1. Corpi pensanti nella danza di Roberto Zappalà
Catania è una città dicotomicamente sospesa tra Mediterraneo ed Etna, tra acqua e lava; non è quindi semplice riuscire a dare concretezza e materialità a un universo fatto di istinti e poesia, di corpi impastati di terra e di contraddittorie passioni.
Roberto Zappalà, coreografo contemporaneo catanese, ha creato un linguaggio tecnico-espressivo assolutamente unico; concentratosi dapprima sulla ‘sicilianità' (si ricordino soprattutto i progetti Re-Mapping Sicily e Instruments, 2007), è approdato a una narrazione scenico-corporea assolutamente trasversale in grado di abbracciare, e raccontare, tematiche dal sapore universale. Questa apertura non ha implicato l’abbandono del gusto ‘dolce-amaro’ tipico della Sicilia: i ‘suoi’ corpi rispondono ancora a quell’istintualità primitiva teorizzata all’interno del testo Corpo Istintivo,[1] un vero e proprio ‘divenire animali’ in costante dialettica con la terra e con la parte più intima del Sé.
I danzatori di Roberto Zappalà sono potenti, forti, flessibili, e giocano con le articolazioni sfruttando l’energia del pavimento, come se i propri arti fossero delle radici che si nutrono del suolo. Nelle sue coreografie sono ben evidenti quegli elementi di rottura dalla tradizione ballettistica tipici della danza contemporanea, primo fra tutti una nuova concezione del corpo e delle sue possibili interazioni con lo spazio:[2] il corpo del ‘nuovo danzatore’ è innanzitutto un unicum con la mente, un’opera d’arte assoluta che parla di sé e del mondo circostante mediante una pluralità di codici espressivo-linguistici mutuati dalla danza, dal teatro, dalla musica, dalla pittura.
Questo nuovo modo d’intendere l’arte tersicorea pone al centro l’essere umano nella sua più nuda veritas, con le sue pulsioni, le sue follie, le sue contraddizioni e la sua coscienza frammentaria e frammentata;[3] «chi ha un Corpo capace di molte cose, ha una Mente la cui massima parte è eterna», sosteneva Spinoza nella sua Etica e così lo stesso Roberto Zappalà ha scelto di muoversi nella direzione di una fusione tra intelletto e movimento, cercando di condurre i propri danzatori verso una spontaneità fisica che si sviluppi a partire da un’esigenza interiore.
Per il coreografo catanese una tra le azioni fondamentali verso cui puntare è senza dubbio l’abbandono del pudore, cioè di quello spesso strato di blocchi fisici ed emozionali che ci impediscono di esplorare la nostra più segreta intimità: un luogo silenzioso fatto di istinto e ascolto. Utilizzando felici metafore mutuate dal linguaggio ecclesiastico e religioso, Zappalà ritiene che il danzatore debba essere ‘devoto’ nei confronti del proprio corpo e del lavoro che quest’unione totale di carne e pensiero riesce a produrre mediante una severa disciplina.
Roberto Zappalà ha concretizzato questa sua profonda esigenza di esprimere un ‘comune sentire’ mediante l’ambizioso e complesso progetto Transiti Humanitatis. Diviso in quattro tappe (Invenzioni a tre voci, Oratorio per Eva, La Nona e I am beautiful), il ciclo di spettacoli propone una riflessione in musica e movimento sull’uomo e sull’umanità in senso lato, evidenziandone l’intrinseca conflittualità nelle azioni e nei pensieri.
I diversi step sono stati volutamente realizzati mediante delle residenze e delle collaborazioni con teatri e strutture altre rispetto a Scenario Pubblico, avvalendosi di musicisti professionisti e delle scelte drammaturgiche e testuali di Nello Calabrò, il cui sodalizio con Zappalà si è dimostrato assolutamente fecondo e fruttifero.
Differenti l’un l’altro nella composizione coreografica e nella narrazione scenica, i quattro lavori sono indubbiamente accumunati dal concetto di ‘umanità in transito’: quella narrata dal coreografo catanese è, infatti, un’umanità in costante e dialettico moto, un genus universale in cui l’assenza di immobilismo diviene sinonimo d’assenza di risposte certe, immutabili, assolute. Un anelito alla fratellanza in un mondo di libero fluire.
