Animare la scena: figure, luce, materia nel teatro di Mario Ricci. Dagli anni di apprendistato al riconoscimento sulla scena europea (1962-1970)

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

L’approfondimento della poetica di Mario Ricci (1932-2010), porta l’attenzione sugli anni di formazione e delle prime creazioni, che coincidono con il decennio indagato dal presente dossier, gli anni Sessanta. Gli spostamenti geografici del giovane Ricci segnano il punto di avvio del contributo: la Parigi della fine degli anni Cinquanta, dove non è ancora emerso il suo interesse teatrale ma dove riceve stimoli creativi di grande portata; il decisivo viaggio a Stoccolma e l’‘apprendistato’ presso il maestro marionettista Michael Meschke; il rientro (1962) nella Roma effervescente di inizio anni Sessanta. L’orizzonte di riferimento è dunque quello di un contesto di formazione che non prescinde dal paesaggio europeo. Questi episodi biografici segnano in qualche modo anche la seconda coordinata del saggio: il gravitare dell’opera di Ricci, in particolare ai suoi esordi, intorno all’universo delle Figure (nella declinazione della ricerca sui nuovi linguaggi) e contemporaneamente intorno alla dimensione luministica. Centrali quindi i motivi della ‘presenza scenica’ alternativa all’attore in carne e ossa (oggetti, materiali) e la loro ‘attivazione’ (animazione) grazie alla luce. Da tutto il percorso emerge l’importanza fondamentale della collaborazione di Ricci con gli artisti visivi. A partire dal lavoro da noi svolto nell’ambito del progetto Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013 (Bulzoni, 2015) e dai Focus su Illuminazione e Moby Dick realizzati per il portale «Sciami», si è cercato di ricostruire il clima creativo che influenza le prime opere di Ricci, lasciando emergere i procedimenti che rimarranno coordinate imprescindibili lungo tutto il percorso dell’artista (in particolare il principio del collage, la sua ‘variante’ nel montaggio, la ‘tecnica’ e i materiali come portatori di drammaturgia). A differenza che nei contributi sopra citati, basati in larga misura sulla bibliografia esistente in merito, ci si è qui appoggiati in modo determinante ai documenti conservati nell’Archivio Mario Ricci, curato dal figlio dell’artista Filippo Ricci (http://marioricci.net).

The essay on the poetics of Mario Ricci (1932-2010) focuses on his formative years and his first creations, which coincide with the decade investigated by this dossier, the 1960s. The travels of the young Ricci mark the starting point of the contribution: Paris at the end of the 1950s, where his interest in theatre had not yet emerged but where he received far-reaching creative impulsions; the decisive trip to Stockholm and the ‘apprenticeship’ with master puppeteer Michael Meschke; the return (1962) to the effervescent Rome of the early 1960s. The horizon is therefore that of a context that does not disregard the European landscape. These biographical episodes also mark in some way the second coordinate of the essay: the gravitating of Ricci’s work, particularly in his early years, around the universe of Puppetry (in the declination of the research about new languages) and at the same time around the dimension of ‘lighting’. One of the main topics is that of a ‘presence’ alternative to the actor (objects, materials) and its animation thanks to light. In this context, Ricci’s collaboration with visual artists is fundamental. Starting from the work we carried out within the project Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013 (Bulzoni, 2015) and from the Focus on Illuminazione and Moby Dick made for the portal «Sciami», we tried to reconstruct the creative climate influencing Ricci’s first works, letting emerge the procedures that will remain essential coordinates throughout the artist’s life (in particular the principle of collage, the montage, the ‘technique’ and the materials as elements of the dramaturgy). Unlike the above-mentioned contributions, which were largely based on the existing literature on the subject, here we have relied heavily on the documents kept in the Archivio Mario Ricci, curated by the artist’s son Filippo Ricci (http://marioricci.net).


Mario Ricci al Teatro Orsoline 15, 1965, foto Riccardo Orsini

 

1. Esordi. Viaggi e folgorazioni. La marionetta

Gli anni Cinquanta, per la gioventù del mondo, erano un’âge d´or per scoprire l’Europa che risorgeva nel dopoguerra. Le strade erano piene di auto-stoppeurs con il pollice in aria, in cerca di macchine generose. Che cosa cercavamo sulle strade europee, da un paese all’altro sotto un sole impietoso, da lingue e culture sconosciute? Credendo di cercare l’avventura, in fondo cercavamo noi stessi. La mia ‘Odissea’ mi portava sempre di nuovo a Parigi, da là a Reims, da Reims a Satuna per Bagur, piccolo villaggio sulla Costa Brava in Spagna. Questi tre luoghi avevano in comune che ci stavano Michel e Nellie Laval, una famiglia francese di Reims; amici in arte e artisti di tutti i generi, attori, pittori, scrittori… varcavano le porte sempre aperte dei Laval. Fra tanti ospiti c’era un giovane italiano, Mario Ricci.[1]

Così Michael Meschke ricordando Mario Ricci.

Seguiamo una traiettoria eccentrica per avviare questo cammino di riflessioni intorno all’opera dell’artista romano, con l’intenzione di mettere in evidenza la spinta verso il confronto con ciò che accade Oltralpe e l’interesse per pratiche teatrali che attingono dalle altre arti, in particolare quelle figurative.

Continua il grande marionettista svedese:

Sembrava un po’ perduto […], incerto di se stesso salvo che sul voler diventare artista… […] Si parlava del mio teatro di marionette a Stoccolma dal repertorio non scontato. Curioso, Mario voleva venire in Svezia ‘per guardare’. Altroché ‘guardare’! Arrivato a Stoccolma, il ‘guardare’ si trasformava subito in un impegno. […] I pochi collaboratori lavoravano con paga simbolica – giorno e notte. L’arte delle marionette era una novità per il paese. Per sopravvivere alla concorrenza di 25 altri teatri (d’attori) volevamo attirare un pubblico non ‘per marionette’, con un repertorio di autori per adulti, sorprendente. I collaboratori per manipolare marionette me li dovevo cercare fra chi mostrava interesse, possibilmente passione, come Mario Ricci. Doveva stare un momento, è rimasto più di un anno, credo. Parlo della stagione 1961/1962. […] Mario, mentre mi dava due mani in più quasi gratuitamente, imparava, recitando davanti ad un pubblico come fosse stato un professionista. Aveva così la possibilità di studiare tutta la tecnica cha sta dietro ad uno spettacolo: la costruzione di personaggi, corpi, articolazioni, tecniche diverse, luci, scenografie…

Mario Ricci è a Varsavia nel giugno 1962 come membro della compagnia durante una tournée al Teatro Lalka. Lo conferma il programma del Festival.[2] Recita come attore il ruolo di un marionettista ambulante tormentato da angeli e diavoli mentre tenta invano di presentare il dramma Orlando furioso

Mario Ricci, Marionetteatern di Michael Meschke, Festival delle Marionette UNIMA, Varsavia, 1962, programmaMario Ricci, Marionetteatern di Michael Meschke, Festival delle Marionette UNIMA, Varsavia, 1962, programma

Nel 1962 la compagnia allestisce anche il Principe di Homburg di Kleist.

Mario Ricci con l’ensemble de Il Principe di Homburg di Kleist, Marionetteatern di Michael Meschke, Stoccolma, 1962

«Mario era membro della compagnia a tutti gli effetti in questa sua sfida più importante: perché le maestose marionette ‘ad aste’ erano difficili da manipolare, ultra-leggere, grandi, con bastoni di alluminio, in una messa in scena molto impegnativa». 

La testimonianza di Meschke esprime anche una nota di rimpianto per non aver seguito poi l’attività dell’artista.

Lo stesso Ricci lascerà trapelare una certa amarezza per il mancato riconoscimento del suo lavoro, per esempio nella Relazione per il XIV Festival di Parma (1966).[3]

Il confronto con le presenze meccaniche e artificiali[4] appare come una via scarsamente percorsa dalla ricerca italiana di quegli anni, ponendo il lavoro di Ricci in una posizione del tutto singolare. Non vogliamo insinuare che l’esordio con le figure comprometta la sua carriera (dopo un decennio di frequentazione di questi linguaggi i riconoscimenti ci furono, seppure più all’estero), ma potrebbe essere che l’adozione di questi codici così fraintesi e per i quali sono necessari apertura di sguardo e lenti critiche complesse, abbia almeno parzialmente a che fare con il posto che la critica e la storiografia hanno riservato al nostro artista. A una valutazione d’insieme si può forse ipotizzare che la ricerca e la critica (così intrecciate all’epoca) non abbiano incoraggiato due ambiti non al centro del dibattito: quello delle ‘figure’, con la relativa messa in discussione della presenza dell’attore, e quello della sperimentazione sulle potenzialità della luce come drammaturgia, che è l’altro ‘fuoco’ dell’interesse di Ricci. Una linea, quella luministica, che in quegli anni riceve grande attenzione dall’ambito delle arti visive; si pensi alle sperimentazioni di Umberto Bignardi, che con Ricci collabora, ma anche alle opere di Fontana, Munari, Lo Savio, Nannucci…[5]

Intrecciamo i ‘fili’ della memoria di Michael Meschke con quelli di Ricci.

