4.1. Pinocchio e la straordinaria avventura dell’infortunio sintattico: Carmelo Bene da Collodi

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Il mio disprezzo per l’attore contemporaneo è qui: nella sua tanto ricercata incapacità di mentire, nel suo elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d’autoemarginazione; nel suo noioso cicalare di ‘crisi del teatro’ e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d’un teatro della crisi; nella sua tecnica (e se mai così può definirsi un limite penoso) esclusivamente maschia (Bene, 1982, p. 65).

 

Nel 1962 Carmelo Bene apre a Roma il Teatro Laboratorio e lo inaugura il 5 giugno con Pinocchio; dopo una ripresa nel 1964 (a Spoleto) con poche variazioni, presenta una seconda edizione del testo di Collodi nel 1966, una terza nel 1981 e poi ancora un’ultima nel 1998 [fig. 1].

Come l’Amleto, Pinocchio è per Bene un precoce e duraturo amore; un mondo poetico e linguistico a cui fare ritorno, come per confrontarsi con una parte di sé e della propria storia che, pur nelle discontinuità per alcuni aspetti profonde, segna tuttavia la persistenza di motivi poetici e di tratti stilistici in un’attività artistica lunga più di trent’anni.

In questa avventura di riscritture, che qui ripercorrerò rapidamente e per frammenti, la vera cesura si colloca fra le versioni del 1962 e 1966 e quella del 1981: in estrema sintesi, nel passaggio da un impianto epico grottesco a uno decisamente simbolico e lirico; da un Pinocchio realizzato con una compagnia di attori, a un Pinocchio per voce sola (tutte le parti sono varianti d’una sola voce, quella di Bene, eccetto quella della Bambina Provvidenza, interpretata da Lydia Mancinelli), che è il passaggio da un teatro del conflitto agito in scena, anche attraverso il pluriprospettivismo delle presenze attoriali, all’esplosione plurivocale e polifonica dell’io.

 

1. La straordinaria avventura di un burattino e della sua lingua

(collodi)

C’era una volta...
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Il celebre avvio delle Avventure di Pinocchio

 

(bene)

C’era una volta... un re!
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

E così inizia anche, dopo una breve premessa anteposta al testo, la riscrittura di Carmelo Bene pubblicata nel 1964 presso i tipi di Lerici (Bene, 1995, p. 546), corrispondente per lo più al copione dello spettacolo del 1962 e poi di quello del 1966. A differenza di altri autori e opere frequentati da Bene in quegli anni, sui quali l’intervento di riscrittura del testo originario è molto evidente, qui la fedeltà alla lettera delle parti dialogiche del Pinocchio di Collodi è quasi assoluta: gli interventi vanno nella direzione di un’operazione di snellimento per sottrazione, attraverso tagli anche consistenti delle parti narrative, in modo da rendere il testo una partitura più secca ed essenziale, senza che tuttavia vengano modificate le parole, lasciando cioè intatte tanto la lingua quanto la «rivoluzionaria avventura del linguaggio» proprie del testo (Pisa, 1966).

Perché Pinocchio di Collodi, nella sua forza di destrutturazione parodica della forma narrativa tradizionale – «in certi punti sembra di sentire Joyce in anteprima» (Bene in Pisa, 1966) – è un testo rivoluzionario [fig. 2], una partitura perfetta per una recita che è forse il primo grande esempio di distorsione linguistica per Bene: lo spettacolo «dell’infortunio sintattico» e, insieme, della parola e del corpo teatrale in divenire:

Collodi ha realizzato lo smarrimento della sintassi, in certe scorrettezze: ‘la quale’, ‘cui’, messi un po’ a caso [...]. È proprio un discorso tutto musicale, fatto solo di mancanze, afasia totale. La tecnica del non respirare mai, per esempio... Respirare solo all’interno di un parola, e non tra una parola e l’altra... La tonica, la dominante spostata... Non c’è mai una sola cesura (Bene, 1995, p. 537).

