriva a pensare che possa anche esistere un ‘testo che torni a essere teatro’. Il che appare veramente poco.

Eppure, la risposta che la scena darà di lì a poco andrà oltre, proponendo un teatro come opera aperta e come laboratorio permanente,[52] due indicazioni particolarmente fruttuose per una riflessione interdisciplinare su questi anni. Zip, Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap e la Grande Mam alle prese con la società contemporanea è alla Biennale di Venezia il 30 settembre 1965,[53] presentato sotto la sigla del Teatro Studio e del Teatro Stabile di Genova, firmato – per la regia – da Carlo Quartucci e – per il testo – da Giuliano Scabia. E diverrà presto un «caso»[54] per la critica contemporanea (e poi per la storiografia successiva).[55] Ettore Capriolo, che recensisce lo spettacolo su Sipario, lo presenta come un esempio di strada italiana dell’avanguardia: invenzione di uno spazio scenico che metta in relazione palco e platea, collaborazione fra scrittura testuale e costruzione dello spettacolo, processualità e opera aperta vengono individuati come elementi di rottura, ma anche di costruzione per una nuova prospettiva. Centrale appare a Capriolo la forte presenza dell’elemento visivo, che non sarebbe consistito «soltanto nel contributo dello scenografo [Luzzati], ma anche e soprattutto nell’insolita (almeno in Italia) utilizzazione dello spazio scenico (prolungato con passerelle sino a metà platea come per sottolineare che nella società contemporanea insieme con Zip e con gli altri ci siamo anche noi)».[56] Quartucci, da parte sua, interviene con Scabia,[57] sempre nel medesimo numero di Sipario, a specificare il proprio punto di vista: e qui, nel sottolineare l’idea di uno spettacolo «da vedere e da costruire da tutte le parti», rinvia a Pollock (che «ha costruito molti dei suoi quadri girando attorno alla tela, abolendo l’alto e il basso, il lato destro e sinistro») e, per indicare uno spazio che sia come una piazza, da dissacrare continuamente, fa riferimento a Gropius, Artaud, ma anche Polieri. Quanto alla recitazione, programmaticamente, sarebbe dovuta essere la sperimentazione di una terza via fra l’immedesimazione e lo straniamento epico: una via che avrebbe dovuto coniugare distacco dal personaggio e immersione nello spazio. Sappiamo che Quartucci per allenare i suoi attori a far questo, durante il soggiorno a Prima Porta, aveva usato la musica di Stockhausen e le diapositive che riproducevano i quadri di Pollock.[58] Sappiamo che lui regista e i suoi attori non furono tuttavia affatto soddisfatti di Zip, che da questo punto di vista fallì; ma Sipario lascia la traccia delle intenzioni, così come un anno più tardi, sempre a firma Quartucci riporta un’interessante riflessione sul rapporto tra recitazione e arti plastiche. In occasione dell’allestimento di Libere stanze al Teatro Gobetti di Torino, Carlo Quartucci firma un articolo in cui dichiara di avere impostato il lavoro scenico e con gli attori avendo come riferimento figurativo Segal, nell’intenzione di superare sia la riproduzione mimetica sia l’astrazione e giungere a una dimensione di «oggettivazione realistica».[59] Via Segal, Quartucci sta tentando una strada che porti gli attori a uscire sempre di più dagli schemi, a rompere gli stili, a eliminare da sé il problema dell’immedesimazione, al fine di dare concretezza formale all’urgenza di mantenere la scena ancorata alla società, senza ricadere nel mimetismo naturalistico, ma anche senza costringersi nell’astrattismo disancorato dalla realtà. Come spesso nel caso di questo artista è l’esempio dell’arte figurativa e plastica contemporanea a servire da vocabolario (per esprimere un punto di vista) e da orizzonte visivo (per provocare i compagni di lavoro). La lingua di Carlo Quartucci è impastata di immagini, il suo modo di relazionarsi con l’altro lo è. Ma c’è qui anche un altro aspetto che è importante sottolineare: il ruolo che riviste come Sipario (ma anche Marcatrè) rivestono, quali luoghi privilegiati dai quali gli artisti attingono idee, stimoli, provocazioni, immagini, soprattutto nel caso in cui aprono a scenari non conosciuti e raccontino di quanto accade oltre confine. Carlo Quartucci ne è un esempio illuminante: aveva scoperto Cartoteca di Różewicz attraverso il numero speciale dedicato al teatro polacco a cura di Franco Quadri dell’agosto-settembre del 1963 e nella costruzione delle scene per lo spettacolo si era richiamato in modo esplicito alla prima polacca del 1960 a Varsavia (regia di Wanda Laskowska e scene di Jan Kosiński), di cui in quel numero di Sipario era stata pubblicata un’immagine.[60] E anche nel 1965 arriva a Segal dopo averlo incontrato sulle pagine di Marcatré, con l’articolo di Alberto Boatto La percezione dell’anonimo in Segal.[61] Dobbiamo tuttavia arrivare alla seconda metà del 1967 con Ottobre teatrale e poi soprattutto al 1968 con i Testimoni, perché Quartucci, incontrato prima Magdalo Mussio e poi Jannis Kounellis, si apra a un diverso discorso scenico, in una diretta collaborazione fra regista e artista. Un incontro che avviene sul palcoscenico, che è scoperta dell’altro nella fase creativa e progettuale, che è uscita dai quadri per l’uno e per l’altro, che è opera aperta e laboratorio in progress. Sipario si occuperà ampiamente soprattutto dei Testimoni. Ma cosa sarà cambiato nel frattempo?

 