In una preziosa intervista[6] realizzata solo un anno prima della scomparsa, Ricci ricorda come, nonostante fosse determinato a starsene lontano da Roma, il destino lo portò ben presto in tournée al Teatro Valle nel giugno 1961. In quale contesto? Non quello della sperimentazione secondo i canoni allora correnti, ma un’avanguardia ‘implicita’ che è quella propria dei generi cosiddetti ‘minori’. Si trattava di una manifestazione iscritta nei programmi di UNIMA Internazionale nella quale ruolo fondamentale ebbe Maria Signorelli, grande signora, artista e promotrice delle arti della marionetta.[7] Il «Giornale dello Spettacolo» in un consuntivo di fine anno ricorda le iniziative in questione come «l’avvenimento dell’anno».[8] Vi compaiono artisti che furono snodi del rinnovamento di questi generi. Nello stesso contesto si tiene un importante convegno a Frascati. Gli interventi vedono i maggiori esponenti di questo universo a livello mondiale; negli indici, tra i partecipanti, definito «attore della compagnia di Michael Meschke» vi è Mario Ricci.[9]

È lo stesso universo che l’anno successivo porterà Ricci con la compagnia di Meschke a Varsavia; come testimoniato dalle immagini del programma sopra citato (cfr. figura 1).

Non sappiamo che cosa vide in queste occasioni, ma non c’è dubbio che furono opportunità per conoscere tradizioni e invenzioni di culture e paesi diversi. Non dimentichiamo che in un mondo spaccato tra est e ovest, UNIMA consentiva agli artisti di viaggiare oltrecortina.[10]

Il viaggio di Mario Ricci da Roma a Parigi e da Parigi a Stoccolma sbalza il confronto tra un’Italia sentita chiusa, provinciale e l’Europa; ma anche lo scarto tra un mondo teatrale ancora fissato su separazioni di valore di generi e un contesto in cui la Marionetta si è già aperta: alle arti visive in primis, ma anche a musica, danza, cinema, video… (al tema delle contaminazioni tra figure e altre arti, in particolare cinema e tv, era dedicato il congresso UNIMA 1962 a Varsavia).

Ancora un tassello in questo excursus marionettesco: nell’archivio Ricci è conservato un interessante opuscolo scritto dallo stesso artista,[11]Eternité et modernisme du théâtre de marionnettes. Un fine ritratto di Meschke, con immagini e un cappello editoriale che definisce Ricci «auteur, poète et scénariste autan que décorateur réputé» alla scoperta di uno dei più notevoli teatri di marionette contemporanei, il Marionetteatern, dove «per sei mesi Ricci ha condiviso preoccupazioni, emozioni e lavoro quotidiano».[12]

Tra le altre cose, Ricci è molto colpito dal sistema economico-artistico svedese (Meschke ha fondato nel 1958 un Teatro di marionette con sovvenzioni statali).

Una delle immagini a corredo dello scritto mostra Ricci in scena in Bagatelle. L’autore sottolinea la presenza a vista del marionettista. Altri motivi messi in evidenza sono il lavoro d’équipe, dove tutti discutendo partecipano alla creazione, e il fatto che ogni marionetta (dunque anche le sue peculiarità tecniche) serva una specifica drammaturgia. L’importanza del lavoro collettivo acquisirà sempre più peso nel lavoro di Ricci (anche quando il gruppo dei collaboratori si definirà stabilmente, come ricorda Luigi Perrone evidenziando il procedimento di costruzione dello spettacolo a partire dall’apporto di ogni membro).[13] Si menziona l’invito al Teatro Valle del 1961, quando il Marionetteatern esce per la prima volta dai confini svedesi. La recensione di «Paese sera» parla di «una ricerca di stile raffinata e intelligente», loda «l’ampio repertorio e l’alto livello artistico». Ma la critica, scrive Ricci con un certo rammarico, è rimasta colpita da spettacoli più tradizionali: «une tradition pour moi un peu dépassèe»,[14] commenta.

Tanto dalle parole che dalle immagini non è difficile cogliere assonanze con le creazioni che Ricci concepirà a Roma di lì a poco.

Michael Meschke, Nocturne, 1953, foto Archivio Muzeum Loutkářských Kultur, Chrudim (Reubblica Ceca)

Ricordiamo che Meschke nel 1964 crea un Ubu roi memorabile, dove la marionetta si mescida con la deformazione del corpo dell’attore grazie a trucco e costumi, a partire dai disegni di Franciszka Themerson.

Michael Meschke, Ubu Roi, Marionetteatern Stockholm, Sweden, 1964 (pubblicata in “Character and Play in the Puppet Theater of the World”, edited by UNIMA, 1977)

Si possono ravvisare delle consonanze con le figure ritagliate dalla carta o cartone ricorrenti dalla metà degli anni Sessanta negli spettacoli di Ricci. Abbiamo insistito su questo esordio, molto citato e non perlustrato, anche perché è lo stesso Ricci a ricordarlo immancabilmente nelle sue note biografiche e artistiche. L’incontro con il Maestro delle marionette assume il segno di un episodio ‘rivelatore’.

Ma torniamo al 1959. Che cosa fa a Parigi, chi frequenta, cosa vede?

Ricci nomina come luogo dell’incontro con Meschke la casa del pittore Jean Claude Vignes. L’artista romano racconta come si trovò dentro la grande scena dell’arte internazionale che faceva capo a Parigi. Per mantenersi lavorava come corniciaio presso Rona Weingarten:[15] strategico punto d’osservazione e varco al mondo degli artisti (e al mondo). Poi Stoccolma. Il giovane Ricci è non solo alla ricerca di una professione che gli dia da vivere ma anche di una attività che gli nutra lo spirito; non sembra avere una vocazione per un linguaggio preciso. In questo terreno non ancora definito ed effervescente assorbe tutto quel che vive, mette alla prova, con successo, la propria manualità, le abilità di performer fuori dai canoni della tradizione, la capacità di tessere relazioni e di muoversi nel mondo delle arti.

 

2. A Roma, con un bagaglio di figure da mettere ‘in luce’

Tra le ‘folgorazioni’ dell’apprendistato, la luce: in questo caso quella degli spettacoli di Harry Kramer visti a Stoccolma. Artista poliedrico attivo nell’ambito dell’arte cinetica in una linea di continuità con le pratiche dadaiste di Schwitters, Kramer presenta dai primi anni Cinquanta i suoi brevi spettacoli dall’atmosfera sospesa, privi di dialogo e di elementi narrativi, che vedono in scena piccole sculture antropomorfe dotate di movimento e sono costruiti su partiture sonore, luministiche e meccaniche di estrema precisione.[16]

Evento rivelatore, anche in questo caso, per l’importanza che gli attribuisce lo stesso Ricci con uno sguardo retrospettivo, ponendone la rievocazione in testa ad uno scritto programmatico.[17]

Nel 1962 Kramer presenta Die Schleuse (La chiusa) alla Biennale di Venezia, cortometraggio che vince il Leone di San Marco per il miglior film sull’arte; nel 1964 espone a Documenta 3 a Kassel. Frank Popper nella sua capitale ricognizione del 1967 sull’arte cinetica rubrica Harry Kramer nella linea che si diffonde dopo il 1950, accanto a Schöffer,Tinguely, Gruppo T.[18]

Minuscole pulegge, dall’aspetto insieme meccanico e coreografico, servono una meticolosa messinscena. Dopo il 1961, Kramer crea sculture cinetiche in fil di ferro, che uniscono l’esattezza alla poesia, la morbidezza alla rigidità. «Nel loro ventre si muovono, come costellazioni, ruote, o coppie di ruote, fissate a livelli e in direzioni differenti. Talvolta Kramer impianta una piccola suoneria, rallenta il ritmo, o concentra i suoi congegni nella parte superiore dell’opera, che sembra allora fluttuare, suggerisce l’isolamento e la distanza. Il disegno tutto in filigrana di queste sculture trasparenti è di grande bellezza, soprattutto allorché la luce cruda ne proietta sul muro le ombre sottili e in movimento.[19]

Diversi elementi colpiscono Ricci e saranno peculiari dei suoi primi lavori: la composizione per frammenti, lo spazio di dimensioni ridotte, le figure dai colori accesi, i movimenti che compongono la partitura spettacolare insieme a sonorità eterogenee, alternando momenti di stasi ad altri concitati e crescenti. La scena dell’artista tedesco è un congegno la cui sostanza drammaturgica sta nel funzionamento stesso dei materiali scenici, investiti di azione drammatica. È un motivo importante nella poetica di Ricci, che creerà di lì a poco ‘pezzi’ brevi, dove il movimento stesso della ‘macchina’ è protagonista dell’azione.

Ricci riconosce nell’esperienza di spettatore del teatro di Kramer la spinta alla sperimentazione «di certi materiali scenici capaci di ‘movimento’, non esattamente meccanico come nel caso di Kramer». Tali ‘materiali scenici’ possono essere equiparati al fattore luministico. Tant’è che nel passo immediatamente successivo cita Craig e la sua concezione di scena come dinamismo di luce e colore.[20]

Il pubblico partecipa con un’attenzione rara ed è affascinato dal ripetersi «all'infinito degli stessi movimenti, alterati e alternati da sapientissime luci».[21] Il movimento è attivato dalla luce; in altre parole, le figure vengono animate da un ‘marionettista’ che si serve del soffio luminoso.

Nelle opere di Ricci della metà del decennio questo ruolo fondamentale della luce fluisce quasi naturalmente nell’impiego della proiezione. Tra i primi artisti che si confrontano con il mezzo della luce in questa forma, rappresenta un caso interessante della coesistenza di una ricerca sulle metamorfosi della presenza attorica nello spazio e dell’indagine sulle potenzialità luministiche. Anche quando farà il suo ingresso l’attore, il suo statuto sarà marcato da questi esordi: luce e ‘figura artistica’ per dirla con Oskar Schlemmer.[22]

Abbiamo immaginato il paesaggio europeo attraversato da Ricci sulla soglia del decennio Sessanta, rientrando a Roma con questo bagaglio, negli occhi e nelle mani. Dunque, a Roma dove è tornato a vivere, gli esordi teatrali alla fine del 1962 si pongono decisamente sotto il segno del ‘visivo’: lo testimoniano luoghi e collaborazioni. Sulla scorta dei due motivi menzionati, luce e figure, possiamo precisare che la poetica di Ricci si pone anche sotto il segno dell’assemblaggio, del collage, degli objets trouvés.