2. Metamorfosi del corpo marionetta

(collodi)

Pinocchio (da ‘pinolo’, cibo della cucina povera) nasce all’insegna della fame (come le più antiche maschere popolari, di cui Bene afferma essere il burattino di Collodi l’unico vero erede) e della contraddizione, «diviso senza possibilità di soluzione tra l’universo del piacere e il mondo degli adulti, tra l’attrattiva dell’infanzia e il principio della realtà» (Garboli, 1969, p. 277). Legno non di lusso, buono piuttosto per far riscaldare le stanze d’inverno, legno da ardere cioè, eppure vivo, anzi dotato di un’incoercibile vitalità che, una volta fatto burattino, manterrà la propria inclinazione originaria alla continua trasformazione: il corpo di Pinocchio è un precipitato di alterità disumana, testimoniata dalla disarticolazione delle membra che si scoprono ‘discontinue’ (Geppetto costruisce i piedi del suo burattino con un altro tipo di legno); soggetto a travestimenti e metamorfosi (anche animali) continue, sempre reversibili finché resta burattino, riconosciuto da Pulcinella come uno di famiglia, scaltrito nell’arte della menzogna, Pinocchio è infine attore.

Ed è quell’attore marionetta che è Bene.

 

(bene sessanta)

Le edizioni degli anni Sessanta possono essere ricondotte a un medesimo contesto poetico e stilistico e si fanno espressione di alcuni dei tratti che caratterizzano il percorso di ricerca di Bene nel suo primo periodo di attività: l’amore per una tradizione antinaturalistica del teatro (Pinocchio sarebbe l’ultima e unica maschera della Commedia dell’Arte a noi rimasta); la polemica feroce nei confronti della cultura del tempo e, qui nello specifico, della storia d’Italia dell’ultimo secolo (Pinocchio sarebbe la parabola dell’italiano medio, «che a poco a poco si ammorbidisce contro gli ostacoli che via via incontra fino a diventare un essere incapace di mentire – privo cioè della parte preponderante della sua personalità –, fatto di carne putrescente come tutti gli altri, lui che aveva cominciato duro come un legno dei più resistenti»); la ricerca di una lingua efficace in palcoscenico che elimini «la frattura che esiste tra lingua scritta e lingua parlata» (Bene, in L. C., 1966).

Eccolo dunque in scena nel 1962: «nervoso e smanioso», «combattuto, soffre e si contorce nella sua irresistibile vocazione di scavezzacollo» (Pascutti, 1962, p. 2), salta da un piccolo burattino Pinocchio posto in proscenio a un altro:

Ogni burattino disposto lungo l’ampiezza del proscenio aveva con sé il suo boccascena con tanto di siparietto che abbassava e alzava per apparire e sparire. Un gioco a mosca cieca: «Pinocchio? Pinocchio dove sono? Pinocchio son qua, Pinocchio son qui, prendimi». [...] Pinocchio correndo da un burattino all’altro gridava: «Dove siete?... mi fate paura... mi fate ridere...» (Vendittelli, 2012, p. 90).

Nel 1966: «naso lungo» evidentemente posticcio [fig. 3], «gesti legnosi, spesso inutili, una specie di anchilosi alle giunture» [fig. 4], Bene-Pinocchio ha «qualcosa di canagliesco», «lamentoso, nevrotico, disperato e vindice all’estremo» (De Feo, 1966) [fig. 5], mentre «un tono di voce inusitato, un falsetto aguzzo e toscaneggiante» (Vice, 1966), fa «vendetta di un secolo di manierismo teatrale» (A. Bl., 1966).