7. Questione di termini: avanguardia, Nuovo teatro, happening, Teatro dei mezzi misti

A questo punto abbiamo superato la linea di demarcazione del maggio 1966. E, con il numero di novembre di quell’anno, siamo anche arrivati al momento in cui la Nuova Critica lancia la sua proposta e stende il Manifesto Per un convegno sul nuovo teatro,[62] pubblicato sul numero di novembre di Sipario. Fra le firme, oltre ai critici (Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini e Franco Quadri), troviamo ovviamente i teatranti (Carlo Quartucci, Carmelo Bene, Antonio Calenda, Virgilio Gazzolo, Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo), gli artisti dell’area musicale (Cathy Berberian, Sylvano Bussotti e Sergio Liberovici) e due soli artisti visivi (Emanuele Luzzati e Franco Nonnis), oltre che alcuni rappresentanti del mondo del cinema (Liliana Cavani e Marco Bellocchio); (cfr. <http://www.arabeschi.it/19-il-1967-i-nodi-vengono-al-pettine/>). Tenutosi, come si sa, solo alcuni mesi più tardi, il Convegno non raggiungerà gli obiettivi che si era prefisso. Nelle frammentate notizie che Sipario pubblica, nessun rilievo viene dato al rapporto fra le arti e Boursier annota: «Si è parlato poco o nulla, invece, dei nuovi ‘materiali scenici’, dell’uso del gesto, dell’oggetto scenico, della scrittura drammaturgica, del suono e dello spazio scenico».[63] Di fatto, di lì a poco, il gruppo promotore dei critici si sfilaccia, probabilmente perché Bartolucci accetta la proposta del Teatro Stabile di Torino di diventarne uno dei suoi direttori.[64] Bartolucci e Capriolo, insieme a Fadini, avviano allora la loro autonoma avventura con la rivista Teatro, edita a Torino,[65]più compattamente orientata di Sipario, dove saranno affrontate in modo più esplicito e più teorico questioni che Sipario aveva iniziato a sondare. In qualche modo Franco Quadri è presente come firma anche in questa nuova impresa, sebbene non partecipi alla sua direzione,[66] così come Bartolucci, Capriolo e Fadini continuano a collaborare con la rivista di Bompiani. Qui, per proseguire il nostro discorso, vengono pubblicati alcuni importanti articoli di riflessione teorica che rimodulano il quadro dei riferimenti e sembrano sottolineare l’urgenza di accorciare le distanze fra le arti e di mettere in relazione operativa quelle sintonie, quelle analogie di percorsi che siamo andati via via rilevando nelle pagine precedenti, anche se per il momento non investono direttamente la scena italiana. Ancora una volta è il contesto internazionale a indicare le linee. Facciamo alcuni esempi. Il numero di gennaio è particolarmente interessante. Martin Esslin inHappening e teatro del futuro’[67] sintetizza, in un intervento di grande chiarezza espositiva, le teorie intorno all’happening a partire dalla messa in discussione dell’illusione del teatro di rappresentazione (e qui cita il Teatro dell’Assurdo, Brecht e il cabaret satirico di Lenny Bruce), per passare alle influenze di Artaud, di Grotowski, fino all’individuazione dei tratti caratterizzanti l’happening, alle proposte di Cage e Kaprow, alla riconfigurazione dello spazio, del ruolo e dell’identità dello spettatore (inteso come spettatore-partecipante), della gerarchia dei codici (diminuzione dell’importanza della letteratura, centralità dell’elemento visivo, contiguità fra happening e action painting), al recupero dell’elemento rituale.[68] Sempre in questo numero, Giuseppe Bartolucci, nel commentare US di Peter Brook,[69] spettacolo dall’impianto fortemente politico che aveva suscitato ampie polemiche, si sofferma sui suoi elementi costitutivi, sottolineando fra l’altro la presenza in scena di materiali degradati che, a tratti, sembravano animarsi ed entrare in relazione dialettica con gli attori: residui di oggetti di guerra, colti in un momento di disintegrazione, di frammentazione che, improvvisamente animatisi, si ingrandivano per effetto della luce. Nel marzo Sipario pubblica un capitolo dell’Oggetto ansioso di Rosenberg che «considera i rapporti ormai inscindibili tra la nuova scultura e la nuova pittura e il teatro».[70] Nell’aprile è il turno dell’importante contributo di Franco Quadri sull’Antigone del Living, in cui il critico individua, da un lato, il corpo umano come «oggetto scenico»,[71] capace di costruire figurazioni simboliche che richiamano la recitazione cifrata desiderata da Artaud (come un sistema di geroglifici), dall’altro, uno spazio scenico nudo («spettacolo castissimo, all’insegna della povertà»), che, invaso dagli attori fino in platea, costringe lo spettatore a sentirsi chiamato in causa. E se nel giugno il dossier ‘Alla ricerca del nuovo teatro’[72] sceglie di accostare contributi molto diversi, come a indicare un prisma di possibilità piuttosto che una linea, ma non fa nessun particolare riferimento a un incontro con la ricerca nel visivo, nel dicembre il numero doppio dedicato al Futurismo (di fatto a cura di Bartolucci, anche se non viene indicato esplicitamente) aggiunge un altro tassello in questa direzione: collocato all’interno di quella che può essere definita la tradizione del nuovo (nella quale abbiamo già visto che Bartolucci inserisce fra gli altri Artaud, Beckett e un certo Pirandello), il teatro futurista si rivela attuale per la sua vocazione alla «contaminazione fra le arti». E, se negli anni Dieci quella vocazione era stata espressione di una tensione vitalistica, alla metà degli anni Sessanta si presenta piuttosto come «operatività riflessa», azione conoscitiva, lavoro sui processi.[73] Sebbene in modo frammentario, Sipario sembra portare alla luce un pensiero che sempre più invita le ricerche teatrali e artistiche a riconoscere le sintonie, le contaminazioni, le analogie. Ma il 1968 è alle porte.

 

8. Dalla crisi del 1968 alla cesura del 1969

Per Sipario il 1968 è un anno di confronto serrato con la crisi: impegnato in modo attivo a fare i conti con i movimenti politici e sociali che attraversano il mondo occidentale, tenta di dare voce contemporaneamente allo smarrimento del teatro italiano e al fermento che proviene da oltre oceano. Emblematici sono, da un lato, il numero di settembre con l’inchiesta ‘Il momento della negazione?’[74] sulla situazione del teatro italiano, dall’altro i numeri di maggio (‘Verso un nuovo impegno?’[75]) e quello di dicembre a cura di Aldo Rostagno (‘America urrà. Il teatro della rivolta’) dedicati alla scena internazionale politicamente impegnata, con un’ampia raccolta di esempi e di documenti di teatro politico. Dal teatro di guerriglia americano di Schechner, fino ad arrivare alla scandalosa presenza del Living ad Avignone,[76] la dimensione aperta dell’happening e dell’event, la rottura della distinzione fra spazio della scena e spazio della platea, la sfida ad assottigliare sempre più il diaframma fra vita e arte e la necessità politica di tutto questo impongono a Sipario una serie di riflessioni che arrivano a mettere in discussione l’identità stessa del teatro (‘teatro o rito collettivo?’ si chiede Quadri in relazione al Paradise Now del Living), ma soprattutto marcano ancora una volta la differenza fra la scena nazionale (in crisi e in gran parte in stallo rispetto alla ricerca e alla sperimentazione) e quella internazionale. All’interno del ricco panorama della scena americana, presentato a dicembre da Rostagno[77] (dal teatro Off e sperimentale – Open Theatre, Cafè La Mama, Performance Group –, al Black Theatre, al teatro per la strada – Bread and Puppet –, al teatro fuori da New York – il Teatro Campesino, il San Francisco Mime Troupe…) trova posto anche una sezione dedicata all’happening, in cui viene pubblicato il saggio di Richard Kostelanetz, Il teatro dei mezzi misti: dall’happening puro all’ambiente cinetico, agli happenings da palcoscenico e alle rappresentazioni di palco,[78] la forma dei mixed means viene discussa nelle sue varie possibili articolazioni. E se le sperimentazioni italiane di cui Sipario si occupa all’inizio del 1968 e che si collocano fra musica e cinema (da Bussotti[79] a Schifano[80] ai Fluxus)[81] si avvicinano all’happening puro o all’ambiente cinetico, certo buona parte della ricerca teatrale italiana si colloca piuttosto fra le ultime due possibilità (l’happening da palcoscenico o la rappresentazione da palcoscenico), mantenendo il riferimento a uno spazio prefissato e restando per lo più entro un tempo definito. Eventi come quello di Paradise Now restano emblematici, e in quanto tali importanti momenti di un contesto ma lontani dalla nostra scena teatrale.

Eppure, anche in Italia un’importante novità, che incide sulla storia di Sipario, c’è. Dal febbraio del 1968 Giuseppe Bartolucci, che era entrato nella Direzione del Teatro Stabile di Torino, aveva iniziato fra l’altro a favorire l’incontro fra teatranti e artisti italiani. Solo a Torino ricordiamo in cartellone dello Stabile: nel febbraio del 1968 al teatro Alfieri Riccardo III, regia di Luca Ronconi e scene di Mario Ceroli con Vittorio Gassman come protagonista; a novembre al Teatro Gobetti (dopo aver debuttato a Ivrea) I testimoni, regia di Quartucci e materiali scenici di Jannis Kounellis[82] (cfr. <http://www.arabeschi.it/110-il-1968-la-dimensione-politica-entra-nellopera/>); il 27 novembre al Deposito d’Arte Presente (e poi all’Unione culturale) Orgia, regia di Pier Paolo Pasolini, struttura scenica e simboli di Mario Ceroli,[83] nel marzo 1969 al Teatro Gobetti Bruto secondo Alfieri, regia di Gualtiero Rizzi, scene e costumi di Giulio Paolini. E poi sarà il debutto dell’Orlando Furioso con la regia di Luca Ronconi, con le scene che sarebbero dovute essere di Mario Ceroli.

Su Sipario le ripercussioni si vedono fin dal principio del 1969, complici fra l’altro due cambiamenti della redazione: dall’ottobre 1968 era tornato Fabio Mauri alla redazione romana, mentre Franco Quadri fin dal principio del nuovo anno aveva iniziato a meditare l’abbandono della direzione. «Con la tua uscita da Sipario si chiude un ciclo della rivista e forse del teatro italiano», gli scriverà Corrado Augias a marzo quando verrà a sapere delle sue intenzioni.[84] A gennaio, intanto, nella sezione ‘Le ragioni della scena’, un intervento di Italo Moscati su Orgia di Pasolini, uno di Boursier sul Joyce di Mario Ricci e l’ampio spazio dedicato ai Testimoni di Quartucci-Kounellis (una lunga recensione di Capriolo e la pubblicazione di due pagine di appunti di Carlo Quartucci)[85]sottolineano l’attenzione rinnovata della rivista per il dialogo del teatro con il mondo della ricerca visiva.