Brunella Eruli, studiosa patafisica alla quale queste categorie erano particolarmente care, nel suo percorso dedicato alla ‘scena e le immagini’[23] dà conto del Teatro Immagine italiano e inserisce Mario Ricci in quella zona osmotica dove i linguaggi del teatro respirano l’aria delle arti visive, habitat dell’universo delle Figure, di tradizione e non.

Degno di nota l’ambito delle voci che prestano attenzione a Ricci. In particolare Germano Celant, il critico e ‘autore’ dell’Arte Povera, così attento alle zone di interferenza tra teatro e arti visive, che firmerà con lui un fortunato scritto ‘autobiografico’; rammentiamo Identité italienne, mostra documentata dal ricco catalogo-regesto che rubrica eventi artistici e performativi dal 1959 al 1980: vi compaiono tutti i debutti degli spettacoli di Ricci. Maurizio Fagiolo Dell’Arco, studioso che si muove tra scenografia e arti visive, gli dedica una serie di articoli dove l’attenzione va proprio alle marionette. In Tra arte figurativa e teatro sottolinea appunto «quella ambigua e affascinante zona»[24] comune ai due ambiti. In questo senso nel marzo 1965 il critico coglie nel segno; il titolo Torna il teatro a passo ridotto gioca sul mutamento di proporzioni e contemporaneamente ammicca al cinema; il sottotitolo precisa: «Un genere di teatro al quale si sono dedicati numerosi artisti, da Bernini a Paul Klee, da Acciaiuoli a Sofia Tauber». Lucidamente sintetizza la linea che ha coniugato le figure alle arti plastiche nel corso dei secoli e cita le pronunce di rinnovatori come Maeterlinck e Craig. Che cosa ha trovato l’uomo moderno nella marionetta? «Forse l’apparenza sintetica di quello che non potrà mai raggiungere, forse un ritorno al mondo infantile e primigenio, certo un nuovo senso di purezza. Il teatro delle marionette rinasce oggi a Roma, ad alto livello, grazie a un giovane entusiasta, Mario Ricci».[25]Fagiolo parla di spettacoli dall’allure metafisica e surrealista ‘di marca francese’, imperniati su musica-luce-movimento. Interessanti e puntuali anche i riferimenti al Bauhaus, con il richiamo alla mostra di Oskar Schlemmer curata da Palma Bucarelli nel 1961.[26] Evocando il teatro giapponese (e l’influenza degli attori artificiali sul teatro ‘umano’) augura a Ricci e «ai suoi coraggiosi amici che la loro rappresentazione sommessa ‘a passo ridotto’ possa ripercuotersi presto sul teatro che siamo abituati a definire ‘grande’».[27] In questi spettacoli le luci di scena, delle quali Ricci è l’autore,

erano realizzate con delle comuni scatole di pelati Cirio da un chilo dipinti esternamente e internamente di nero, all’interno delle quali erano fissate delle comuni lampade da cento watt. Il quadro luci era costituito da comuni interruttori fissati su di una comune tavola. Questo fino allo spettacolo I viaggi di Gulliver [1966] per il quale, e per grazia ricevuta, potemmo disporre di quattro faretti e qualche pinza.[28]

Scrive ancora Ricci:

Vedendo le foto di scena di quei primi spettacoli si stenta a credere che le luci fossero di marca Cirio. Dico questo, oltre che per vantarmi un po', per testimoniare che il teatro, nella sua straordinaria magia si può realizzare e rappresentare in ogni dove e con ogni mezzo. Ovviamente anche con quadri luci supercomputerizzati. È solo questione di idee. Averle oppure no.[29]

 

3. Prime creazioni. Materia + luce. Un tubo è un tubo

Il primo spettacolo, Movimento numero uno per marionetta sola, rappresentato la notte di capodanno 1962-1963 nell’abitazione del gallerista Nello Ponente[30], si porta letteralmente dietro il lavoro con Meschke. La marionetta è stata realizzata durante il periodo trascorso a Stoccolma. Si tratta di una marionetta bifronte, dal doppio volto (di giovane innocente e di vecchio satiro), come ne esistono in pressoché tutte le tradizioni di questi generi.[31] che danza al ritmo di «bossanova samba jazz canzonette varie e la lettura di un testo» (una poesia di Ricci scritta dopo una visita al Luna Park di Stoccolma Tivoli), «registrato con la voce dell’allora famoso mezzobusto TG RAI (Riccardo Paladini). […] La figura balla attorno ad una giostra miniaturizzata realizzata con quattro bambole nude. Il vecchio satiro guardone e il giovane innocente presi nella stessa rete: il sesso!».[32] Insieme alla marionetta sono visibili le gambe del manipolatore, lo stesso Ricci, che ballano al medesimo ritmo.[33]

Mario Ricci, Movimento per marionetta sola, 1962, foto Riccardo Orsin

Nel generoso Archivio Mario Ricci[34] è conservato il copione, che, oltre a rendere percepibile un ritmo elettrizzante, rivela una fortissima attenzione per la luce. E per la voce nella luce. Solo successivamente a luce e voce, la marionetta comincia ad animarsi.

La forma breve caratterizza tutti gli spettacoli dei primi anni (della durata dai 10 ai 30 minuti). I materiali scenici sono di Pasquale Santoro (che crea anche le musiche di scena) e di Nato Frascà, due artisti che collaborano con Ricci a più riprese. Nella Storia dell’arte moderna di Argan compaiono nel contesto dell’«arte come scienza e tecnica dell’immagine». Entrambi dediti allo studio dei procedimenti ottici e percettivi, per i quali uno dei presupposti, secondo Argan, è che «la percezione è solo un momento di un’attività ben più vasta, l’immaginazione, cioè del conoscere e pensare mediante le immagini. Qualsiasi ricerca dunque non può avere come oggetto una singola immagine, ma una sequenza di immagini, di cui nessuna può considerarsi […] più significativa delle altre». Interessa non più l’immagine in sé, ma «il ritmo del prodursi, riprodursi, associarsi, mutare delle immagini»:[35] elemento essenziale dunque è il fattore cinetico.

Sin da questa prima prova Ricci sembra aver assimilato elementi cardine del teatro di marionette: il luogo, il materiale portatore di drammaturgia, l’invenzione che supplisce ai mezzi, la poetica del frammento con valore di tutto, la luce come presenza scenica; le marionette come ambito di creazione artistica non confinato all’età infantile, bensì strumento e occasione di sperimentazioni d’avanguardia e soprattutto intrinsecamente portatrici di istanze di sperimentazione: l’antinaturalismo, la ribellione alla dominante verbale e testuale, la mescolazione di linguaggi, l’attenzione ai materiali come ‘attori’ di drammaturgia.

Ancora un luogo d’arte per Spettacolo in tre pezzi (anche nel titolo emblematico di quanto stiamo evidenziando), presentato insieme a una mostra di marionette alla Galleria Arco d’Alibert nel 1964. Le marionette create ed esposte erano una ventina e lo spettacolo «una produzione di circa settanta minuti formata da cinque o sei ‘pezzi’», dei quali Ricci ricorda in particolare Tubi: «un misto di ‘pezzi’ realizzati con marionette» e, per la prima volta, objets trouvés «a partire dai più comuni tubi da due pollici e mezzo a quelli via via sempre più grandi fino a tubi per la stufa, compresi due gomitoli da circa 30 cm di diametro. Raccontare cosa facevo con tubi e tuboni mi è assolutamente impossibile. La sola cosa che ricordo è il balletto dei tubi»,[36] cioè l’animazione degli oggetti. Animatori Mario Ricci e Remo Remotti (attore, autore, pittore, scultore), che partecipa anche alla costruzione delle marionette per l’esposizione. Pasquale Santoro collabora alla colonna sonora.

Nel dicembre 1964 inaugura il Teatro Orsoline 15; Movimento numero due per marionetta sola, con materiale scenico di Gastone Novelli e collaborazione alle musiche ancora di Pasquale Santoro. Qui la marionetta ha la testa in cartapesta e il corpo assemblato con diversi materiali di riciclo (latta, ottone, etc.), recuperati da quelli utilizzati per l’allestimento di sala e palcoscenico. La figura «spaziale» sbarca ai piedi di una «collinetta marziana»; muovendosi «come fosse in una atmosfera rarefatta, siderale, cerca di scalarla senza mai riuscirci. Lo spettacolo è giocato sui contrasti di luci (Cirio!) e ombre, di colori e disegni con i quali Gastone Novelli aveva decorato la sua collinetta».[37]

Nella stessa serata, in Movimenti uno e due sette testine di cartapesta montate su piedistalli ruotano grazie al movimento di un filo invisibile, ballano al ritmo della luce e della musica. Altre figure sono formate da oggetti che evocano arti inferiori: «creano un balletto ispirato ai quadri di Louis Morris e di Pasquale Santoro». Nella scena finale anche il cerchione di una ruota di bicicletta si esibisce sulle ‘note’ della luce.[38]

Nel 1965 Ricci presenta al Teatro Orsoline otto creazioni, quasi a voler riflettere su quanto fatto.

Roberto Tessari individua nel 1965 un anno chiave per la ricerca teatrale, focalizzando le istanze più significative nelle tre poetiche di Bene, Quartucci, Ricci; questi

proponeva al pubblico situazioni affatto sganciate da qualsiasi ipotesi drammaturgica d’attore o d’autore, e per nulla preoccupate di eventuali valenze etico-sociali dell’evento scenico, dato che il fine era giungere alla zona ‘mnemonico-emozionale’, attraverso immagini collegate non narrativamente ma tecnicamente.[39]

Nota Tessari che le tre diverse parabole eterodosse nascono e si sviluppano sotto l’impulso di scelte e di logiche evolutive irriducibili l’una all’altra, e

rispondono a ragioni che solo una forzatura esegetica potrebbe omologare. Il loro manifestarsi, in contemporanea, all’altezza di un ben preciso momento storico, tuttavia, permette di considerarle (insieme a poche altre devianze artistiche) anche quali elementi sintomatici per eccellenza d’un quadro complessivo dove, sotto al malessere degli stabili e del teatro di regia anni Sessanta, urgono emergenze disperate.[40]

Segno di questo clima il dibattito intorno alla ‘crisi della drammaturgia’ proposto da «Sipario».[41]

Vediamo sinteticamente le altre creazioni del 1965.