Evocando il soggetto nomade[4] teorizzato da Rosi Braidotti, i corpi ‘che transitano’ in scena sono consapevoli della non fissità dei confini, siano essi fisici o meramente intellettuali, e anelano a una gestualità spontanea ma nel contempo altamente evocativa; un movimento che sappia trasformare la naturalezza in poesia di carne. Zappalà desidera indagare un universo senza razze, sesso, religioni, mediante una gestualità a tratti dolce, morbida, ma improvvisamente in grado di tramutarsi in moto selvaggio, violento e animalesco. Attraverso uno sguardo in soggettiva si propone di narrare tematiche e discorsi dai confini fluidi in costante mutamento, poeticamente in transito verso non-luoghi.
Questo nomadismo contemporaneo, desideroso di spazi in cui i limiti possano infrangersi per poi ricrearsi, conduce inevitabilmente verso una definizione (o meglio ri-defizione) del soggetto e della soggettività: da qui l’approdo al concetto di donna in quanto figura nomade ed in transito all’interno di una storia tradizionalmente narrata da uomini.[5] Non è un caso che Roberto Zappalà abbia dedicato le prime due tappe del progetto Transiti Humanitatis a delle figure femminili, raggiungendo il suo acme in Oratorio per Eva, spettacolo in cui il coreografo mette in scena un mito intriso di sangue e rinascita.
2. Il sussulto dei corpi in Oratorio per Eva
Ogni percorso coreografico di Roberto Zappalà nasce sempre da un ‘pre-testo’, cioè da un profondo bisogno di raccontare e raccontarsi mediante il corpo dialogante dei performer. Oratorio per Eva si inserisce all’interno di un progetto assai ambizioso (e probabilmente non ancora terminato nonostante le quattro tappe annunciate, e già portate in scena) legato, come già ricordato, alla volontà di narrare le molteplici e complesse sfaccettature dell’umanità.
Lo spettacolo è incentrato sulla figura della donna (simboleggiata da un’Eva universale ma nel contempo ‘quotidiana’), e sviluppa un motivo in realtà già anticipato all’interno della prima tappa di Transiti Humanitatis, cioè Invenzioni a tre voci. La scelta del titolo non è ovviamente casuale: il coreografo ha voluto utilizzare un termine che potesse assurgere a emblema di luogo del dialogo (‘oratorio’), del confronto, e dunque a paradigma della comunicazione e del raccontarsi mediante l’arte. ‘Eva’ diviene quindi la necessaria continuazione di una ricerca espressiva già ispirata al tema della sofferenza dei corpi, ma che, prima di Invenzioni a tre voci, non aveva ancora coinvolto l’essenza del femminile.
Eva è splendore, dolore lancinante, corpo amato, adorato, ferito e disprezzato. La genesi e lo sviluppo dello spettacolo si fondano sulla narrazione autobiografica della danzatrice Maud de la Purification: la violenza carnale viene silenziosamente urlata da chi si ritrova a essere vittima della propria bellezza. A questo elemento si aggiunge il desiderio profondo di esplorare il femminile inteso come essenza di una sacralità cristiana e occidentale. La fabula della creazione si tramuta in un apparentemente inspiegabile sussulto di gesti e voci, in un denso intrico di respiri e spasmi. All’interno di questo quadro il maschile emerge come antitesi del femminile e voluta denuncia, da parte del coreografo, di un imperante antropocentrismo culturale: sono corpi di uomini in transito, dal numero variabile in relazione al luogo della rappresentazione, che si interrogano sulla loro idea di donna, di Eva quotidiana e universale. Interessante (fa notare lo stesso Zappalà) come, a prescindere dalla città e dalla temperie culturale di riferimento, i due termini maggiormente utilizzati da chi si presta a tali attività laboratoriali finalizzate alla messa in scena siano, quasi sempre, ‘madre’ e ‘puttana’; sembra quindi che la lettura dualistica di opposti legata all’essere donna sia oramai vittima di un radicalismo antropocentrico che non trova soluzioni: sante o peccatrici, Maria o Eva, a Catania come a Vienna.