C. Quartucci, ‘Le ragioni della scena’, S., gennaio 1969, pp. 10-11C. Quartucci, ‘Le ragioni della scena’, S., gennaio 1969, pp. 10-11

I testimoni sono per il nostro discorso una tappa importante, perché indicano il passaggio da un lavoro sugli assemblages, i collages, gli agglomerati che aveva caratterizzato il percorso di Quartucci in precedenza (con i riferimenti noti a Schwitters e a Rauschenberg) a «un’assemblage totale». La collaborazione intensa con Kounellis forza il regista in una direzione inusitata, qualcosa ch’egli definisce «un accadimento» reale»,[86]«né visivo, né teatrale, ma reale, biologico, fisiologico».[87]Così commenta Capriolo su Sipario:

Un palcoscenico nudo illuminato di biacca, con cento e più gabbie di cinguettanti uccelli multicolori e, qua e là, rozzi materiali di vita casualmente disposti: rotonde pietre da greto di torrente, pezzi di carbone, sacchi di iuta. In questo luogo ideato da Jannis Kounellis, irrompono dal fondo e dai lati carrelli in perpetuo movimento sui quali sono collocati come se vi avessero messo le radici gli attori. E’ una scenografia […] che si trasforma ininterrottamente sotto i nostri oggi.[88]

Elementi senza matrice convivono nei Testimoni con elementi della finzione teatrale: attori che recitano, monologando sui carrelli convivono con attori performer senza partitura verbale e senza riferimenti a personaggi (i servi di scena); oggetti in movimento (materiale concreto) hanno lo stesso rilievo degli attori. Infine, lo spazio teatrale (il palcoscenico) si apre verso lo spazio esterno tanto da invadere parte della platea. Ancora una volta, tuttavia, anche in questo caso la recitazione non è all’altezza, per l’immensa difficoltà di trovare «per la parola umana un equivalente di quella scenografia».[89] Il problema, che abbiamo annunciato al principio di queste pagine, si ripropone ancora una volta.

Ad aprile un numero molto particolare (l’ultimo in cui figura Franco Quadri, ma probabilmente già progettato da Fabio Mauri e Cesare Sughi) è l’evidente segno della discontinuità: il visivo conquista spazi e la scena internazionale si dilegua. In copertina un’importante opera di Paolo Scheggi: Oplà Stick; all’interno, il dossier ‘Dopo la scenografia’, a cura di Guido Boursier, Italo Moscati e Marisa Rusconi, con interventi di Jannis Kounellis, ‘Non per il teatro ma con il teatro’ (intervista di Italo Moscati); Paolo Scheggi, ‘Riempire un tempo come tempo di teatralità’ (intervista registrata di Marisa Rusconi); Michelangelo Pistoletto, ‘Far scattare nella gente meccanismi di liberazione’ (ricostruzione di Guido Boursier) e Mario Ceroli, ‘Un modo di far vivere le sculture’ (intervista a cura di Marisa Rusconi). Quattro artisti e quattro modi di intendere il rapporto con il teatro. In comune il rifiuto del termine scenografia e della pratica decorativa. All’attivo, esperienze diverse di collaborazione con il mondo del teatro; anzi, con i mondi del teatro. Kounellis con Quartucci nel quadro della programmazione del Teatro Stabile di Torino. «Ho iniziato a pensare non per il teatro ma con il teatro», risponde a Moscati,

i miei materiali non integrano, pretendono uno spazio proprio e, insieme, creano uno spazio complessivo che tende non già a far dimenticare la finzione del luogo teatrale quanto a rimetterla in discussione, a provocarla, a rivelarne le costrizioni che comporta. Inoltre questi materiali danno volutamente “fastidio” all’attore, lo obbligano a guardarsi intorno, a “difendersi”, a cancellare ciò che in lui appartiene alla tradizione del bel recitare…[90]

Dovremo ricordare queste parole al termine del nostro viaggio. Nello stesso numero, Paolo Scheggi ricorda il ‘Teatro delle mostre’ e la sua presa di consapevolezza della necessità del coinvolgimento dello spettatore nelle sue azioni artistiche. Di qui l’interesse per il teatro dalle situazioni più teatrali come La rosa purpurea al Piccolo di Milano e Materiali per i 6 personaggi con la regia di Lerici, fino alle azioni-teatro come Cancellazione di Isgrò e Oplà stick, un’azione-teatro, com’egli la definisce, realizzata ai Navigli di Milano della quale viene pubblicato uno stralcio testuale. Michelangelo Pistoletto, polemico contro ogni chiesa (e poi in particolare contro Bartolucci), parla del suo Zoo nelle azioni di strada,[91] della necessità di un lavoro assolutamente libero e in collettivo, fuori dai luoghi deputati. Fra tutti, Mario Ceroli è certamente il meno disponibile a mettere in discussione il proprio fare: «Non ho fatto altro che rifare per il palcoscenico le cose già presentate a molte delle mie mostre», operazione possibile, sostiene Ceroli, perché «il mio lavoro di scultore è sempre teatrale e ‘enviromentale’». Così in Riccardo III, in Orgia e così anche nel Candelaio. E così sarebbe dovuto essere anche con Ronconi nell’Orlando furioso, lo spettacolo che diventerà presto l’emblema di una nuova spazialità.

Sipario sceglie di intervistare gli artisti e non i teatranti. Nessun cenno, ancora una volta, all’attore se non nelle parole di Kounellis.

Il teatro è riuscito a trovare il punto di contatto con una scena aperta e con il mondo del visivo superando la presenza dell’attore? Certo, un aspetto del discorso torna a confermare questa ipotesi: l’attore, soprattutto in un contesto come quello italiano poco o nulla percorso da ipotesi di rifondazione del suo mestiere come era accaduto nel corso della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento, rischia di essere il terzo incomodo con il quale è difficile fare i conti. D’altra parte c’è chi, come Bartolucci, in nome del nuovo paradigma quale è la scrittura scenica, considera l’attore come segno fra i segni, corpo-voce desoggettivizzato, non autorialità autonoma ma elemento come altri, che al pari di altri partecipa della drammaturgia scenica.[92]La nuova critica sembra sposare questa linea e attestarsi su una nuova forma di intervento sugli spettacoli, che privilegia la scomposizione analitica dell’oggetto spettacolo scandita in codici, con un forte debito nei confronti dello strutturalismo francese.[93] Un modello di intervento critico nel quale i dettagli concreti dello spazio, degli oggetti, dei corpi, della musica assumono rilievo, mentre l’autorialità complessiva dell’opera sembra essere tramontata.

 

9. «Questo è proprio la gran festa di teatro»[94]

E invece, lo spettacolo del mese nell’agosto 1969, l’Orlando Furioso (cfr. <http://www.arabeschi.it/111-il-1969-la-storia-prosegue/>),  testo di Edoardo Sanguineti, regia di Luca Ronconi, scene di Umberto Bertacca, presentato al Festival di Spoleto, omaggiato da Sipario come lo «spettacolo più eccitante degli ultimi tempi», sembra raccontare un’altra storia.

Copertina, S., agosto 1969

La rivista gli dedica la copertina e un ampio inserto con interventi di Corrado Augias, Italo Moscati, Franco Quadri, Enzo Siciliano.[95] In particolare, Italo Moscati si occupa di proporre una riflessione sullo spazio e sul suo radicale ripensamento e Franco Quadri sullo spettatore partecipante (alla «scoperta del meraviglioso»). Ed ecco in sintesi alcuni degli aspetti che complessivamente Sipario mette in luce, con un entusiasmo critico che di rado si può leggere a proposito di spettacoli italiani di quel periodo: riutilizzo di un luogo non adibito al teatro (la chiesa sconsacrata di San Niccolò); rottura del diaframma fra palcoscenico e platea; spazio simultaneo (con azioni che accadono simultaneamente, mentre gli spettatori si trovano a selezionare cosa guardare); spazio dinamico (due palchi speculari e carrelli manovrati a vista dai tecnici che trasportano gli attori, mentre gli spettatori, coinvolti nei movimenti, partecipano attivamente alla ‘costruzione’ dello spazio stesso); elemento ludico e festivo sia nella partecipazione attiva dello spettatore, sia nella recitazione degli attori (sempre fuori dalla maschera della finzione e piuttosto vicini, a tratti, ai moduli del cabaret). Anche l’attore, infatti, «reinserito senza mediazioni nel ruolo di alimentatore di sogni», sembra avere trovato la sua giusta dimensione. La didascalia a un’immagine che vede Massimo Foschi nel momento della pazzia di Orlando, recita: «La scena va anche sottolineata come ricerca di una tecnica recitativa in cui si armonizzino gesto e parlato. Sono presenti, in apparenza richiami Grotowskiani e al Living, ma la sostanza è di assoluta originalità, rivelatrice di un profondissimo lavoro sull’attore».[96] Attori con formazioni e percorsi diversissimi gli uni dagli altri,[97] con stili e tecniche diverse (dall’immedesimazione di alcuni, allo straniamento di altri, alle tecniche del cabaret, alla provocazione motoria e mimica, alla recitazione rarefatta a quella fortemente caricaturale), tanto che Franco Quadri sembra proporre una festa gioiosa di tipi recitativi, atta ad esprimere un campionario di vasta umanità, capace di coinvolgere lo spettatore in una nuova forma di «comunicazione».[98] Una festa popolare, una grande azione collettiva scompagina le convenzioni e, insieme, fa tesoro di molti degli stimoli accumulati negli anni precedenti, ma senza più tensioni politiche. Sembra aprirsi una via liberatoria, gioiosa appunto. Una via possibile, della nuova regia.