In scena, accanto a Bene, gli altri attori che, attraverso l’uso delle maschere e una «una recitazione apertamente e pesantemente retorica» (Prosperi, 1966), esprimono tutta la loro falsità e ambiguità: così, nella versione del 1966, Geppetto (Edoardo Florio), lagnoso e imbecille, è anche il Grillo parlante e il Pappagallo, mentre la Bambina dai capelli turchini (Lydia Mancinelli), lasciva, sguaiata e aggressiva, bellezza classica e ninfomane, che un po’ tortura e un po’ bacia Pinocchio, è anche la volpe «in una specie di identificazione critica dei due personaggi, risolta con l’impiego di una maschera tolta ed indossata a vista del pubblico» (De Feo, 1966).

Tutto, maschere comprese, sottolinea una riscrittura che accentua, in direzione antinaturalistica, grottesca e crudele, il testo di Collodi.

 

(bene ottanta)

Domina il legno, quello duro con cui è costruito Pinocchio, quello del suo mondo.

Domina il buio, quello «di una veglia funebre»: del teatro, dell’attore, del burattino condannato a crescere e diventare uomo.

Domina lo spazio dell’immaginario infantile, del peluche, dice Bene.

Perché la parabola di Pinocchio nel 1981 «è la parabola di chi viene sbozzato, nasce perché in realtà è sognato, immaginato proprio da questa Divina Provvidenza-Bambina, che non è nient’altro che una bambina in una camera dei giochi» (Tessari, in Orecchia, 2007, p. 53), la quale, circondata da enormi animali di cui si diverte a svitare e riavvitare le teste, conduce un gioco svagato e diabolico con «innocente criminalità» (Garrone, 1999).

Pinocchio, a differenza di quanto accadeva venticinque anni prima, è ora quasi immobile, seduto sul suo carretto giocattolo, con il naso posticcio, la giubbetta e i calzoni rossi, le gambe di legno [fig. 6], mentre la sua voce invade lo spazio, nelle mille articolazioni possibili dei vari personaggi e nel gioco evidente della sovrapposizione fra il live e il registrato.

In scena, oltre a Carmelo Bene, Lydia Mancinelli (nei panni della Bambina-Fata dai capelli turchini-Divina Provvidenza) e i fratelli Mascherra (nei panni di tutte le figure fantastiche dell’immaginario infantile della favola: il Gatto, la Volpe, il Grillo parlante, l’Omino di burro, i ciuchini…); tutti con maschere (come enormi peluche) e tutti che recitano in play-back (con la voce di Bene, eccetto la Mancinelli). Solo Bene-Pinocchio recita live, finché è burattino.

 

(bene 1998)

Luttuoso. Congelato. Crudele. Strutturalmente meta-teatrale, straniato in ogni passaggio, senza più la fantasiosa tenerezza (unita alla ferocia) che dominava l’immaginario infantile del peluche nell’edizione precedente. In una scena dominata dal banco di scuola di Pinocchio, da un lato, e dalla cattedra minacciosa da cui parlano gli altri personaggi/maschere (tutti con la voce in play-back di Bene eccetto la bambina, che ha la voce di Lydia Mancinelli e il corpo di Sonia Bergamasco) dall’altro, si consuma l’ultima tappa dell’avventura di Pinocchio per Bene.

Le maschere di Fario e, in particolare quella della Bambina dai capelli turchini, sono segnate dalle crepe [fig. 7-7bis]. Segno del tempo che passa, segno di decadenza, segno della corrosione di quel mondo, del teatro. La bambina non gioca più nella sua camera. «Sono tutti morti», sembra dire (Collodi, 1995, p. 409).

Vidi questa edizione del Pinocchio al Teatro Argentina il 18 dicembre. Poco più di un’ora di intensa emozione con un finale che mi parve un grande, intenso, tragico addio alle scene. Un canto del cigno. D’altra parte era stato lo stesso Bene ad affermare: Pinocchio sono io.

 

3. Addio mascherine

(collodi)

L’addio di Pinocchio al mondo per diventare un bambino per bene è una cantilena di proverbi, «frasi fatte, frasi sfatte» (come avrebbe detto Petrolini). E quando poi, ormai ragazzino, guarderà il burattino accasciato su una sedia, gli sembrerà buffo, «col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto» (cap. xxxvi). Eppure Le avventure terminano con tre punti di sospensione. Forse, sembra dire Collodi per riscattare un finale un po’ troppo pacificante, la corsa non finisce lì.