In A del ‘poeta pittore’ Gianni Novak è protagonista un omino di legno a forma di lettera ‘A’, «forma bidimensionale in perenne nevrotico movimento mentre alle sue spalle scorre un nastro figurato sul quale, come in una grande striscia fumetto» sono raffigurate sia le alienanti funzioni alle quali è costretto sia le frustrazioni conseguenti: «una bella donnina super dotata, una romantica casa di campagna, un veliero in rotta verso lontani, esotici paradisi ed infine l’apparizione del fungo atomico quale soluzione finale. ‘A’, appunto, come atomico».[42]

Ancora di Gastone Novelli il materiale scenico di Pelle d’asino, drammaturgia di Elio Pagliarani e Alfredo Giuliani, esponenti del Gruppo ’63, che presenta secondo Ricci «un eccessivo rispetto per il testo scritto».[43] Se De Feo cita Jarry, altro riferimento ‘classico’ per i teatri di figure, Fagiolo osserva che in Pelle d’asino (dal «testo corrosivo, recitazione scattante, le musiche ben assortite») agiscono «marionette nel senso più tradizionale», che «mimano gli atti dell’uomo, mentre nelle altri azioni sceniche Ricci ha trovato un ritmo nuovo, autonomo, funzionale».[44]

In Balletto due le marionette interagiscono con oggetti-sculture di Franco Libertucci. Una marionetta creata da Gabriella Toppani dalla testina in cartapesta fissata a un leggero tessuto che fa da corpo si muove «attorno, sopra, ai lati di una scultura in legno in una danza leggera, surreale, sensuale incontrando e scontrandosi con altri oggetti che appaiono e scompaiono, come una grande cornice nella quale si specchia» che la portano alla pazzia. La descrizione più efficace è offerta da Fagiolo che definisce le sculture di Libertucci «il gong tribale, la poltrona pericolosa», e scrive che

il protagonista è un personaggio dal doppio volto, metà zebrato metà bianco. Una figura composta da veli immersa nell’ombra rincorre la luce, rincorre la musica: avanti e indietro sui piani geometrici, alla scoperta degli oggetti. Poi appare una forma bianca rettangolare e poi una cornice per quella forma e il personaggio è incerto tra pieno e vuoto. Poi la cornice e la forma rettangolare riescono a formare un quadro, e il personaggio vi proietta la sua ombra. […] continua ambiguità tra pieno e vuoto, tra umanità e geometria, tra quadro e specchio. E la chiave si trova proprio nel volto del personaggio diviso in due zone.[45]

La poetica di Libertucci tra fine degli anni Cinquanta e primi anni Sessanta presenta tratti consonanti con alcuni aspetti dell’opera di Ricci: l’oggetto è sottoposto a ‘trasfigurazione’, suggerisce dinamismo ed evoca funzioni antropomorfe pur rimanendo «scultura né inanimata né antropomorfa».[46] Negli anni 1963-1964 crea gli «oggetti rurali elaborati come totem» e i Volumi che alludono a forme umane. Agnese di Donato, che gestiva la libreria Al Ferro di Cavallo in via Ripetta a Roma, ne ricorda i frequentatori, tra i quali diversi collaboratori di Ricci (Gastone Novelli,[47] Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Achille Perilli).[48]Numerose testimonianze rievocano il clima artistico e culturale, lasciandoci immaginare gli incontri di Ricci con questi artisti, dai quali nascono collaborazioni.[49]

Ancora nell’anno creativo 1965, Flash Fiction, spettacolo «affidato formalmente solo a una serie di suoni/rumori e materia senza marionetta»: una struttura scenica composta da materiali comuni (secchi di zinco, chiodi, scivoli) è orchestrata dal ritmo di spie luminose che inscenano i tentativi di un lancio nello spazio, a fragore di suoni metallici e con la voce di uno speaker che scandisce i tempi del lancio. Grida e silenzio, buio e punti di luce puntellano l’azione. «Un conteggio alla rovescia per un mezzo che invece di andare sulla luna ci porta sotto la linea magica del teatro: forse un anti-spazialismo, un viaggio al centro della terra»,[50] scrive ancora Fagiolo.

In Por no di Achille Perilli e Carlo Vitali si trattava di un collage di testi, da Winckelmann a trattati tecnici, da Mike Spillane a testi di linguistica. «Un racconto d’amore e di morte», una dolorosa storia da rivista popolare che

inizia con l’assassinio a tempo di jazz: plastica urli sangue […]. Poi il flashback su tutto l’impossibile amore di due esseri di plastica […]. Poi il fiore rosato che risucchia il personaggio, mentre la litania macchinistica prevale sulla musica. Poi le forme colorate e trasparenti si alternano ai brani di un trattato linguistico. Poi le minacce di morte e le forme di stagnola e la donna efesina lievemente carezzata.[51]

Ritorna la scena iniziale «e il cerchio d’amore si chiude con la morte». Così Scrive Ennio Flaiano, che nell’iterazione (poi… poi…) rende bene la struttura paratattica dello spettacolo. La storia è ritmata sull’accordo musica-parola-luce–movimento, «che svapora nel gioco anche patetico di questi personaggi che sono segni; proprio come, nei quadri di Perilli, il segno di radice informale riesce a diventare personaggio».[52]

E Flaiano:

Perillli, che è piuttosto pittore ha scelto alcuni brani […] e li ha illustrati col suo estro da biologo un po’ sornione. Per esempio, in una luce da acquario o da primo giorno del mondo due inquietanti protuberanze entrano in amorosa colluttazione. […] oppure: un esemplare di homo sapiens ancora montato male viene presentato con diffuse informazioni sui dati cabalo-aritmetici del progetto e lo vediamo poi fagocitato lentamente da una piovra.[53]

Gli spettacoli di questi primi anni del teatro di Ricci sono emblematici delle direttrici che verranno sviluppate in seguito. L’amore per i materiali e la loro plasticità (compresa la luce) è presente anche nei lavori successivi; pensiamo a Edgar Allan Poe (1967) o a James Joyce, dove la scena viene ‘impacchettata’ con la carta, essa stessa figura ‘animata’ dagli attori.

Ricci utilizza spesso l’espressione ‘dato tecnico’, ad indicare una scena che valga nella propria dimensione strutturale e materica. Materia la luce, materia gli ‘attori-oggetto’. Il materiale è concepito e impiegato in vista di un impatto percettivo sul pubblico. «Le immagini sono collegate tra loro tecnicamente e non dal filo conduttore di qualsiasi storia o storiellina»[54] e costringono lo spettatore a reazioni prima che a sentimenti.

A questi spettacoli nei quali l’astrazione è scelta perché fuori dal rischio dell’interpretazione, in realtà il pubblico reagiva fornendo interpretazioni personali.[55] L’interesse dell’artista è il contatto con i materiali, «non significanti se non quello che visivamente rappresentavano». Cioè, il fatto che «Un tubo in movimento era, e doveva essere, solo un tubo in movimento!».[56]

 

4. Uno spazio per attori in carne e ossa

Il 1965 vede anche la creazione di Varietà, che l’artista considera «un’opera di fondamentale importanza verso la definitiva realizzazione del […] ‘teatro-immagine’».

Per prima cosa metto da parte il ponteggio e relativo palcoscenico per le marionette. Spazio per la rappresentazione diventa uno dei due ambienti che formano il locale. Cioè un palcoscenico di 4 metri x 4, si può dire a contatto con l’eventuale pubblico seduto sulle panche. Le pareti del palcoscenico vengono ricoperte di panno nero e la pedana dipinta dello stesso colore. Le luci sono ancora le stesse marca ‘Cirio’ dell’inizio. Non è tutto. Con ‘Varietà’ per la prima volta introduco nei miei lavori l’attore. ‘L’essere vivente’ che Gordon Craig aveva escluso a favore di una Supermarionetta, […] lo reintroduco ma non già come attore-attore, bensì come ‘attore-oggetto’.[57]

All’apertura del sipario due uomini in nero con una cuffia da bagno bianca, intenti a montare una gabbia con tubi innocenti (utilizzati per i ponteggi nell’edilizia); sul fondo una ragazza in costume stile Ottocento, esegue un lento strip-tease. «D’improvviso dall’alto cala un grande pannello che va a chiudere il boccascena formato dall’arco divisorio dei due locali. Sul pannello sono incollate le foto a grandezza naturale dei visi di Sofia Loren Brigitte Bardot Claudia Cardinale e Ursula Andress»; i loro corpi sono coperti fino al ginocchio da graziosi abitini. Le gambe invece sono ritagliate nel compensato del pannello e si muovono al ritmo di un frenetico can-can. Finisce la musica, smette il can-can e si ritira il pannello. Riappare la gabbia, cresciuta attorno alla ragazza stile ottocento, sempre più svestita. L’azione si ripete e quando la ragazza in crinoline è alle ultime fasi del suo spogliarello «invece di mostrare le sue tenere e sensuali carni, apparirà di bende fasciata come una mummia».[58]

Varietà, 1965, foto Riccardo Orsini

In Salomé (1966) per la prima volta la drammaturgia parte da testi preesistenti: è ispirata a Wilde, ai Vangeli, a Erodiade di Flaubert, al Cantico dei Cantici. La voce narrante è preregistrata. «Ad alcuni critici sembra un tradimento del rigore iconoclasta fino a quel momento apprezzato negli spettacoli».[59] Su di un pannello sono dipinte in bianco e nero le facce di diversi personaggi del dramma; su questo sfondo si muovono le tre figure chiave dell’opera: tre marionette bidimensionali dipinte anch’esse in bianco e nero, rappresentanti Erode Antipa, Erodiade, Salomè. La trama segue l’opera di Oscar Wilde «solo che al momento opportuno dalla botola invece della testa di Giovanni Battista esce prima la testa (dipinta) di Wilde e poi quella (vera) di Previtera».[60]

Sacrificio edilizio racconta «in maniera evocativa una tradizione balcanica secondo cui per costruire un ponte o un qualsiasi edificio e affinché questo regga, bisogna murare una vergine nelle sue fondamenta». Lo spettacolo è ispirato al gioco fatto con cubi che ad ogni diverso assemblaggio mostrano una diversa composizione d’immagine.