 

10. A parte, ma non troppo. Bene, Quartucci, De Beradinis… e Ricci

Eppure, fra i protagonisti della nostra scena anti-rappresentativa ci sono artisti come Carmelo Bene, Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Carlo Cecchi e, in qualche misura, anche Carlo Quartucci (per la sua idea di regia come azione continua in scena), per i quali l’attore è al centro del discorso teatrale ed è ancora ‘autore’ in senso forte. Ora, in relazione esclusiva al tema di queste pagine, che cosa avviene nei loro percorsi di quanto abbiamo detto fin qui? Sebbene Sipario poco insista su questo aspetto, sul quale sarebbe invece interessante aprire un lungo dibattito, tuttavia nel 1969 non poteva ignorare completamente la questione. Nel dicembre, quando ormai la direzione è passata ufficialmente a Sughi, Sipario dedica il numero al tema ‘Dalla scenografia allo spazio scenico’,[99] che sembra entrare in dialogo, a distanza di sette anni, con quello del dicembre del 1962 dedicato alla ‘Scenografia’ e a cura di Guido Ballo. La scrittura scenica è ormai una realtà acquisita, che ha comportato un ripensamento dell’intero spazio scenico, in un coinvolgimento reale dello spettatore e in un parallelo allontanamento dai luoghi tradizionalmente deputati al teatro. Ne parlano ancora una volta rappresentanti della scena internazionale: Denis Bablet, René Allio, Hans Gussmann, Pilip Kumbatovic e Jacques Polieri e poi, nella sezione ‘Nuovi luoghi e nuovi materiali’, Joseph Svodoba, Michael Meschke e Richard Schechner. Perfettamente integrato nel numero anche se non inserito all’interno del dossier a tema, è lo spettacolo del mese, al quale Sipario come di tradizione dedica ampio spazio: il Barone di Münchhausen di Mario Ricci.

In questo contesto, sebbene in uno spazio limitato a poche pagine, Guido Boursier cura un articolo in cui propone un ragionamento su Bene, Quartucci, De Beradinis e Ricci.[100]

Immagini articolo Boursier, S., dicembre 1969

Innanzitutto, e ancora una volta, si parte da Artaud (e dal suo rifiuto non solo del testo ma anche della scenografia). Artaud come mentore, radice, provocazione. E il rifiuto della scenografia è giustificato in quanto negazione di tutto quanto non partecipi al processo di creazione ma si ponga «prima dell’avvenimento». Per questo, Boursier usa l’espressione «materiali scenici per l’azione», come già in precedenza avevano fatto Quartucci-Kounellis. «Materiali sempre pensati in vista del movimento, del tempo, di una quarta dimensione». E sempre per questo motivo Boursier non può accogliere all’interno del suo discorso il lavoro di Ceroli «che pensa da scultore […] a tre dimensioni», mentre include Kounellis e Quartucci dei Testimoni. Eppure, sono soprattutto Carmelo Bene e Leo de Berardinis a dare compiutezza al ragionamento di Boursier.[101]

Non ci si muove dentro una scena, ma contro una scena, si inciampa, si rompe, si accatasta e si porta la scena stessa sul pavimento riducendola a lastre di vetro (Don Chisciotte) che non sono soltanto suono e scricchiolio, ma una vera e propria presenza, una parte precisa di un mondo abbastanza chiaramente non provocatorio… ma mangiato, digerito, vomitato, un’iconoclastia che è molto vicina a un viscerale amore poetico.[102]

I materiali scenici per l’azione si rivelano materiali di inciampo, come era stato nei Testimoni di Quartucci e Kounellis, ma qui con un maggiore coinvolgimento del corpo dell’attore nella sua funzione autoriale. L’attore, che è il vero autore dell’azione scenica, entra in conflitto con gli oggetti, le scene, i cavi elettrici, gli specchi, i microfoni: così in Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene (cfr. <http://www.arabeschi.it/18-il-1966-azioni-funzioni-e-significati-per-nuove-mostre-un-nuovo-teatro/>), così nel Don Chisciotte (cfr. <http://www.arabeschi.it/110-il-1968-la-dimensione-politica-entra-nellopera/>), così anche nell’Amleto (cfr. <http://www.arabeschi.it/19-il-1967-i-nodi-vengono-al-pettine/>) e nel Macbeth di Leo de Berardinis e Perla Peragallo (il bidet nella scena di Macbeth, la luce delle torce elettriche con le quali gli attori si autoilluminano,[103] l’intricarsi dei cavi e dei microfoni che li costringono a strisciare o a rattrappirsi, i fluxus improvvisi).

Un anno prima Edoardo Fadini[104] era intervenuto su Sipario in relazione alla lettura scenica del Don Chisciotte da parte di Bene-Berardinis-Peragallo e aveva fatto uso di un’espressione particolare: «scrittura diretta», formula che intendeva contrapporsi alla interpretazione/rappresentazione di un testo per avvicinarsi alla tecnica del free jazz, sia per il procedimento improvvisativo, sia per la ricerca del suono «sfruttato fino a darne l’intera dimensione». Narrazione policentrica, continuo cambiamento di registro, «corruzione comunicativa, perorazione e didattica, fonazioni e mutazioni di livello ([…] con passaggio dalla lingua al dialetto e da questa all’espressione sonora pura)»[105] erano stati gli elementi dinamici della recita. La carta stagnola alle pareti, i vetri rotti che cospargono il palco, un pappagallo su un trespolo erano state le presenze, i «materiali scenici per un’azione» di disturbo. Insomma, la dialettica scena-attore poteva essere considerata attiva in questi casi, proprio perché i materiali scenici erano di inciampo[106] a una recitazione che metteva in discussione se stessa ad ogni passo. Se di scrittura scenica si può allora parlare anche in questi casi, è una scrittura che assorbe la contraddizione senza risolverla; il materiale scenico, lo spazio, l’oggetto così come il corpo entrano in un montaggio di elementi che, se non mira all’organicità, non pare essere affatto orfano di autorialità, della quale autorialità è forza costitutiva l’attore.

Eppure, quando Boursier scrive alla fine del 1969, Carmelo Bene ha già abbandonato le scene per dedicarsi al cinema; Leo De Berardinis e Perla Peragallo si sono trasferiti a Marigliano; Carlo Quartucci dopo Il lavoro teatrale (in gran parte progettato con Kounellis), portato alla Biennale di Venezia nell’autunno di quell’anno, abbandona il teatro istituzionale e presto avvierà l’esperienza di Camion. Intanto, Giuliano Scabia sta realizzando a Torino Azioni di decentramento, promosso dallo Stabile della città. Un’altra stagione, non solo per Sipario, si sta aprendo.


1 R. Gandolfi, ‘Linguaggio critico e nuovo teatro: Sipario negli anni Sessanta’, Culture teatrali, n. 7/8, 2002-2003, pp. 289-302, al quale rimando come riferimento fondamentale per un inquadramento complessivo della rivista nel suo rapporto con il Nuovo Teatro. Rinvio anche a D. Visone, La nascita del Nuovo Teatro in Italia. 1959-1967, Corazzano, Titivillus, 2010, per una puntuale contestualizzazione del dibattito critico in quegli anni.

2 Su Franco Quadri cfr.  R. Molinari, O. Ponte di Pino, C. ventrucci (a cura di), Il teatro che credi di conoscere. Le carte patafisiche di Franco Quadri e della Ubulibri, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2013; R. Molinari, J. Quadri, ‘Panta Franco Quadri’, Panta, n. 31, 2014.

3 Testimonianza di Franco Quadri, Radio Zolfo: Nobotalk, a cura di Altre Velocità e Fanny & Alexander, con Franco Quadri e Chiara Lagani, 12 febbraio 2010, <http://www.fannyalexander.org/archivio/archivio.it/radiozolfo5_home.htm> [accessed 15 October 2022], segmento 5.1.