Roberto Zappalà parte dal gesto, dal movimento, dall’esigenza fisica di nutrirsi dello spazio, per poi giungere a un calibrato utilizzo della parola, mai casuale, ma sempre legato a una volontà enfatica, e a tratti esplicativa, di chiarificare il linguaggio del corpo senza cadere in una mera lettura didascalica; essenziale in tal senso l’apporto intuitivo e letterario del maestro e sceneggiatore Nello Calabrò.
La strutturazione coreografica è l’asse portante di Oratorio per Eva, nonostante l’incipit sia stato realizzato a partire da un processo laboratoriale di ricerca intima e personale: un lavoro ancestrale, ad occhi chiusi, di simulazione del grembo materno, luogo poetico di ‘pre-coscienza’ e ‘pre-conoscenza’ del dolore offerto dal mondo. L’arte tersicorea è, per l’artista catanese, una tensione espressiva di muscoli e ossa che mai deve scivolare in mero astrattismo privo di contenuti e forma; per lui la danza deve essere «un felice e riuscito connubio d’estetica e significazione».[6]
Il corpo di Maud diviene una penna che scrive racconti di genesi, di sofferenza, di speranza, in un’ottica coreografica che vuole rendersi filosofia, pensiero, e non solamente gesto. La narrazione scenica (principalmente lineare) e la struttura drammaturgica dell’intera opera rispondono all’esigenza profonda dello stesso coreografo di realizzare un nuovo umanesimo incentrato non più sullo spirito, bensì sul corpo: un ritorno alla carne, alla terra, alla concretezza della materia come punto di partenza per la ri-scoperta di un sé più profondo, ancestrale, libero e aperto a un dialogo senza frontiere. Transiti Humanitatis, per l’appunto.
3. Eva, troia e madre
Oratorio per Eva, con una sola danzatrice in scena (la francese Maud de la Purification), si sviluppa a partire da un’antica ricerca sul tema della sofferenza del corpo e della contraddittorietà che appartiene intrinsecamente all’atto del venire al mondo.
Lo spettacolo, andato in scena in prima assoluta il 3 dicembre del 2014 presso il Teatro Odeon di Vienna[7] (Impulstanz Specials), si avvale della collaborazione del violinista Giovanni Seminerio (autore, tra l’altro, delle musiche originali) e del coro di cinque voci a cappella, il Quintetto Zefiro, dedito a intonare alcuni brani tratti dai Madrigali di Claudio Monteverdi.
Il personaggio di Eva, mito femminile per antonomasia dell’Antico Testamento, diviene, attraverso il linguaggio del coreografo catanese, simbolo dell’umanità tutta ma, soprattutto, assurge a emblema contemporaneo dell’essere-donna nel mondo. A partire da uno sguardo in soggettiva e dal racconto di un corpo solitario in scena, si vuole giungere alla narrazione di un disagio ancora attuale, di una quotidiana violenza che coinvolge le donne.
Questa seconda tappa del progetto Transiti Humanitatis ha inizio con i movimenti convulsi della straordinaria protagonista, la quale sembra navigare nelle acque uterine del grembo materno; l’esile corpo della danzatrice è coperto da una tuta chiarissima e talmente sottile da mostrare con evidenza i (di)segni della sua muscolatura tesa e flessibile, carne e pensiero che si dibattono violentemente durante il tragico momento della nascita.
Come in una danza larvale, Maud si spoglia in scena della sua eterea pelle e indossa un completo rosso acceso in grado di creare un fortissimo contrasto cromatico: dal biancore quasi cipria le carni si tingono del colore del sangue, della passione, della terra, del fuoco e perfino del mestruo che, seppur dato biologico, per secoli ha costituito motivo di allontanamento sociale della donna, vista come potenziale agente di contaminazione e distruzione. La ciclicità intrinseca al femminile è stata difatti assai sovente considerata pericolosa poiché simile alla natura selvaggia del mondo e al luminoso mistero notturno dell’astro lunare.
