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Oggetto d’indagine del recente studio di Michele Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, pubblicato a luglio 2017 per Quodlibet, è, come suggerito dal titolo, il meraviglioso quanto misterioso affresco palermitano, che, eseguito intorno alla metà del XV secolo da due pittori tutt’ora sconosciuti per il cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo in Palazzo Sclafani, si trova oggi conservato presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.

Ciò che propone Cometa in questa sede, mettendo da parte i già consolidati strumenti di ricerca degli storici dell’arte, è un nuovo approccio di analisi all’opera che affonda le sue radici sia nei paradigmi della cultura visuale contemporanea, sia nelle considerazioni proprie della storia dei concetti teorizzata da Koselleck. L’autore così, invece di «dissezionare in brandelli» l’opera, preferisce porsi in ascolto della polifonia di voci e di sguardi che la compongono, con l’obbiettivo di connettere queste varie tessere visive e ricercarne l’armonia di fondo, la quale, costruita su una fitta trama di relazioni, a saperla guardare, prenderebbe la forma di un vero e proprio intreccio narrativo. Il racconto, interamente affidato al muto dialogo messo in scena tra i personaggi e tra questi e lo spazio che li ospita, si srotola come in una giostra in curve ed ellissi, illustrando gli atteggiamenti e le sfumature dell’animo umano, Stimmungen come le definisce Cometa, che si manifestano al sopraggiungere della morte. È proprio la necessità di questa storia l’unico antidoto che rimane all’uomo contro la dissoluzione della vita.

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Con Tre di coppie, andato in scena in prima assoluta al Teatro Biondo di Palermo dal 24 al 28 febbraio 2016, Franco Maresco conferma l’attenzione verso la parabola di Franco Scaldati dopo il sentito omaggio visivo Gli uomini di questa città non li conosco. Il titolo, con un riuscito gioco onomastico, si ricollega alla breve esperienza de Il re di coppe, teatro situato al centro del capoluogo siciliano e fondato dallo stesso artista palermitano. Non si tratta di una semplice antologia scaldatiana ma, per stessa ammissione del regista, di «una serie di “variazioni” sul tema del doppio». Quelle ricomposte da Maresco e Claudia Uzzo sono tutte coppie che dialogano con un ‘tre’, il numero effettivo degli attori presenti in scena: Gino Carista, Giacomo Civiletti e Melino Imparato si scambiano costantemente ruoli e battute, incarnando alcuni dei personaggi più celebri del denso universo teatrale del ‘Sarto’.

Il buio e la notte si configurano come le coordinate privilegiate della messa in scena, che già dall’incipit dichiara il proprio omaggio all’astro lunare da sempre al centro della scrittura di Scaldati; se una grossa luna piena domina il fondale scuro, una slabbrata costellazione di volti si illumina evocando un mondo di poesia nel quale il sonno rimeggia con la morte.

I visi degli attori appaiono dentro cerchi di luce, in un persistente gioco a nascondere che disegna straniate traiettorie: non ci sono corpi, in questo frammentato spazio d’ombre, ma solo bocche che parlano un dialetto palermitano carico di sonorità e di arzigogolati giochi di parole.

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La nuova stagione del Teatro Massimo di Palermo è stata inaugurata da un’opera presente di rado nei cartelloni lirici: Feuersnot di Richard Strauss (prima rappresentazione a Dresda nel 1901). Dopo gli allestimenti realizzati alla Scala di Milano nel 1912 e al Carlo Felice di Genova nel 1938 (da segnalare anche l’esecuzione alla RAI di Torino nel 1973) il ‘poema cantato’ in atto unico su libretto di Ernst von Wolzogen torna sulla scena italiana, per la prima volta in lingua originale, accompagnato da una buona dose di curiosità; certamente dovuta – più che all’ascolto di uno Strauss quasi inedito – al debutto sul palcoscenico più prestigioso di Palermo di Emma Dante, artista poliedrica di rilievo ormai internazionale (a luglio approderà al festival di Avignone con Le sorelle Macaluso) ma da sempre in aperto conflitto con la sua città. Le tensioni che non senza ambiguità la legano all’antica capitale normanna, fonte inesausta di ispirazione e tormento, sono state in parte tematizzate nella prima esperienza cinematografica di Dante Via Castellana bandiera (pellicola tratta dal suo omonimo romanzo) che ha riscosso una serie di riconoscimenti tra cui la prestigiosa Coppa Volpi per l’interpretazione di Elena Cotta.

La scelta di occuparsi della regia di Feuersnot non è affatto casuale: come confessa la stessa Dante, è forte per lei il legame col protagonista della pièce, un presunto mago disadattato (per altro già alter ego di Strauss) osteggiato dalla sua città, una Monaco che sulla scena del Massimo assume le inconfondibili sembianze e le calde luci di Palermo. La trama dell’opera si sviluppa attorno ai contrasti amorosi tra Kunrad (che Dante trasforma in musicista emarginato dalla società) e la giovane Diemut che, per vendicarsi di un bacio ‘rubatole’ dallo sfrontato pretendente, lo espone al pubblico ludibrio lasciandolo sospeso in un cesto (nel nostro caso una sedia) davanti la sua finestra. Kunrad, ferito nel suo orgoglio, spegne per ripicca tutti i fuochi della festa di San Giovanni, intimando che la luce potrà tornare solo se nei cuori si riaccenderà il vero amore. Diemut, pentita, non può che accogliere Kunrad nella sua stanza, consentendo il ritorno del fuoco e la continuazione della festa.

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