4 ‘Vent’anni’, Sipario, n. 241, maggio 1966, p. 2. D’ora in avanti la rivista Sipario nei riferimenti bibliografici verrà indicata semplicemente con S. seguita da numero e data.

5 Su Valentino Bompiani rinvio a I. Piazzoni, Valentino Bompiani. Un editore italiano tra fascismo e dopoguerra, Milano, LED, 2007.

6 Cfr. su questo aspetto le preziose pagine di R. Gandolfi, ‘Linguaggio critico e nuovo teatro: Sipario negli anni Sessanta’.

7 La prospettiva della casa editrice e del suo direttore sul teatro è eminentemente letteraria. Le collane ‘Pegaso teatrale’, ‘Teatro contemporaneo’ e poi ‘Letteraria teatrale’ sono tutte dedicate alla letteratura (non solo italiana), mentre Sipario manterrà costante l’impegno di pubblicare almeno una novità drammaturgica per ciascun numero.

8 Rinvio, per esempio, all’inchiesta a cura di M. Rusconi, ‘Scrittori e teatro’, S., n. 228, maggio 1965 pp. 2-14 e n. 231, luglio 1965, pp. 2-10.

9 Senza voler con questo considerare unitari i percorsi dei critici qui ricordati, faccio riferimento a una definizione che la storiografia contemporanea tende a riconoscere: cfr. L. Mango, ‘La Nuova Critica e la recitazione’, Acting Archives Review, n. 3, maggio 2012, pp. 149-166. Rinvio anche ad A. Cacciagrano, Il critico teatrale come operatore di scrittura scenica. La critica teatrale italiana tra pratica organizzativa e utilizzo dei nuovi media nel Nuovo Teatro e in alcune esperienze dal 2003 ad oggi, Tesi di Dottorato, Università degli studi di Bologna, XXII ciclo, rel. M. De Marinis.

10 È certamente fra tutte le figure qui ricordate, quella con maggiore bibliografia di riferimento. Mi limito a citare: L. Mango (a cura di), ‘La scrittura scenica di Giuseppe Bartolucci’, Biblioteca Teatrale, numero speciale, n. 48, ottobre-dicembre 1998; G. Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, a cura di V. Valentini, G. Mancini, Roma, Bulzoni, 2007 (con V. Valentini, ‘Il dibattito sul Nuovo Teatro in Italia’); M. Martelli, 'Attraversamenti. Giuseppe Bartolucci nello spazio del teatro', Pesaro, Metauro, 2009. 

11 Rinvio al recente studio della figura di Wilcock critico a K. Trifirò, ‘«Quello che conta è che non sia un teatro stupido». Wilcock critico teatrale per Sipario (1967-1969)’, Culture teatrali. Studi, interventi e scritture per lo spettacolo, nuova serie n. 30, Annale 2021, pp. 234-253.

12 Rinvio a questo proposito al testo di G. Bartolucci, La scrittura scenica, Roma, Lerici, 1968, e allo studio di L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003.

13 G. Bartolucci, ‘La fortuna di Pirandello’ (pp. 52-54); E. Capriolo, ‘Il caso Brecht’ (pp. 54-56).

14 Nell’aprile del 1965 Mysteries and smaller pieces era stato censurato a Trieste  (cfr. <http://www.arabeschi.it/17-il-1965-nuova-arte-nuovo-teatro-pubblico-nuova-scena/>). 

15 F. Molina (a cura di), ‘Tre spettacoli astratti’, S., n. 183, luglio 1961, pp. 3-9 (all’interno: ‘Intolleranza 60’, intervista a Emilio Vedova e Luigi Nono; ‘Collage’ di Achille Perilli; ‘Scatola magica’, con interventi di Mauri, Consagra, Fontana, Turcato). Su Intolleranza 60 rinvio almeno a A. I. De Bendictis, G. Mastinu (a cura di), Intolleranza 1960 a cinquant'anni dalla prima assoluta, Venezia, Marsilio, 2011. Cfr. D. Vergni (a cura di), ‘Focus su Intolleranza 60’. <Intolleranza 1960, 1961 - Nuovo teatro made in Italy dal 1963 (sciami.com)[accessed 15 October 2022].

16 Così la sintetizza Mango: «la questione della recitazione nell’epoca della performance, a significare il particolare rapporto che lega la fisicità e la corporeità dell’attore con la scrittura scenica»: L. Mango, ‘La Nuova Critica e la recitazione’, p. 150.

17 ‘La scenografia italiana d’oggi’, a cura di G. Ballo, S., n. 200, dicembre 1962: al suo interno G. Ballo, ‘La scenografia italiana d’oggi’; L. Squarzina, ‘La scena e la pagina’; L. Pestalozza, ‘Influenza della scenografia sulla lirica’; A. Perilli, ‘Scenografia come azione e come programmazione’; ‘La parola agli scenografi’.

18 G. Ballo, ‘La scenografia italiana d’oggi’, pp. 3-19. Di Ballo ricordiamo almeno Pittori italiani dal futurismo a oggi, S.l., Edizioni Mediterranee, 1956.

19 Rinvio per l’analisi di questo intervento di Perilli all’articolo di Martina Rossi in questo Dossier: <http://www.arabeschi.it/loggetto-in-movimento-negli-spettacoli-astratti-di-achille-perilli-1960-1965-la-messa-scena-come-studio-dellavanguardia-storica/>. 

20 A. Perilli,Scenografia come azione e come programmazione’, p. 48.

21 Ibidem.

22 Lettera di Franco Quadri a Achille Perilli, Milano, 2 novembre 1962, Archivio Achille Perilli, Orvieto (Terni), Faldone ‘Corrispondenza’, cartella ‘Critici’, carta intestata Sipario. Rivista di teatro, scenografia, TV e cinema, dattiloscritta. Ringrazio Martina Rossi per avermi fatto consultare il documento.

23 Settimana Internazionale della Nuova Musica, 3-8 ottobre 1963. Cfr. L. Gozzi, ‘Teatro. Gruppo 63 a Palermo’, Marcatrè, n. 1, novembre 1963, pp. 13-16 e D. Visone, Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959-1967, pp. 39-41.

24 S. Bajini, ‘Teatralità: si riapre la discussione’, S., n. 213, gennaio 1964: «C’è una poesia dei sensi come ce n’è una per il linguaggio e […] questo linguaggio fisico e concreto a cui alludo è veramente teatrale solo nella misura in cui i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato», p. 4.

25 G.B., ‘Il Gruppo ’63 a Palermo’, S., 213, gennaio 1964, pp. 35 e 80.

26 Dewey, alla presenza di alcuni dei principali rappresentanti del teatro contemporaneo (fra gli altri, Laurence Oliver, Harold Pinter, Martin Esslin, Jack Gelber), aveva sostenuto la necessità di un teatro che non ruotasse intorno al testo drammaturgico, che ritrovasse il suo specifico in un linguaggio composito, in cui i vari elementi che partecipano fossero intesi come materiali posti in situazione, in cui il performer avesse un ruolo centrale in un’azione che muovesse dall’improvvisazione e in un legame stretto con la contemporaneità sociale.

27 Un ragionamento analogo era stato fatto da Bartolucci per Luigi Pirandello e per Bertolt Brecht.

28 Roma Teatro Parioli, 2-6 giugno 1965.

29 «Il Gruppo 63 si è messo in contatto con noi, ma è stato un fallimento […]. Il nostro rapporto con il Gruppo 63 è finito lì. In quel momento ci era molto chiaro che le avanguardie erano proprio i nostri nemici»: D. Orecchia, A. Petrini (a cura di), ‘Colloquio con Rino Sudano’, in ‘Materiali per una storia del teatro italiano di contraddizione’, L’asino di B. Quaderni di ricerca sul teatro e altro, n. 6, gennaio 2002, p. 150.

30 R. Rebora, ‘I novissimi’, S., n. 231, luglio 1965, p. 40.

31 Mi riferisco alle riflessioni, per esempio, presenti in C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Milano, Sansoni, 1984; e M. Schino, ‘Sul “ritardo” del teatro italiano’, Teatro e Storia, aprile 1988.