Il corpo dialogante di Maud de la Purification, rosso e potente nella sua estrema esilità, si contorce in movimenti complessi, ora avvolgenti e circolari, ora taglienti come lame; gli arti, lunghissimi e scattanti, si tramutano in radici e rami, sviluppando una tensione legata alla terra e all’aria, alla materialità e al mondo più etereo delle idee e della spiritualità.
Come avviene in buona parte della produzione coreografica contemporanea, anche in Oratorio per Eva l’arte tersicorea fa ampio uso del verbum e delle infinite possibilità espressive della voce; le parole divengono utile strumento per creare una sorta di filo, non didascalico, ma sottilmente esplicativo, di ciò che il corpo della danzatrice vorrebbe raccontare, o forse gridare, al suo pubblico.
Maud parla attraverso le lettere d’inchiostro del Diario di Eva di Mark Twain, citandolo proprio a partire dal suo incipit:
Sabato. Ora ho un giorno di vita. Quasi un giorno intero. Sono arrivata ieri. Almeno così mi sembra. E credo sia così, perché se è esistito un giorno-prima-di-ieri, quando quel giorno c’era non c'ero io, altrimenti me ne ricorderei. Naturalmente è possibile che quel giorno ci sia stato e che io non me ne sia accorta.
Benissimo; da ora in poi starò molto attenta e se mai ci saranno dei giorni-prima-di-ieri, ne prenderò nota. La cosa migliore sarà cominciare bene e fare in modo che le mie memorie non si presentino confuse, perché l'istinto mi dice che saranno proprio questi i particolari ai quali un giorno gli storici daranno peso.
Le parole lasciano quindi spazio alla carne, e alle infinite potenzialità che il corpo ha di raccontare storie ed emozioni attraverso un linguaggio fatto di gesti, codici e libertà.
L’eco accademica, costituita dalla presenza di alcuni elementi e posizioni mutuati dal balletto (en dehors, grand battement, relevè, quarta, quinta, e via dicendo) perde la propria purezza originaria per indossare il gusto tipico dell’estetica contemporanea: non più linee perfette bensì spezzate, ‘sporcate’, singhiozzate.
La carnalità, l’energia, la potenza, l’onestà, ma anche lo sporco, quindi l’imperfezione, all’apparenza in antitesi alla geometria, credo siano tutte caratteristiche della mia danza ma anche elementi provenienti dalla terra. Come la musica, da sempre, strumento organico della mia vita e della mia arte.[8]
La danzatrice si perde in tilt, salti, drop continui; il ‘centro’ (altra parola chiave del linguaggio della Compagnia Zappalà Danza) è il luogo dal quale si sviluppano i fuori asse: la perdita di equilibrio che ne deriva è in realtà l’abile gioco di contrazione e rilassamento, e l’assenza di controllo è solamente apparente poiché dettata dalla profonda conoscenza tecnica della performer.
Come lo stesso Erick Hawkins sosteneva in The Body is a Clear Place, la tranquillità delle membra e la capacità di gestire il corpo nello spazio debbono essere necessariamente frutto di un duro e rigoroso training fisico e mentale, il quale deve mantenere, però, delle chiare distanze dalle logiche costrittive proprie del balletto classico. Zappalà ha indubbiamente fatto propria questa ‘religione del corpo’, creando un linguaggio coreografico basato su un’assoluta fisicità (quasi animalesca) in costante dialettica con una voluntas intellettuale e un sentire concettuale; Maud rende poesia una danza che si propone d’essere etica, devota e istintiva.
Denigrata, amata, disprezzata e ammirata, l’Eva dai mille volti subisce e ascolta, dando silenziosamente la schiena al pubblico, le parole taglienti, oltraggiose, a tratti persino di misterica e religiosa ammirazione, di nove corpi in transito, tutti uomini rigorosamente ‘reclutati’ tra non professionisti durante il laboratorio che precede, di città in città, la messa in scena.
«Troia», «paradiso», «bellezza», «inganno», «conoscenza», «peccato», «donna», «mamma»: sono questi gli appellativi destinati ad un’Eva universale. Interessante come si collochino agli antipodi la prima e l’ultima parola di questa pioggia crescente di voci; entrambe le espressioni sono il frutto di una secolare lettura dicotomica della figura femminile, da santificare se votata corpo ed anima alla cura del nido familiare, da oltraggiare se libera d’amare e di scegliere il proprio destino.