Alcuni operai e operaie sono intenti a costruire un muro sovrapponendo una sull’altra scatole di cartone 0,50x0,50x0,50 dipinte su quattro dei sei lati con figure fortemente evocativo-simboliche relativamente alla vicenda […]. Quando il muro è terminato, crolla e viene quindi ricostruito mostrando però al pubblico una diversa faccia rispetto alla precedente.[61]

L’azione si ripete. Fra una caduta e una ricostruzione i costruttori si dilettano in vari giochi; nell’ultima scena il muro è in piedi e nelle sue fondamenta si scorgono «[i frammenti del] corpo d’una vergine murata».[62]

Con Varietà la compagnia esce «per la prima volta dall’angusto spazio del teatr(in)o Orsoline 15». Nel maggio 1966 infatti Mario Ricci lo riporta in scena insieme a Salomè e a Sacrificio Edilizio: la ‘trilogia’ partecipa al Festival Internazionale Universitario di Parma.

Immaginarsi l’emozione, la sorpresa, di passare da quello spazio minuto […] a quello del Teatro Regio. Per quanto incredibile, lo spettacolo non ci perdeva affatto. Anzi. Specialmente Salomé, sistemato da macchinisti geniali al centro dell’immenso boccascena, sembrava fosse un francobollo in bianco e nero all’interno del quale si muovevano i personaggi d’un remoto dramma.[63]

L’accostamento dei tre lavori consente a Ricci di riflettere sulle differenti drammaturgie. Ritorna in campo la categoria del collage, filo conduttore di tutto il suo lavoro. Collage che è intrinseco alla figura artificiale, le cui parti possono essere ricombinate a piacere, assemblate con foto o disegni; collage nella drammaturgia e nella musica (cfr. <http://www.arabeschi.it/19-il-1967-i-nodi-vengono-al-pettine/>). 

Non incongruo ricordare che dal 1953 Mimmo Rotella ‘strappava’ i suoi de-collages (le dive ‘fotografate’ e ritagliate in Varietà, poi riassemblate, non evocano forse le dive delle stesse opere di Rotella?). Ricci scrive dunque che Salomé e Sacrificio edilizio sono due «testi-collages».[64] In Sacrificio edilizio il principio del montaggio-collage è più evidente, dato che azione drammaturgica e azione fisica coincidono; l’attore è congegno, meccanismo: i performer costruiscono il muro. In Salomé si vuole ri-raccontare la storia: il testo non può essere cambiato. Per ri-raccontare l’artista sceglie le marionette, ispirate a Beardsley e realizzate da Previtera (che firma anche i materiali scenici), con figure disegnate e ritagliate in bianco e nero.

Mario Ricci, Salomé, 1965, foto Riccardo Orsini

Varietà è ‘soluzione scenica di un’idea’, non avendo un filo logico consequenziale può essere manomesso e ricostruito, i pezzi sono intercambiabili, si può invertire l’ordine del testo ma non quello scenico. È la scenicità che ha dettato il testo, la scrittura di scena dà il carattere logico consequenziale. Questi tre spettacoli portano Ricci a riflettere sulle acquisizioni della propria sperimentazione: sono aperti «nel senso che nessuna soluzione viene […] suggerita agli spettatori».

In Sacrificio Edilizio, «l’attore diventa strumento, dato tecnico, utensile: «è un dato tecnico come la luce, la voce fuori campo, la scenografia, non autosignifica altro che il suo essere un dato tecnico […] una struttura che serve a fare teatro».[65] Muta l’alfabeto (da materiali e oggetti marionetteschi a testi e attori in carne e ossa) ma il principio compositivo non cambia. Lo spazio ospita sì l’attore, ma concepito come oggetto, elemento della scrittura scenica al pari degli altri elementi: bendato, murato, mescidato nel collage… Nello stesso senso Ricci utilizza la proiezione sui corpi, con effetti di scomposizione e ricomposizione.

 

5. La quarta dimensione. Corpi luce spazio. Sulla scena internazionale

5.1.Una proiezione drammaturgica

Il tema di Gulliver, un viaggio letteralmente ‘in un’altra dimensione’, ricorre nel teatro di figura (ne compare un allestimento, tra l’altro, al festival di Varsavia del 1962). Il gioco in ‘scala’, l’alternanza e il confronto di proporzioni, calzano evidentemente a questi generi. Nel dicembre del 1966 anche Ricci si cimenta con il testo di Swift, dove «immette nel linguaggio teatrale nuovi strumenti della comunicazione visiva, quali il cinema e la fotografia».[66] Cinema e fotografia, osserva Daniela Visone, in singolare coincidenza con quanto fa Quartucci.[67] «Da questo momento in poi la presenza dell’attore viene sfruttata in tutte le sue potenzialità cinetiche e gestuali diventando un elemento essenziale dell’azione, non più affidata al solo dinamismo degli oggetti e degli altri materiali scenici».[68]

Al gioco di proporzioni è funzionale anche la proiezione. Ricci considera i suoi «primi tentativi di frantumazione delle immagini e di utilizzazione di ombre cinesi» l’origine della propria modalità di interazione tra cinema e scena. Quando parla di ‘cinema’ intende una particolare modalità visiva dello spazio scenico, una forma della tridimensionalità, tanto da teorizzare il «cinema a quattro dimensioni», in cui il film trova una sempre maggior integrazione all’azione drammatica, rendendo l’«ambiente schermo» polidimensionale, dove la quarta dimensione è rappresentata dal movimento della pellicola sommata e sovrapposta al dinamismo degli attori e degli oggetti. Ne I viaggi di Gulliver lo schermo è costituito dallo spazio, ma anche dai corpi degli attori che vengono investiti dalle proiezioni. Il film veniva proiettato sulla pancia di Gulliver, un grande pannello di compensato sul quale era dipinta la figura del gigante disteso per terra.[69]Un bel bozzetto di Renato Mambor è ulteriore testimonianza della proficua collaborazione tra Ricci e gli artisti visivi.

Mario Ricci, I viaggi di Gulliver, 1966, foto Riccardo OrsiniMario Ricci, I viaggi di Gulliver, 1966, scenografia di Renato Mambor

Nonostante la buona accoglienza a Roma lo spettacolo «apre la stagione della difficile relazione tra Ricci e i critici italiani;[70] d’altro canto segnala l’artista a una critica internazionale.

Il film come elemento scenico assume un’importanza decisiva nel 1967. L’anno del Convegno di Ivrea vede la creazione di Edgar Allan Poe e Illuminazione. L’autore parla di un ulteriore passo in avanti nella ricerca formale: la scena si fa più complessa, i film sono girati espressamente per lo spettacolo, al cui interno «non un solo gesto, non uno degli oggetti indispensabili all’avventura che prende vita in scena è gratuito».[71] La capacità di Ricci di fare del film un ingrediente teatrale è secondo la critica senza precedenti.

Le immagini proiettate appaiono sul fondale nero del palcoscenico e su di un «baldacchino bianco» centrale, quindi su di un supporto fisso. Ma «si frantumavano nella proiezione» in quanto parte di esse sfuggiva al «baldacchino, finendo sul fondale che, essendo più lontano, le ingrandiva notevolmente».[72]I due «filmini 8 mm» girati all’interno del palcoscenico mostravano il ‘racconto’ dello spettacolo nei suoi particolari più intimi: dettagli di mani, di volti e degli oggetti utilizzati.[73] Il dinamismo derivava dalla «sovrapposizione di immagini cinematografiche e immagini reali degli attori» (gli stessi che comparivano nei film). La tridimensionalità dello spazio trasforma quindi il mezzo filmico in codice teatrale. È evidente la lezione di Svoboda, colta al volo dal giovane Ricci. «Proiettavo sulle persone, creando la quarta dimensione. Nel 1962 avevo visto a Praga La lanterna Magica, dove per la prima volta avevo notato l’uso del film in uno spettacolo teatrale. Ho sfruttato quella lezione più tardi».[74] Al montaggio visivo fa da contrappunto quello sonoro: consapevole «di non inventare nulla» visti i precedenti «di Cage e della rumoristica futurista»,[75] Ricci utilizza «pentole, coperchi, piatti, posate, acqua, reattori in decollo e in atterraggio, spari di armi in un poligono di tiro», tutto quanto di ‘sonoro’ gli capita sotto mano.[76] Lo spettacolo debutta al Teatro Orsoline 15 nell’aprile 1967, poi sarà al Teatro Carignano di Torino, quindi a Nancy, a Monaco di Baviera e in Polonia.