32 Molto precocemente Bartolucci era intervenuto nel 1961 sul Verri con un interessante articolo: «Ci preme soprattutto la rivalutazione dell’attore come personaggio centrale di sperimentazione, come personaggio-sonda della ricerca anticonvenzionale. Partiti senza convinzione eccessiva nei confronti del lavoro dell’attore italiano, eccoci sottomano una serie di attori, ancora in formazione, discontinui, esuberanti, bizzarri, chiassosi, ai margini della vita teatrale, come la si suole intendere generalmente, eppure freschi di esperienza brechtiana, piuttosto sensibili all’avanguardia magari senza connessione storica. Costoro mescolano danza e voce e canto, oppure prendono in giro il personaggio-commedia; e insomma con mezzi non ancora convincenti in modo assoluto, ma con spregiudicato senso del teatro, si riaccostano alla tradizione anti-teatrale europea, del tutto ignorata dai grandi complessi o dagli attori della grande convenzione scenica»: G. Bartolucci, ‘Dal grande attore all’attore sperimentale’, Il Verri, n. 4, agosto 1961.

33 In questo numero ricordo almeno G. Bartolucci, ‘Una storia di ricerche fra politica e costume’, S., numero monografico dedicato al ‘Teatro Cabaret nel mondo’, (a cura di) F. Quadri, n. 212, dicembre 1963.

34 ‘Rapporto sull’attore’, Inchiesta a cura di G. Bartolucci, F. Quadri, S., n. 236, dicembre 1965, p. 14. Cfr. su questa inchiesta M. Valentino, ‘Un’inchiesta di Sipario ’, Acting Archives Review, n. 3, maggio 2012, pp. 200-214.

35 Cfr. nota 29.

36 Fra gli altri, di rilevante interesse per il nostro discorso negli anni che arrivano fino al maggio 1966, ricordiamo i numeri speciali dedicati al ‘Teatro off di Broadway’ (n. 176 del 1960), al ‘Teatro russo contemporaneo’ (n. 188 del 1961), al ‘Teatro inglese contemporaneo’ (a cura di Luciano Codignola, n. 196/7 del 1962), alla ‘Scenografia italiana contemporanea’ (n. 200 del 1962), al ‘Teatro polacco’ (a cura di Franco Quadri ed Eugenio Barba, del 1962), a ‘Il Teatro della crudeltà’ (n. 230 del 1965) e ‘Ancora sulla crudeltà’ (numero doppio 222-223 del 1965).

37 L’ampio e fondamentale dibattito su Brecht e la polemica sulla sua lettura in Italia non trova spazio in queste pagine in quanto non tocca direttamente i temi ai quali è dedicato il Dossier; ricordo solo G. Bartolucci, ‘L’area formale brechtiana e le tecniche teatrali, oggi’, S., n. 219, luglio 1964.

38 Bisognerà invece attendere il 1968 per la prima edizione italiana di Il teatro e il suo doppio (Einaudi con curatela di Ettore Capriolo).

39 A un anno di distanza dall’intervista pubblicata in occasione del loro debutto al London Theatre con il Theatre of Cruelty e una compagnia sperimentale della Royal Shakespeare Company, Charles Marowitz e Peter Brook vengono nuovamente interpellati a proposito del loro Marat-Sade e dell’Amleto di Marowitz e più, complessivamente, del rapporto con Artaud «trampolino di lancio» per l’esplorazione in profondità e sul corpo dell’attore di un linguaggio teatrale che sia all’altezza dei tempi «turbolenti»: P. Brook, C. Marowitz, ‘Il teatro della crudeltà in Inghilterra’, S., n. 230, giugno 1965, pp. 45-47.

40 R. Jacobbi, ‘L’altra faccia della luna’, S., n. 183, luglio 1961, pp. 18-19.

41 Sulle reazioni della critica alle tournée del Living in Italia cfr. S. Margiotta, ‘Il Living Theatre in Italia: la critica’, Acting Archives Review, n. 3, maggio 2012, pp. 179-200.

42 A. Frateili, I misteri del Living Theatre, S., n. 229, maggio 1965, pp. 21-23.

43 Per un’analisi di questo articolo e dell’impaccio con cui Frateili tenta di descrivere la performance del Living, rinvio ancora una volta L. Mango, ‘La Nuova Critica e la recitazione’.

44 E. Capriolo, ‘Negli Stati Uniti’, S., n. 230, giugno 1965, p. 81.

45 E. Barba, Il teatro di Jerzy Grotowski, S., n. 232-233, agosto-settembre 1965, pp. 50-57 e 60, nella sezione ‘Ancora sulla crudeltà’. Si tratta di alcune pagine del testo appena pubblicato per Marsilio di E. Barba, Alla ricerca del teatro perduto, Venezia, Marsilio, 1965.

46 M. Rusconi (a cura di), Inchiesta ‘Gli scrittori e il teatro’, in S., n. 229, maggio 1965, pp. 2-14 e 35. Seconda parte: n. 231, luglio 1965; Conclusione con l’intervento di Rebora, n. 232, agosto-settembre 1965.

47 Qualche cosa di analogo accade anche nell’importante ciclo di seminari organizzato da Alessandro Fersen a Roma (Seminario internazionale di teatro), nel maggio-giugno 1965, di cui Marcatrè pubblica le relazioni nel 1966, ‘Teatro Oggi: Funzione e Linguaggio’, Marcatrè, n. 19-20-21-22, aprile 1966, pp. 129-180.

48 M. Rusconi (a cura di), inchiesta ‘Gli scrittori e il teatro’.

49 ‘Gli scrittori e il teatro’, S., n. 231, luglio 1965, pp. 2-10 (risposta di Fersen pp. 6-7; risposta di Fo p. 7).

50 ‘Otto autori come campioni’, S., n. 231, luglio 1965, l’intervento di Lerici alla p. 5.

51 R. Rebora, ‘Contributo alla confusione’, S., n. 232-233, agosto-settembre 1965, p. 3.

52 Rinvio alle pagine di D. Orecchia, Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959-1979, Milano-Udine, Mimesis, 2020, pp. 82-112.

53 È alla manifestazione veneziana anche il Living Theatre con Frankenstein. R. Rebora, ‘Venezia prosa 1965, tra l’avanguardia e le riesumazioni’, S., n. 235, novembre 1965, pp. 7-8. Nonostante le perplessità complessive, agli attori però viene riconosciuta «una capacità unica di espressione mimica e gestuale con la quale possono anche riuscire a indicare la presenza di una misura drammatica immedesimandosi fisicamente nello spazio drammatico» (p. 8).

54 Così titola M. De Marinis il paragrafo dedicato a questo spettacolo nel suo Il Nuovo Teatro 1947 –1970, pp. 162-167.

55 La bibliografia relativa a Zip è molto ampia. Mi limito a indicare i contributi più significativi: G. Bartolucci, La tensione formale di Carlo Quartucci, in Id., La scrittura scenica; F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (Materiali 1960-1976), Einaudi, Torino, 1977; M. De Marinis, Il Nuovo Teatro 1947 –1970, pp. 162-167; D. Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959-1967, pp. 77-92; S. Tomassini, Inclassificabile Zip: le maschere impersonale di Giuliano Scabia e Carlo Quartucci, <https://www.in-common.org/2018/05/09/inclassificabile-zip-le-maschere-impersonali-di-giuliano-scabia-e-carlo-quartucci-1965/> [accessed 15 October 2022]; D. Orecchia, Stravedere la scena.

56 E. Capriolo, ‘Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap e la grande Mam alle prese con la società contemporanea’, S., n. 235, novembre 1965, p. 10. Cfr. anche il già citato articolo di Augias di qualche mese dopo: «In Zip poi il rapporto mimetico si instaura a molteplici livelli. Nella frantumazione definitiva del linguaggio ‘congegno matto’ e nella delega della funzione ai gesti (mimo, balletto); nell’evocazione prelogica (Pollock) di situazioni abituali, stimolata attraverso elaborati neutri (influenza pop – Rauschemberg, anche nelle scenografie); nella distruzione dello spazio scenico tradizionale ovvero nella creazione di un rapporto polivalente tra spettatore e spettacolo (Mejerchol’d, Artaud e poi il Bauhaus, Gropius); nella recitazione – anche qui clownescamente stilizzata – delle dieci maschere, nonostante il rovesciamento semantico da maschere chiuse a maschere aperte»: C. Augias, ‘Approssimazioni successive per una fisiologia dell’avanguardia’, p. 94.

57 C. Quartucci, G. Scabia, ‘Per un’avanguardia italiana’, S., n. 235, novembre 1965, pp. 11-12.

58 «[P]er far cambiare, rompere il corpo, tipo... tipo Buster Keaton, Char­lot... Facevo con Leo che si rompeva le scatole, con Rino che era pigro per svegliarlo... E facevo un laboratorio per rompere proprio il cor­po, con la musica di Stockhausen, con le diapositive dell’informale, le macchie...»: parole di Carlo Quartucci riportate in D. Orecchia, Stravedere la scena, p. 75.