L’antropologa Ida Magli[9] ha sottolineato come la donna sia stata considerata una vera e propria merce di scambio tra uomini all’interno dei vari gruppi sociali: una circolazione di oggetti di carne che, attraverso il contratto nuziale, sono passati di uomo in uomo, garantendo la vita del gruppo medesimo. Creature potenzialmente pericolose poiché intimamente legate alla ciclicità della natura, sono state tacciate di stregoneria, di lascivia, di perdizione poiché colpevoli di un allontanamento dalle norme androcentriche.
Maud, rimasta immobile e in silenzio, spalle al pubblico, riceve come ultimo appellativo più volte reiterato il termine «mamma»: chi lo pronuncia è il più giovane dei nove corpi maschili in transito, un ragazzino dal volto angelico e dall’espressione fissa e immutabile. Di fronte alla stasi del fanciullo, e degli altri uomini, la danzatrice inizia a seguire un bit interno, espressione esteriore e selvaggia d’un frantumarsi d’ossa. Le opposte polarità mobile/immobile si fronteggiano in scena, disegnando un dialogo che coinvolge il corpo e la lingua.
Maud/Eva si flette, si contorce in spasmi e sussulti che sembrano anelare a una catarsi; continuando a muoversi con bruschi scatti, si volge nuovamente verso il pubblico per riprendere a citare un passo del Diario di Eva di Mark Twain:
Infatti ho la sensazione di essere un esperimento, e è esattamente come un esperimento che mi sembra di sentirmi; sarebbe impossibile, per chiunque, sentirsi un esperimento più di quanto mi ci senta io, così sto per arrivare alla conclusione che è proprio questo quello che SONO – un esperimento; un semplice esperimento, nient'altro di più.
Interessante come il concetto di ‘esperimento’ sia stato già precedentemente inserito all’interno di Invenzioni a tre voci, creando una significativa circolarità con al centro, indubbiamente, ‘l’essere donna’; una storia dove il maschile indossa i panni del divino, del potere politico e di quello sociale, un racconto in cui il dio (‘maschio’) ha generato, forse per divertimento, forse per curiosità, un’originale creatura: Eva.
I nove corpi in transito si tramutano da attori in spettatori, in occhio sociale maschile che osserva in silenzio l’esperimento-donna nel suo muoversi, nel suo tentativo angosciante di catarsi e liberazione al suono stridente del violino di Giovanni Seminerio. Braccia, gambe, ginocchia, polsi e gomiti si disarticolano, gli occhi si perdono in visioni a noi incomprensibili, gli arti scacciano fantasmi e paure lottando contro il suolo e contro l’aria: presenza della natura e dimensione onirica si fondono e con-fondono in un’interpretazione magistrale.
Viene più volte reiterato il gesto di una mano, o di entrambe le mani, che spingono ora le natiche, ora i quadricipiti, ora i muscoli lombari, verso precise direzioni dello spazio scenico, divenendo motore propulsore del movimento. A partire da un input viene generata una catena dinamica che trova nell’impulso iniziale, e nella necessità comunicativa ed espressiva di questo, la sua ragion d’essere.
Gli uomini si rianimano e divengono carne e respiro in uno spazio a scacchiera dove la donna è costretta a terminare la propria danza libera e catartica accasciandosi al suolo e abbandonandosi alla stasi dell’attesa: qui è interessante come emerga uno tra i fili più importanti del progetto Transiti Humanitatis, cioè la necessaria tensione umana alla fratellanza, all’accoglienza, alla volontà di aiutare l’Altro, sempre. Le mani maschili si tendono, le schiene si piegano, i corpi si pongono in posizione di ascolto e contatto; statue di carne, gli uomini si genuflettono e si inchinano in una silenziosa richiesta di perdono rivolta ad Eva, figura universale. Si chiede perdono, ma qual è la colpa da espiare?