 

(bene)

Così si conclude anche l’edizione a stampa del 1964; ma non così le recite degli anni Sessanta.

Quando Pinocchio si toglie il naso, al Teatro Laboratorio, nel 1962, le bandiere tricolori vengono fatte srotolare da ogni attore per tutto il locale, mentre la musica dei Pagliacci di Leoncavallo rompe i timpani; a Spoleto, vietate le bandiere, tre proiettori ad alto voltaggio gettano luci verdi rosse e bianche contro il pubblico; più tardi, nella ripresa del 1966 al Beat 72, dall’alto «le bandiere tricolori calano mentre irrompe un fragoroso Can-Can», in un clima di «esasperazione grottesca» (Vice, 1966). È la fine della possibilità di mentire subissata dal falso nazionalismo di un’Italietta che fatica ad avere un’identità.

Nelle edizioni del 1981 e del 1998 il finale (luttuoso) riprende la struttura metalinguistica dell’intera recita: Bene/Pinocchio dapprima legge dalle pagine dell’enorme libro la lunga battuta del burattino al padre appena ritrovato e poi, fissando nel vuoto, toltosi il naso, con gli occhi che hanno la fissità della morte, condannato a parlare per proverbi, pronuncia le famose strofe cantilenanti «Addio mascherine» [fig. 8]. Il play-back della versione del 1981, che Bene usa per Pinocchio solo in quest’ultimo passaggio, sottolinea proprio l’inversione di un finale buonista e riconciliante.

Quel naso finto, al quale Pinocchio rinuncia, segna la fine della grande finzione dell’arte nel mondo contemporaneo; la tragica parabola della decadenza della menzogna (Wilde) nella modernità, quella menzogna che non si occulta ma che mostra il naso.

 

Bibliografia

C. Bene, La voce di Narciso, Milano, Il Saggiatore1982, p. 65.

C. Bene, Pinocchio e Proposte per il teatro [1964], in Id., Opere con l’Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, pp. 535-647.

A. Bl., ‘Uno spettacolo d’avanguardia: il rivoluzionario “Pinocchio” di Carmelo Bene all’Alfieri’, La Stampa, 18 maggio 1966.

L. C., ‘È un “italiano medio” per Carmelo Bene il “Pinocchio” di Collodi’, Il Messaggero, 17 marzo 1966.

C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, in Id., Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 359-526.

S. De Feo, ‘Si salva solo Pinocchio’, L’Espresso, 27 marzo 1966.

C. Garboli, Pinocchio [1968], in Id, La stanza segreta, Milano, Mondadori, 1969.

N. Garrone, ‘E quel burattino, un giorno divenne un enfant terrible…’, La Repubblica, 8 dicembre 1999.

Vice, ‘Torturato da un’ambigua Fatina il Pinocchio di Carmelo Bene’, Gazzetta del Popolo, 18 maggio 1966.

D. Orecchia (a cura di), I Pinocchi di Carmelo Bene, sezione monografica di L’asino di B., 13, 2007, pp. 31-63.

L. Pascutti, ‘Le “Prime” del mese’, Arcoscenico, giugno 1962, p. 2.

F. Pisa, ‘Per me Pinocchio è un rivoluzionario’, Momento Sera, 14-15 marzo 1966.

G. Pros. [G. Prosperi], ‘Carmelo Bene all’assalto del mito di Pinocchio’, Il Tempo, 18 marzo 1966.

F. Quadri, ‘Teatro’, Panorama, 4 gennaio 1981, p. 16.

S. Vendittelli, ‘Carmelo Bene. I primi dieci anni’, a cura di A. Petrini, Mimesi Journal, I, 2, 2012, pp. 82-106.