59 «A che tende questo gioco di ritmi spezzati? Tende a proporre il rapporto personaggio-situazione non più secondo i canoni di una ricostruzione in chiave naturalistica o in chiave di pura astrazione, ma secondo un metodo che per comodità io mi ostino a definire di ‘oggettivazione realistica’, il cui unico scopo è quello di impedire che l’attenzione dello spettatore finisca unicamente col ridursi alla ricerca di un modello verosimile a quanto sta accadendo sulla scena, o al contrario consideri l’accadimento scenico in una dimensione totalmente disancorata dalla realtà (perdendo così di vista il suo valore di ‘riflesso di una società’)»: C. Quartucci, Intervento senza indicazione di titolo su Libere stanze, S., n. 247, novembre 1966, p. 40.

60 Cfr. a questo proposito: L. Cavaglieri, ‘Verso la “libertà totale della scena”: Cartoteca di Carlo Quartucci’; F. Natta (a cura di), Teatro e teatralità a Genova e in Liguria. Drammaturghi, registi, scenografi, impresari e organizzatori, Bari, Edizioni di Pagina, 2012, pp. 121-142.

61 Alberto Boatto, che nel 1967 pubblicherà proprio con Lerici il suo volume dedicato alla Pop Art americana (A. Boatto, La Pop Art in USA, Lerici, Milano, 1967), aveva dato un’anticipazione del capitolo dedicato a Segal: A. Boatto, ‘La percezione dell’anonimo in Segal’, Marcatrè, n. 16-17-18, 1965, pp. 323-329.

62 C. Augias, G. Bartolucci, M. Bellocchio, C, Bene, C. Berberian, S. Bussotti, A. Calenda e V. Gazzolo, E. Capriolo, L. Cavani, L. De Berardinis, M. De Vita e N. Ambrosino, E. Fadini, R. Guicciardini, R. Lerici, S. Liberovici, E. Luzzati, F. Nonnis, F. Quadri, C. Quartucci e il Teatro Gruppo, L. Ronconi, G. Scabia, A. Trionfo, ‘Per un convegno sul nuovo teatro’, S., n. 247, novembre 1966, pp. 2-3.

63 G. Boursier, ‘A convegno il teatro di domani’, S., n. 255, luglio 1967, p. 6.

64 Il 22 febbraio 1968 Gianfranco De Bosio lascia la direzione del Teatro Stabile di Torino. Dopo un periodo di transizione, il 12 giugno 1968 viene ufficialmente varata per la stagione successiva una Direzione Collegiale composta da Daniele Chiarella (che presto abbandonerà), Giuseppe Bartolucci, Federico Doglio, Gian Renzo Morteo, dal direttore organizzativo Nuccio Messina. Delle riflessioni di Bartolucci e della sua linea critica è importante documento B.B., ‘Per un nuovo “senso dello spettacolo”’, Teatro, 2-3, estate-autunno 1968, pp. 75-82.

65 La sede della redazione torinese nonché dell’amministrazione della rivista è all’Unione culturale, di Via Cesare Battisti, spazio diretto da Fadini, che aveva ospitato il Living, Carmelo Bene, Quartucci e dove si era anche in gran parte organizzato e in parte svolto il Convegno di Ivrea. Cfr. per questa rivista A. Campanella, Storia di una rivista teatrale: “Teatro” (1967- 1971), Tesi di laurea, Relatore Chiar.mo Prof. Arnaldo Picchi; sessione invernale a.a. 1990-91.

66 La causa fu probabilmente la rottura del gruppo che aveva promosso il Convegno di Ivrea, nel momento in cui Bartolucci accettò di dirigere il Teatro Stabile di Torino, in qualche modo contraddicendo alcuni dei presupposti che avevano animato la loro proposta che si intendeva anche come alternativa agli Stabili: cfr. M. De Marinis, Il Nuovo Teatro. 1947-1970, pp. 178-179. Cfr. anche G. Bartolucci, ‘Lettera a Franco Quadri’, manoscritta con lettera dattiloscritta allegata, Torino, giugno [1968], Fondo Franco Quadri, Archivio Bompiani, Milano Archivio Franco Quadri, scatola 4011 Corr. A-B.

67 M. Esslin, ‘Happening e teatro del futuro’, S., n. 249, gennaio 1967, pp. 7-8.

68 Nello stesso numero viene anche pubblicata la presentazione di una mostra di Lebel a Parigi del 1966, in idem, pp. 9-13.

69 G. Bartolucci, ‘Appunti su US’, S., n. 249, gennaio 1967, pp. 17-19.

70 H. Rosenberg, ‘Arte-oggetto e arte-evento’, S., n. 251, marzo 1967, p. 17.

71 F. Quadri, ‘La protesta del Living nel segno di Antonin Artaud’, S., n. 252, aprile 1967, pp. 30-32.

72 Fondamentale numero ‘Alla ricerca del nuovo teatro’ vede gli interventi di C. Augias, ‘Il teatro come metafora escatologica’; A. Arbasino, ‘Situazione della critica’; L. Godman, ‘Genet e Gombrowicz’; M. Manuelli, ‘Un mese con Grotowski’; ‘L’Antigone del Living e la critica italiana’ a cura di F. Quadri; ‘Una poesia di Judith Malina’; F. Colombo, ‘Nuovi mutanti e nuova musica’; C. Augias, ‘Il caffè come luogo teatrale’; E. Fadini, ‘New American Cinema Exposition’., S., n. 254, giugno 1967.

73 G. Bartolucci, ‘Per una lettura contemporanea dei manifesti teatrali futuristi’, S., n. 260, dicembre 1967, p. 13. Il «gesto futurista», come di lì a poco Bartolucci scriverà, se ingloba «materiali di vita ed elementi stilistici propri alle ricerche di queste ultime generazioni» e si amplia «o a immagine-suono o a corpo-rione» manifesta tutta la sua contemporaneità: G. Bartolucci, Il gesto futurista. Materiali drammaturgici 1968-1969, Roma, Bulzoni, 1969, p. 2.

74 Per esempio, l’inchiesta: ‘Il momento della negazione?’, del settembre 1968, con risposte di Arbasino, Augias, Baldelli, Bartolucci, Capriolo, Cesarano, Chiaromonte, Damiani, Davico Bonino, De Filippo, Drusi, Filippini, Gaslini, Kezich, Lane, Leonetti, Luzzati, Maraini, Moravia, Moscato, Pistoletto, Rebora, Siciliano, Vallone, Squarzina, Tian, Vergine, Wilcock, Zampa, Dorfles, De Bosio, Gassman. Le due voci del mondo artistico sono poi particolarmente critiche. Pistoletto si chiede come poter ri-attivare momenti di autenticità in un mondo dominato dall’oggetto (p. 16) e Lea Vergine che esordisce con «Il teatro è diventato l’esempio più vistoso della mercificazione della cultura» (p. 18).

75 La copertina di Crepax mette in luce un’attenzione probabilmente di Quadri stesso verso le arti grafiche e il fumetto, che rompe con le tradizionali copertine fotografiche tipiche di Sipario.

76 F. Quadri, ‘Il rito-manifesto della rivoluzione non violenta’, S., nn. 268-269, agosto-settembre 1968, pp. 30-35. Cfr. M. De Marinis, Il Nuovo Teatro 1947 –1970.

77 ‘America urrà. Il teatro della rivolta’, a cura di A. Rostagno, redazione F. Quadri, S., n. doppio 272, dicembre 1968. Molti dei materiali qui pubblicati sono traduzioni di interventi già pubblicati sulla Tulane Drama Review che, appunto per questo, viene ringraziata esplicitamente (p. 19).

78 R. Kostelanetz, ‘Il Teatro dei Mezzi Misti’, in S., n. 272, dicembre 1968, pp. 132-136. Riporto lo schema di Kostelanetz: 1) happening puro: spazio aperto, tempo variabile, azione variabile; 2) ambiente cinetico: spazio chiuso, tempo variabile, azione fissa; 3) happening da palcoscenico: spazio chiuso, tempo variabile azione variabile; 4) rappresentazione da palcoscenico spazio chiuso, tempo fisso, azione fissa. Richard Kostelanetz aveva già aperto il dossier con un saggio Il teatro americano è spettacolo non letteratura. Sempre nel 1968 era stato anche pubblicato Happening di M. Kirby (Bari, De Donato) e R. Schechner, ‘6 axioms for Environmental Theatre’, Drama Review, vol. 12, no. 3, Architecture/Environment (Spring, 1968), pp. 41- 64 [trad. it. Cavità teatrale, Bari, De Donato, 1968].