Quali le mani da perdonare, e perché? Il racconto dello stupro diviene una tre le scene più drammatiche dell’intero spettacolo: Maud, seduta, narra il dolore di una violenza subita e sepolta, come un terribile segreto, nel più assoluto e claustrofobico silenzio; la danzatrice sceglie però di interrompere questa lunga e triste eco familiare «esponendola alla luce, creando una nuova eco che prenderà il suo posto con più forza». La frase citata viene pronunciata dalla stessa performer e attinge al già citato Diario di Eva di Mark Twain.
Questo è il momento in cui la donna sembra risorgere indossando nuove membra e nuovi gesti; ecco ritornare gli scricchiolii delle ossa insieme a un movimento di pura disarticolazione, mentre i corpi in transito riprendono un respiro che non poteva che sospendersi dinanzi a cotanta sofferenza. Eva, figura biblica e mito di ogni tempo, è stata tendenzialmente posta in antitesi alla virginea Maria, madre inviolata di Cristo, all’interno dell’immaginario collettivo di matrice androcentrica e cristiana:[10] la prima peccatrice e ribelle, la seconda pura e docilmente sottomessa. Eva, per l’appunto, fatalmente destinata ad essere assoggettata all’uomo poiché biblicamente nata da una sua costola.
La Eva/donna di Zappalà riesce però a liberarsi, a ri-crearsi mediante una catarsi scenica che sembra raccontare una nuova possibilità, un nuovo destino di libertà e scelta. L’esperimento-donna è «unico, meraviglioso, fruttuoso, prezioso, stupendo, splendido…». Si chiude così, in un lento soffocarsi delle luci in scena ed in un sommesso bisbiglio di ossa e carni, Oratorio per Eva. Un corpo continua a muoversi, una voce continua a farsi udire; c’è ancora speranza, c’è ancora vita, ed è questo il senso, pregno di positività, dell’intero progetto Transiti Humanitatis.
1 Corpo Istintivo (2013) è il terzo volume di una piccola “trilogia” scritta da Roberto Zappalà e dedicata al suo linguaggio coreografico e alla sua idea di relazione ‘corpo-spazio’. I primi due testi sono Corpo Devoto (2009) e Corpo Etico (2012), tutti editi per Scenario Pubblico. In essi vengono esplicitati, e spiegati, gli elementi fondamentali della “sua” danza, ponendo particolare riguardo ed attenzione ai concetti di onestà, libertà, percezione e conoscenza. A livello meno teorico, e più fisico, il coreografo catanese conferisce grande importanza ad alcune coppie apparentemente antitetiche ma che, in realtà, rispecchiano la complessità della lettura artistica contemporanea: centro e periferia, instabilità e controllo, disarticolazione e fluidità, utilizzo della voce e presenza/ascolto del silenzio. Un rigoroso training fisico non può che costituire la base fondamentale su sui ergere le proprie costruzioni coreografiche; una vera e propria disciplina quasi monastica, in cui l’aspetto laboratoriale e di libera improvvisazione si coniuga con le inevitabili “leggi” di un linguaggio coreografico che, per sua stessa natura, deve circoscrivere e limitare le scelte autonome dei danzatori.
2 Cfr. V. Di Bernanrdi, Cosa può la danza. Saggio sul corpo, Roma, Bulzoni Editore, 2012.
3 Cfr. A. Senatore, La danza d’autore. Vent’anni di danza contemporanea in Italia, Novara, Utet, 2007 e A. Pontremoli, La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2004.
4 Cfr. R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli Editore, 1995.
5 Cfr. T. De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996. Si confronti anche, della stessa autrice, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999.
6 R. Zappalà, intervista rilasciata a F. Auteri, Catania, maggio 2016.
7 La messa in scena a cui si farà riferimento sarà però quella del dicembre 2014 presso Scenario Pubblico, Catania.
8 R. Zappalà, Corpo Etico, Catania, Scenario Libri, 2012, pag. 17.
9 Cfr. I. Magli, La femmina dell’uomo, Roma-Bari, Laterza, 1982.
10 Cfr. G. Sgrena, Dio odia le donne, Milano, Il saggiatore, 2016.