Mario Ricci, Edgar Allan Poe, clip audio spettacolo con montaggio immagini https://www.youtube.com/watch?v=MgFYtNplnKQ

La compagnia viene invitata al Festival di Nancy del 1968 con Edgar Allan Poe.[77] Nancy costituisce un’altra immersione nell’universo del teatro internazionale. I nostri artisti vedono il Minneapolis Firehouse Theater e il Bread and Puppet, riferimento mondiale per i generi delle marionette e importanti nel nostro contesto data la risonanza del loro passaggio europeo e italiano.[78] Nel primo caso colpisce Ricci la dimensione condivisa tra attori e spettatori. Si trattava di

un’ironica, a volte sferzante rappresentazione d’un party di compleanno di una delle interpreti. […] tutti gli attori e le attrici […] suonavano brillantemente un diverso strumento per cui erano tutti, al tempo stesso, invitati al party e intrattenitori del party, come d’altronde noi spettatori, assiepati lungo le mura della lunga galleria che fungeva da teatro, eravamo al tempo stesso spettatori e invitati allo stesso party.[79]

Lo spettacolo del Bread And Puppet prendeva spunto da tragici avvenimenti accaduti in Vietnam. Ricci ammira la semplicità d’esecuzione di una sequenza che gli appare di inaudita efficacia scenica. Gli attori avevano il volto nascosto da una maschera bianca ed erano vestiti con lunga tunica dello stesso colore. La scena rappresentava

il suicidio ‘pubblico’ delle suore cattoliche […]. Mimando lo spargimento della benzina sul proprio corpo, si davano fuoco […]: una ad una estraevano da una tasca della bianca tunica un rotolino di rosso scotch quindi, strappatone una, due, tre, quattro, cinque… volte una lunga striscia se l’applicavano sulla bianca tunica, convincendoci che quelle rosse strisce non erano altro che lingue di fuoco. […] raggelante e convincente in quella lunga sequenza era il crash provocato dallo svolgersi delle strisce, prima di essere strappate. Una scena che più ‘minimale’ sarebbe inimmaginabile. E però quanta efficacia, quanto realismo, quanto orrore sapevano esprimere quei semplici gesti![80]

Il Festival di Nancy costituisce una sorta di ‘utopia teatrale’ nel panorama internazionale del secondo Novecento.[81] Fondato da Jack Lang nel 1962 come festival di teatro universitario, diventa festival di professionisti della ricerca proprio nell’anno in cui viene invitata la compagnia di Ricci: se nel 1967 «Encore étudiant, déjà professionnel, le Festival est à un tournant»,[82]nel 1968 la svolta, quasi un’anticipazione del maggio: «Le Festival fait sa révolution en avril […] plus de prix, plus de jury, des spectacles partout dans la ville et des prospecteurs envoyés de par le monde pour les choisir».[83] Insieme a Ricci, dall’Italia sono invitati Leo e Perla con Sir and Lady Macbeth.[84] Ma nel 1968 ritroviamo a Nancy anche «un grande professionista»[85] come Michael Meschke, con il suo già celebre Ubu roi (1964).

 

5.2. Luce dinamica

Tra anni Sessanta e Settanta, accanto alle esperienze dell’arte cinetica, alle installazioni della nascente videoarte, alle forme dell’arte contemporanea alle prese con i dispositivi luminosi, la scoperta delle potenzialità luministiche (luce ombra buio) in scena serve anche da antidoto al teatro testocentrico, mentre la bidimensionalità offerta dal modello cinematografico funziona come mezzo di scardinamento dello spazio della scatola all’italiana, di rottura della prospettiva univoca e della visione rassicurante garantita da un punto di vista centrale. Entro questa plurima dimensione visiva dello spazio, il teatro si appropria del montaggio, il cui principio agisce anche disgiunto dal mezzo propriamente cinematografico. L’illuminazione orientata e disegnata consente di isolare dettagli, di procedere per frammenti di visione, di operare nei termini di una discontinuità visiva grazie all’alternanza con il buio. Principio compositivo declinato entro modalità anche molto diverse tra loro, lavora per decostruzione o per ricomposizione. Di nuovo, procedimenti assimilabili al ‘collage’. Si tratta di modi di lavorare evidenti a partire dagli anni Settanta soprattutto in Memè Perlini,[86] ma che conoscono una particolare declinazione in Mario Ricci a partire dalla metà degli anni Sessanta.

Il cinema al quale si ispirano gli artisti della scena è quello della sperimentazione, anch’esso sconfinante nel territorio delle arti visive. In tal senso fondamentale la collaborazione di Ricci con Umberto Bignardi in Illuminazione, forse l’opera più significativa in quanto a sintesi tra linguaggi e codici espressivi, dal titolo parlante, ‘corrispettivo’ visuale di un testo di Nanni Balestrini. Anche qui i film sono creati per la scena e le modalità di proiezione ne fanno un ingrediente organicamente intessuto nei codici teatrali.[87]

In Parentesi sull’uso del cinema e la frantumazione dell’immagine[88] l’artista si sofferma sulle tappe che hanno segnato il suo rapporto con l’utilizzo del film a teatro, da cui si evince che vero interesse di Ricci è operare la frantumazione dell’immagine, fine perseguito anche attraverso altre modalità. Questa passione per scomposizione e ricomposizione, frammentazione e montaggio, va di pari passo con l’interesse per l’universo delle figure.

All’utilizzo del film si aggiungono le diapositive e per la prima volta nel lavoro di Ricci i supporti delle proiezioni sono in continuo movimento. Il carattere fluido del testo di Balestrini viene immesso dalla recitazione degli attori entro un procedimento di ‘scomposizione sonora’[89] parimenti alla frantumazione dell’immagine della partitura cinetico-visiva. Questa viene affidata alla proiezione di filmati e diapositive sugli schermi mobili di prismi girevoli sui propri assi; due delle facce sono in compensato bianco, la terza faccia di ogni solido è costituita da specchi che «moltiplicano e riverberano le immagini catturate» provocando il disorientamento visivo degli spettatori.[90]Interagiscono così movimento ‘interno’ alle immagini (dato dalla frantumazione), movimento degli attori, movimento delle immagini riflesse proiettate sugli specchi. Il materiale scenico è di Umberto Bignardi, così come i filmati, in collaborazione con Turi e Ricci.

Celant lo definisce «Teatro a scomparsa totale»: l’illuminazione stroboscopica, il linguaggio inarticolato, la scenografia mobile, i movimenti spezzettati «acquistano significato teatrale-visivo».[91] Ricci è consapevole che i materiali impiegati devono

rispondere a precisi requisiti dinamici programmati in base alla loro utilizzazione nell’economia della rappresentazione. […] la confezione di un filmato rientra tra le pratiche operative condotte da Ricci e dal suo gruppo nella fase di montaggio di uno spettacolo, diventando un momento fondamentale di ricerca e di sperimentazione.[92]

 

6. Verso la fine dei Sessanta. Piccolo e Gran teatro.

Umberto Bignardi collabora alla parte filmica in James Joyce, spettacolo che conferma il riconoscimento della compagnia in Europa.[93] «Libera interpretazione della prosa dell’autore irlandese, incentrato sulla passeggiata di Bloom per le vie della vecchia Dublino», debutta nel dicembre 1968 presso l’Unione Culturale di Torino. Dopo alcune repliche italiane, nel 1969 è a Francoforte in occasione del Festival Experimenta 3, aprendo definitivamente al gruppo le porte d’Europa. La critica tedesca parla di «dimensione nuova per il teatro di un gioco per bambini ma con tutti gli ingredienti più significativi dell’arte moderna: espressionistica, pop, surreale». La Frankfurter Allgemeine Zeitung lo reputa lo spettacolo più interessante della stagione e cita il Maestro dell’impacchettamento Christo.[94] Un’altra tappa tedesca importante sarà Il Barone di Munchhausen[95] alla fine dello stesso anno all’Akademie der Künste di Berlino. Nel 1970 Re Lear. Da un’idea di Gran teatro di William Shakespeare appare come una sorta di summa dei tanti procedimenti sperimentati; «Credo sia stato lo spettacolo più bello e più ricco di idee che ho fatto»,[96] commenta Ricci. Gli attori compaiono in ‘figure’ (con bastoni come cavalli dalle raffinate teste colorate), una giostra è il dispositivo che dispiega la polifunzionalità degli oggetti; le proiezioni utilizzano come ‘schermi’ i tessuti dei costumi (che manipolati fanno apparire e scomparire l’immagine). Al teatrino entro cui compaiono le figure dei personaggi (le loro fotografie montate su sagome), la rivista «Sipario» dedica la copertina del n. 296 del 1970 (così sarà per Moby Dick due anni dopo).

Copertina «Sipario» dicembre 1970, Mario Ricci, Re Lear. Da un’idea di Gran teatro di William Shakespeare

Re Lear esordisce a palazzo Grassi a Venezia nell’ambito della Biennale, commissionato nella cornice del Primo Seminario per il Teatro Sperimentale, per poi andare a Parigi, Londra, Brighton, Amsterdam, Spoleto e infine a Roma al Teatro Abaco.

Angela Diana, Re Lear. Da un’idea di Gran teatro di William Shakespeare, 1970, foto John Ross

Nel programma di sala Ricci illustra il suo metodo di lavoro; dallo scritto, utilissimo per conoscere le modalità di creazione dell’artista, estrapoliamo solo un paio di passaggi: «All’inizio del lavoro, oltre al titolo non sappiamo niente. Non c’è un testo […], non esistono note di regia; non esiste nessuno schema di lavoro». Seguono idee, proposte di oggetti:

siccome l’oggetto avrà un’utilizzazione plurima, cerchiamo di capire come e perché verrà usato. Si passa quindi alla realizzazione. Spesso durante questa fase l’oggetto cambia forma, dimensioni, quando non addirittura sostanza. L’oggetto (un cavallo, un drago, un castello, etc.) ad ogni modo è lì e bisogna inserirlo nel contesto. Allora si tratterà di scoprire che tipo di rapporto può stabilire con l’attore (in questo caso l’attore-oggetto) nella azione-visiva per la quale era stato ideato e costruito.[97]

Nel corso delle prove l’oggetto «si svela (ciò dipende ovviamente dal suo peso, forma, dimensione che condizionano la maneggevolezza)» e svela anche il suo rapporto con l’attore. Evidentemente l’approdo a un classico non costituisce un mutamento nel cammino di Ricci. Anzi sembra mettere alla prova del ‘grande teatro’ gli strumenti e i procedimenti del teatrino di figure.