79 A. Leonardi, ‘Nuovi contributi al disordine (per uno spettacolo che ci coinvolga). Bussotti show apres Sade’, S., nn. 261-262, gennaio-febbraio 1968, pp. 11-13.

80 A. Moravia, F. Colombo, ‘Nuovi contributi al disordine (per uno spettacolo che ci coinvolga) Grande angolo sogni & stelle Mario Schifano al Piper Club di Roma’, idem, pp. 14-17.

81 M. Silvera, ‘Milano-Fluxus’, S., n. 263, marzo 1968, p. 18.

82 E. Capriolo, ‘Un funerale per il vecchio teatro. I testimoni di Tadeusz Rozewicz’, S., n. 273, gennaio 1969, p. 25.

83 I. Moscati, ‘Velleità rivoluzionarie di un’elegia per diversi. Orgia di Pier Paolo Pasolini’, S., n. 273, gennaio 1969, p. 27.

84 E prosegue: «[…]. Del resto avevo notato in questi ultimi numeri (a parte quello di dicembre) una certa stanchezza, una voglia meno buona e forse anche una maggiore confusione negli obiettivi da colpire o da segnalare che rischiava di sminuire … il lavoro fatto che è invece mordente, aspro, ingrato e che ha contribuito a fare di te (ma anche di me, come mi avvedo) uno dei personaggi più antipatici del teatro italiano» (lettera di Corrado Augias a Franco Quadri, Roma, 9 marzo 1969, Fondo Franco Quadri, Archivio Bompiani, Milano, scatola 399, dattiloscritto). «Da Bompiani mi dividevano due generazioni e certamente la concezione del teatro; e infatti me ne andai quando il conflitto parve farsi insanabile e prevalse in me il bisogno di una crescita in totale indipendenza» (F. Quadri, ‘Fare riviste di teatro. Racconto di un’esperienza’, Art’O, n. 0, aprile 1998, pp. 41-42).

85 C. Quartucci, ‘Le ragioni della scena. Nota ai Testimoni’, S., n. 273, gennaio 1969.

86 ‘Carlo Quartucci parla della regia de I testimoni di Różewicz al Teatro stabile di Torino’, Qui arte contemporanea, n. 5, marzo 1969, p. 27.

87 Ibidem.

88 E. Capriolo, ‘Un funerale per il vecchio teatro.

89 Ivi, p. 26.

90 J. Kounellis, ‘Non con il teatro ma per il teatro’, S., n. 276, aprile 1969. È interessante che in questo articolo Kounellis insista sul fatto che la vera sfida non sia quella di portare le proprie opere dalle gallerie in teatro, né di fare delle scenografie (rischio in cui cade Ceroli), bensì di dialogare con i teatranti, trovando un punto di contatto.

91 Ricordiamo le sue manifestazioni più importanti: a Vernazza con L’uomo ammaestrato (15 agosto 1968); il Teatro Baldacchino (15 dicembre 1968 nelle strade di Torino); alla galleria nel centro di Napoli Il principe pazzo (28 febbraio 1969) e il Tè di Alice nella stessa galleria il 1 marzo 1969; L’uomo ammaestrato (Amalfi il 5 ottobre 1969). Nel 1970 Germano Celant dedicherà a Pistoletto un ampio inserto su Sipario (291, luglio 1970).

92 Faccio qui riferimento alle riflessioni di Bartolucci ampiamente commentate da Mango nel già citato ‘La Nuova Critica e la recitazione’. Così conclude: «L’attore, nel suo [di Bartolucci] discorso, è corpo di scena, segno tra i segni della visione teatrale. Il suo è, dunque, un modo eccentrico di produrre un discorso sulla recitazione: la corporeità sostituisce di fatto la recitazione e il gesto/voce l’attore. In questo modo la lettura critica ribadisce e in fondo enfatizza l’ipotesi di scrittura scenica come scrittura di un’altra drammaturgia che tutto ingloba e tutto tratta come segno della scena» (ivi, p. 166).

93 Certo, uno fra i primi emblematici esempi di questo tipo era stata la già citata ‘recensione’ all’Antigone del Living di Franco Quadri, anche se sul finale soprattutto Quadri faceva appello a una forte autorialità collettiva del Living. Secondo il principio di scomposizione analitica per codici, Franco Quadri aveva commentato le reazioni della critica italiana all’Antigone del Living: F. Quadri, ‘L’Antigone del Living e la critica italiana’, S., n. 254, giugno 1967, pp. 12-15.

94 È il titolo dell’inserto dedicato all’Orlando Furioso, S., n. 280, agosto 1969, pp. 18-23.

95 C. Augias, ‘Il trionfo del meraviglioso’; I. Moscati, ‘Un nuovo congegno scenico’; F. Quadri, ‘Il pubblico chiamato al gioco’; E. Siciliano, ‘Un tuffo nel sogno’. In parte da qui deriverà la pubblicazione dell’Orlando Furioso, riduzione di E. Sanguineti, regia di L. Ronconi, a cura di G. Bartolucci, Roma, Bulzoni, 1970.

96 F. Quadri, ‘Il pubblico chiamato al gioco’, p. 22.

97 Nel cast, fra le attrici: Mariangela Melato (che aveva lavorato con Dario Fo), Ottavia Piccolo (negli anni precedenti con Luigi Squarzina e poi con Giorgio Strehler), Maria Grazia Grassini (che aveva avuto esperienza accanto a Carlo Quartucci); Rosabianca Scerrino (accanto a Carmelo Bene in molte occasioni); fra gli attori: Armando Pugliese (allievo di Orazio Costa Giovagnoli all’Accademia d’Arte drammatica), Aldo Puglisi (già attore con Ronconi), Massimo Foschi (già protagonista nella Fedra per la regia di Ronconi), Duilio Del Prete (attore e cantautore, legato al gruppo del Cantacronache e della Compagnia Nebbia Club).

98 F. Quadri, ‘Il pubblico chiamato al gioco’, p. 22.

99 La parte centrale del numero dedicata al tema ‘Dalla scenografia allo spazio scenico’ era così suddivisa: 1. Nasce la scenografia moderna (da Appia a Copeau fino a Prampolini); 2. Così oggi, le teorie della scena (Bablet, Allio, Gussmann, Kumbatovic e Polieri); 3. Nuovi luoghi e nuovi materiali (Svoboda, Messcke, Schechner, Bene, Quartucci, De Berardinis, Ricci), Un progetto (Kounellis); 5. La scena racconta se stessa.

100 G. Boursier, ‘Bene, Quartucci, De Beradinis, Ricci non c’è scena né scenografia (una nota di Guido Boursier)’, S., n. 284, dicembre 1969, pp. 58-62.

101 Per un ampio e articolato discorso su Ricci rinvio al saggio di Cristina Grazioli su questo numero:<http://www.arabeschi.it/animare-la-scena-figure-luce-materia-nel-teatro-di-mario-ricci-dagli-anni-apprendistato-al-riconoscimento-sulla-europea-1962-1970/>.  

102 Ivi, p. 62.

103 Per una riflessione su questo aspetto particolare della luce, in questo e in altri spettacoli del periodo, rinvio a C. Grazioli, Proiezione, spazio, materia: comporre e scomporre con la, luce, in V. Valentini, Nuovo Teatro Made in Italy, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 325-353.

104 E. Fadini, ‘La scrittura diretta’, S., n. 271, novembre 1968, p. 14.

105 Ibidem.

106 È interessante notare che Corrado Augias, in un intervento su Teatro, aveva individuato proprio nell’«impedimento» l’elemento chiave caratterizzante il teatro di Carmelo Bene di questi anni; l’impe­dimento, che assume le forme di balbettamento recitativo, afasia, rinvio continuo dell’azione, eccesso o mancanza (di luce, di suono), ostacolo della vista e dell’ascolto (per esempio la vetrata in Nostra Signora dei Turchi), ostinata ripetizione: C. Augias, ‘L’antiphysis di Carmelo Bene’, Teatro. Rassegna trimestrale di ricerca teatrale diretta da Bartolucci, Capriolo, Fadini, n. 2, 1967/1968, pp. 86-90.