Edoardo Fadini scrive un bell’articolo, evidenziando la scarsa attenzione italiana al lavoro di Mario Ricci.[98] Le note del critico sembrano fare eco a un articolo di Augias dell’anno precedente, a proposito del Barone di Munchhausen che ci sembra una consona chiusura del decennio di attività della compagnia degli ‘orsolini’.

I maggiori consensi vennero al gruppo non dagli ambienti teatrali ma da altri circoli d’avanguardia: pittori, disegnatori industriali, musicisti di “nuova consonanza”. Se i teatranti in generale rimasero sulla loro, addirittura sonnolenta si dimostrò la critica romana sempre timorosa di rischiare troppo con generi non consacrati. Molto più svegli invece gli organizzatori di rassegne sperimentali nel resto d’Europa. A Varsavia, Monaco di Baviera, Nancy, Francoforte, è toccato al gruppo di Ricci di rappresentare il teatro italiano di ricerca. E dato che gli inviti continuano […] la compagnia impianta ormai gli spettacoli non sulle dimensioni del palcoscenico bensì su quelle del portabagagli del camioncino che trasporta fulmineo l’intero gruppo da un capo all’altro del continente. […] Solo per pigrizia lo si può ancora chiamare teatro. In realtà ci si trova di fronte a un punto d’incontro tra la recitazione, il mimo, la danza, le arti visive e cinetiche.[99]

Conclude con una nota che letta retrospettivamente afferma l’importanza della sperimentazione di Ricci di quegli anni, e delle tante anticipazioni implicate: «senza dare nell’occhio, il dopo Beckett è già cominciato».[100]

 

 

N.B.: Per le schede degli spettacoli, i collaboratori e le distribuzioni rinviamo ai già citati documenti contenuti in AMR.

Diamo qui un sintetico elenco (in ordine alfabetico) di collaboratori e collaboratrici dal 1962 al 1970: nei primi anni operano con Ricci (che cura regia, marionette, suono, luci, testi e l’insieme del proprio progetto teatrale) Giorgio Aragno (materiale scenico), Emidio Boccanegra (attore, tecnico suono-luci), Marie-Françoise Brouillet (costruzione marionette), Nato Frascà (materiali scenici), Alfredo Giuliani (drammaturgia), Franco Libertucci, (sculture-oggetti), Gastone Novelli (materiali e marionette), Riccardo Orsini (tecnico suono-luci, fotografia), Elio Pagliarani (drammaturgia), Achille Perilli (materiali scenici), Remo Remotti (costruzione marionette e manipolazione), Pasquale Nini Santoro (materiali scenici e musiche), Gabriella Toppani (marionette e manipolazione), Carlo Vitali (materiali scenici, manipolazione). Intorno al 1965 si crea un gruppo più stabile: tra loro sodale di primo piano Claudio Previtera (attore e pittore), Umberto Bignardi (materiali scenici), Marcello Aste (regista e direttore delle voci), Tonino Campanelli (attore), Franco Cataldi (attore), Lilletta Colonna, Sabina De Guida (attrice), Michelle De Matteis (attrice), Angela Diana (attrice), Sarah Di Nepi (attrice), Roberto Ricci Edile (attore), Carlo Gego (materiale scenico), Marilù Gleyeses (attrice), Deborah Hayes (attrice), Lillo Monachesi (attore), Carlo Montesi (attore, pittore e realizzatore dei materiali scenici), Luigi Perrone (tecnico suono-luci che partecipa anche come attore in alcuni spettacoli), Mario Romano (attore, pittore e realizzatore dei materiali scenici), Arduino Toppani.


1 Da una nota inviatami da Michael Meschke, agosto 2021 (così come le citazioni che seguono).

2 Ringrazio Marek Waszkiel per avermi fornito il programma.

3 Cfr. M. Ricci, ‘Relazione per il XIV Festival di Parma’ (1967), in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia. Materiali (1960-1976), Torino, Einaudi, 1977, 2 voll., I, pp. 197-199: 197.

4 Utilizzeremo qui indifferentemente ‘figura’ o ‘marionetta’, ad indicare la categoria delle presenze animate.

5 Ricordiamo le mostre Kunst und Licht (Eindhoven, 1966, vi partecipano Munari, Gruppo T, tra gli altri); Lumière et mouvement (Parigi, 1967). Interessante in merito il progetto Teatro delle Mostre alla Galleria La Tartaruga di Roma, maggio 1968; cfr. A. Bonito Oliva, ‘Il Teatro delle Mostre’, Sipario, n. 267, luglio 1968; I. Bernardi, Teatro delle Mostre. Roma, maggio 1968, Milano, Scalpendi Editore, 2014. Ricchissimo il lavoro sulla luce del Gruppo Altro, all’inizio del decennio successivo, cfr. Altro. Dieci anni di lavoro intercodice. Gesto mostra spettacolo struttura-azione experimenta incognite di forme teatrali «A», introduzione di G. Bartolucci, Roma, Edizioni Kappa, [1980], che tra l’altro si confronta anche con i burattini: cfr. Ivi, pp. 36-39.

6 La preziosa intervista video in 18 capitoli realizzata da Luca Franco è disponibile all’indirizzo http://marioricci.net/biografia-media (d’ora in avanti Intervista 2009).

7 Maria Signorelli aveva iniziato la sua lunga storia tra e con le marionette esponendo i Fantocci alla Galleria di Anton Giulio Bragaglia nel 1929.

8 «Il Festival internazionale delle marionette e burattini [...], il Convegno a Villa Falconieri di Frascati, […] una Mostra a L’Aquila […] che ha esposto materiali di ben 18 nazioni al di qua e la di là di ogni ‘cortina’; c’erano indiani, spagnoli, inglesi, polacchi, belgi, olandesi, rumeni russi e così via», Giornale dello spettacolo, 30 dicembre 1961. Ringrazio per la segnalazione Giuseppina Volpicelli.

9 L’indice riporta accanto a ogni nome la professione, M. Signorelli (a cura di), Il Teatro di Burattini e di Marionette e l’Educazione, Quaderno de I problemi della pedagogia, Roma, Istituto di Pedagogia, 1962, p. 153. Nell’introduzione si ricorda che Maria Signorelli è tra i venti membri del ‘Presidium’ di UNIMA.

10 Comparativamente, molto interessante il racconto di Ricci della sua tournée in Polonia nel 1968, con la propria compagnia; cfr. Intervista 2009, cap. 8.

11 L’artista coltiva anche la passione per la scrittura; ricorderà con orgoglio la sua Lettera 22 (cfr. Intervista 2009).

12 M. Ricci, Eternité et modernisme du théâtre de Marionnettes, Archivio Mario Ricci (d’ora in avanti AMR) < http://marioricci.net/biografia-testi >. Non compare indicazione bibliografica; risale verosimilmente alla fine del 1961.

13 Da una comunicazione di Luigi Perrone inviatami in data 08/12/2021.

14 Ivi, [ultima pagina].

15 Cfr. Intervista 2009, cap. 2.

16 Cfr. G. Metken, ‘Entre la marionnette et la machine. Le théâtre mécanique de Harry Kramer’, Puck. La marionnette et les autres arts. Les plasticiens et la marionnette, n. 2, 1989, pp. 54-56; Fundsache: Kramer, hrsg. vom Theaterfigurenmuseum Lübeck, dem Figurentheater Lübeck und der UNIMA Deutschland, Frankfurt am Main, Wilfried Nold Verlag, 2012.

17 Cfr. M. Ricci, ‘Collage per una automitobiografia’, a cura di G. Celant, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, I, pp. 212-221 (originariamente ‘A partire da zero’ di M. Ricci, a cura di G. Celant, Sipario, n. 296, dicembre 1970, pp. 50-55).

18 Naissance de l'art cinétique. L’image du mouvement dans les arts plastiques depuis 1860, Paris, Gauthier-Villars, 1967, trad. it. di G. Giordano, L’arte cinetica. L’immagine del movimento nelle arti plastiche dopo il 1860, Torino, Einaudi, 1970, p. 334 (L’arte cinetica si diffonde), 337 (Verso il 1955 il lumino-cinetismo si diffonde / opere luminose / oggetti luminosi).

19 Ivi, pp. 168-169 (Ispirazione dadaista: Tinguely, Kramer); della citazione interna non è indicata fonte; cfr. anche G. Celant in M. Ricci, ‘Collage per una automitobiografia’, p. 213.

20 M. Ricci, ‘Teatro-rito e Teatro-gioco’ (1967), in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, I, pp. 200-211: 205.

21 Ivi, p. 201.

22 Ci riferiamo al saggio Mensch und Kunstfigur (Uomo e figura artistica), 1924.

23 Cfr. B. Eruli, ‘Dire l’irreprésentable, représenter l’indicible. Théâtre d'images, théâtre de poésie en Italie’, in B. Picon-Vallin (a cura di), La scène et les images, Paris, CNRS, 2002, pp. 297-319 (‘Mario Ricci: du théâtre de vision au cinéma à quatre dimensions’, pp. 301-303).

24 M. Fagiolo, ‘Tra arte figurativa e teatro’, Avanti, 4 giugno 1965.

25 M. Fagiolo, ‘Torna il teatro a passo ridotto’, Avanti, 6 marzo 1965; entrambe le recensioni poi in G. Bartolucci (a cura di), Teatroltre. Scuola romana, Roma, Bulzoni, 1974, ‘Inventario. Gruppo di sperimentazione teatrale’, pp. 6-7.

26 P. Bucarelli (a cura di), Oskar Schlemmer, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, De Luca, [1961-1962].

27 M. Fagiolo, ‘Torna il teatro a passo ridotto’.

28 M. Ricci, ‘Il Teatro Immagine. Spettacoli 1962-1973’, p. 1 (scritto inedito, AMR, per gentile concessione di Filippo Ricci; in Sciami. Nuovo Teatro Made in Italy dal 1963, <https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/mario-ricci-biografia-opere/mario-ricci-il-teatro-immagine-1962-1973-sciami-2015/>.

29 Ibidem.

30 Replicato in altre case private, oltre che nella stanza dove abitava Mario Ricci in Viale Somalia a Roma.

31 Spesso il diavolo o la morte e un altro personaggio.

32 Ibidem. Per tutti gli spettacoli che citiamo cfr. anche D. Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959-1967, Pisa, Titivillus, 2010, pp. 65-68, 126-140.

33 A partire dagli anni Sessanta burattinai e marionettisti cominciano a ‘uscire’ da castelli e teatrini per manipolare a vista, anche sotto l’influenza del Bunraku giapponese che inizia a essere visto in Occidente.

34 Consultabile on line: <http://marioricci.net/>, grazie al prezioso e generoso lavoro di Filippo Ricci, che ringraziamo per l’estrema disponibilità.

35 Cfr. G. Carlo Argan, L’arte moderna 1770 -1970, Firenze, Sansoni, 1970, p. 662. Nello stesso ambito cita l’opera di Francesco Lo Savio, esempio di forma come sintesi assoluta di materia spazio luce, ivi, p. 664.

36 M. Ricci, in ‘Biografia’, <http://marioricci.net/biografia-generale>.

37 M. Ricci, ‘Il Teatro Immagine. Spettacoli 1962-1973’, p. 2.

39 R. Tessari, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture, Firenze, Le Letere, 1996, p. 115.

40 Ivi, p. 116.

41 Numeri 229, 232, 233, 1965.

42 M. Ricci, ‘Il Teatro Immagine. Spettacoli 1962-1973’, p. 2.

43 Ibidem.

44 S. De Feo, L’Espresso, aprile 1965. Per documentazione fotografica cfr. <http://marioricci.net/spettacoli/pelle-dasino>.

45 M. Fagiolo, ‘Tra arte figurativa e teatro’.

46 M. Palumbo, Franco Libertucci scultore. Re, Regine Alfieri, Torri, Cavalli, Latina, Levante Libreria Editrice, 2007, p. 27.

47 Ivi, pp. 30-32.

48 Ivi, p. 35 (testimonianza di Valentino Zeichen).

49 Libertucci partecipa anche a mostre della Galleria Arco d’Alibert (ivi, p. 43).

50 M. Fagiolo, ‘Tra arte figurativa e teatro’.

51 E. Flaiano, ‘Azioni visive alle Orsoline 15’, L’Europeo, aprile 1965.

52 M. Fagiolo, ‘Tra arte figurativa e teatro’.

53 E. Flaiano, ‘Azioni visive alle Orsoline 15’.

54 Cfr. M. Ricci, ‘Teatro-rito e teatro-gioco’, p. 203.

55 «Ognuno inventava la sua storiella», ivi, p. 205.

56 Ibidem.

57 M. Ricci, ‘Il Teatro Immagine. Spettacoli 1962-1973’.

58 Ivi, p. 3. Per documentazione fotografica cfr. <http://marioricci.net/spettacoli/varieta>.

59 M. Ricci, in ‘Biografia’, <http://marioricci.net/biografia-generale>.

60 Ibidem.

61 Ivi.

62 Ivi, p. 4; cfr. D. Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia, p. 129.

63 M. Ricci, ‘Il Teatro Immagine. Spettacoli 1962-1973’, p. 4.

64 M. Ricci, testo nel foglio di sala che presenta i 3 spettacoli insieme (pubblicato in italiano e in inglese), AMR, <http://marioricci.net/wp-content/files_mf/1452967173XVIfestivalinternazionale.pdf>.

65 G. Celant in M. Ricci, ‘Collage per una automitobiografia’, p. 219.

67 Cfr. D. Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia, p. 130; in Giornale a pista centrale oltre alla proiezione si utilizzano tra l’altro le figure; cfr. D. Orecchia, Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959-1979, Milano, Mimesis, 2020, pp. 120-121.

68 D. Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia, p. 130.

69 M. Ricci, ‘Il Teatro Immagine. Spettacoli 1962-1973’, pp. 4-5.

71 Vice, ‘Testi di Balestrini e Ricci alla Ringhiera’, Avanti, 28 ottobre 1967.

72 M. Ricci, Parentesi sull’uso del cinema e la frantumazione dell’immagine, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, I, pp. 225-229: 227.

73 Ibidem; cfr. anche S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia (1972-1982), Roma, Kappa, 1983, p. 84.

74 M. Ricci, in ‘Biografia’, <http://marioricci.net/biografia-generale>. Laterna Magika è il nome che Josef Svoboda dà al dispositivo da lui messo a punto insieme ad Alfred Radok nel 1958, che prevede l’utilizzo di una molteplicità di proiezioni in scena; il nome definirà successivamente il laboratorio annesso al Teatro Nazionale Ceco a Praga.

75 M. Ricci in S. Carandini (a cura di), Memorie dalle cantine. Teatro di ricerca a Roma negli anni ’60 e ’70, Roma, Bulzoni, pp. 169-181: 177.

76 Ricci nota anche come solo Alvin Curran notò questo ‘uso improprio’ degli oggetti, cfr. ibidem.

77 Nel programma lo spettacolo è indicato come Pièces, d’après Edgar Allan Poe et d’après une legende asiatique, J.-P. Thibaudat, Le Festival mondial du théâtre de Nancy. Une utopie théâtrale 1963-1983, Besançon, Les solitaires intempestifs, 2017, p. 376.

78 Gli spettacoli: Jack Jack del gruppo di Minneapolis, Fire e A man who says goodbye to his mother di Bread and Puppet; sulla risonanza europea cfr. il numero di SiparioAmerica Urrà. Il teatro in rivolta, n. 272, dicembre 1968.

79 M. Ricci, in ‘Biografia’, <http://marioricci.net/biografia-generale>.

80 Ibidem.

81 Come conferma il titolo di J.-P. Thibaudat, Le Festival mondial du théâtre de Nancy. Une utopie théâtrale 1963-1983.

82 Ivi, p. 73.

83 Ivi, p. 87.

84 Lo stesso anno partecipa il Teatro Oficina di José Celso, di lì a poco Bob Wilson con il mitico Deafman Glance, 1971, dal 1977 Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch.

85 Ivi, p. 100.

86 Rinviamo al paragrafo Il cinema senza macchina da presa in C. Grazioli, Proiezione, spazio, materia: comporre e scomporre con la luce in V. Valentini, Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013, con saggi di A. Barsotti, C. Grazioli, D. Orecchia, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 325-357.

87 Abbiamo approfondito la concezione dello spettacolo ivi, pp. 328-331, e soprattutto nel Focus Illuminazione, <https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/mario-ricci-illuminazione-1967/>, al quale rinviamo per un’analisi puntuale, compresi la documentazione iconografica, i riferimenti bibliografici, il contesto dell’attività di Umberto Bignardi.

88 Nel settembre 1972 «The Drama Review» ospita un ampio scritto di Mario Ricci. Si tratta del testo che verrà pubblicato in italiano nell’antologia di Quadri (‘Descrizione di Moby Dick’, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, I, pp. 222-236); fondamentale nel contesto il successo della compagnia al Festival di Edimburgo nello stesso anno.

89 Diverso da quello dello spettacolo il testo Illuminazione, pubblicato in N. Balestrini, Ma noi facciamone un’altra, Milano, Feltrinelli, 1968; cfr. Focus Illuminazione.

90 S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio, p. 85.

91 G. Celant in M. Ricci, ‘Collage per un’automitobiografia’, p. 221.

92 S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio, p. 84. Preziosa la testimonianza di Bignardi sulla collaborazione con Ricci, raccolta significativamente da G. Bartolucci in Il ‘gesto’ futurista. Materiali drammaturgici 1968-1969, Roma, Bulzoni, 1969.

93 Cfr. il panorama della ricezione in ‘Biografia’, <http://marioricci.net/biografia-generale>.

94 I ritagli della stampa tedesca sono reperibili in AMR, Rassegna stampa, <http://marioricci.net/spettacoli/james-joyce>.

95 Nelle sue rievocazioni Ricci prende lo spunto dal Barone per soffermarsi sul valore del suono nelle sue creazioni, aspetto che qui non affronteremo per ragioni di spazio ma che nel principio di rumoristica ottenuta da oggetti e materiali disparati corrisponde agli stessi procedimenti adottati sul piano visivo e cinetico. Cfr. Mario Ricci, in ‘Biografia’, <http://marioricci.net/biografia-generale>.

96 Ibidem.

97 M. Ricci, Re Lear da un’idea di gran teatro di William Shakespeare, programma di sala, Teatro di Palazzo Grassi, Venezia, 17 maggio 1970, AMR, <http://marioricci.net/wp-content/files_mf/14833797421970_IntroReLear.pdf>.

98 E. Fadini, ‘Re Lear di M. Ricci. Il gioco e i suoi risvolti’, Rinascita, 1 gennaio 1971, p. 11, AMR.

99 C. Augias, ‘Il cannone di Münchhausen’, L’Espresso, novembre 1969 (articolo pre-spettacolo), AMR.

100 Ibidem.