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Il contributo ha come oggetto di indagine il FIC Festival (Focolaio di Infezione creativa) realizzato sotto la direzione artistica di Scenario Pubblico Compagnia Zappalà Danza, centro di rilevante interesse nazionale dal 2022. L’evento preso in esame – giunto alla sua V edizione – ha visto il susseguirsi di dieci giornate di spettacoli (dal 3 al 12 maggio 2024), incentrate sul repertorio di danza contemporanea. Dopo una breve panoramica sulla storia della danza, delle svariate forme e significati che ha assunto nel corso del tempo e, in secondo luogo, del linguaggio MoDem, fondato dal danzatore e coreografo Roberto Zappalà, si è scelto di focalizzare l’attenzione su cinque delle proposte artistiche in programma: La Nona (dal caos, il corpo); Gisellə(studio),  rispettivamente in formula workshop e prova aperta, Until the Lions; Variazioni Golberg; Bastard Sunday, dei coreografi Akhram Khan, Virgilio Sieni e Enzo Cosimi.  Il fulcro del lavoro è l’analisi dei diversi linguaggi adottati in queste opere allo scopo di comprendere la genesi del pensiero artistico e le relazioni che si innescano tra performance, pubblico e territorio. 

The object of the article is the FIC Festival (Creative Infection Outbreak), created under the artistic direction of Scenario Pubblico Compagnia Zappalà Danza, a center of significant national interest since 2022. The event examined – at its fifth edition – has given the succession of ten days of shows (from 3 to 12 May 2024), focused on the contemporary dance repertoire. After a brief overview of the history of dance, of the various forms and meanings that it has assumed over time and, secondly, of the MoDem language, founded by the dancer and choreographer Roberto Zappalà, we have chosen to focus attention on five of the scheduled artistic proposals: La Nona (dal caos, il corpo); Gisellə(studio), respectively in workshop and open test format, Until the Lions; Golberg Variations; Bastard Sunday, by the choreographers Akhram Khan, Virgilio Sieni and Enzo Cosimi. The spotlight is on the analysis of the languages ​​adopted in those works aiming to understand the genesis of artistic thought and the relation within performance, audience and territory. 

1. Catania contemporanea tra canone e innovazione

Holding back the years è il tema attorno a cui ruota la V edizione del FIC Festival sotto la direzione artistica di Scenario Pubblico Compagnia Zappalà Danza, centro di rilevante interesse nazionale dal 2022. Lo scopo è quello di divulgare tra la cittadinanza alcuni dei principali pilastri del repertorio coreografico contemporaneo, trasmettendo il valore della conoscenza del passato in un’ottica di valorizzazione del presente.

La spilla da balia scelta come immagine del concept grafico è il segno dell’unione tra il vecchio e il nuovo e del dialogo tra canoni e sperimentazione. Nei centri culturali catanesi coinvolti da Scenario Pubblico nella realizzazione del Festival (Teatro Massimo Bellini, Isola Cultural Hub, Associazione musicale etnea, Fondazione Brodbeck, Palazzo Biscari, Associazione Città Teatro, Fondazione Oelle e Cinema King) ‘esplode’ un focolaio artistico che contamina la danza con musica, teatro, cinema e arti visive.

Ad aprire il Festival è una parata danzante per le strade del centro storico della città ispirata al pezzo di repertorio classico La morte del cigno,[1] nella versione di Anna Pavlova[2] del 1907. L’iniziativa, condotta dal Collettivo SicilyMade (composto da Simona Miraglia, Marta Greco, Amalia Francesca Borsellino e Silvia Oteri) invita artisti e pubblico a guardare al celebre assolo come a un campo di esplorazione di stili.

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1. Un esperimento di antropologia

È una tradizione consolidata. Ogni anno, al termine della Mostra del Cinema di Venezia, qualche minuto dopo la fine della cerimonia di premiazione in Sala Grande, nell’adiacente Sala Darsena inizia la proiezione del titolo che si è aggiudicato il premio più ambito, il Leone d’oro.

Ad accorrere nell’immensa tensostruttura che ospita più di 1400 persone ci sono generalmente due tipi di spettatori: da una parte gli addetti ai lavori, con il loro bell’accredito colorato, interessati a recuperare un titolo che si sono persi o a rivederlo per comprenderne meglio il valore artistico; dall’altra – e sono la maggioranza – gli abitanti del Lido, di Venezia e dintorni, signore ingioiellate, professori in servizio o in pensione, frequentatori di stabilimenti balneari, giovani impegnati nell’associazionismo, insomma, spettatori ‘comuni’, ma colti e borghesi, curiosi di scoprire in anteprima la migliore opera del concorso. Se i primi possono decidere, fino all’ultimo, se entrare o no in sala, i secondi hanno già scelto di presenziare allo spettacolo, avendo acquistato il biglietto «a scatola chiusa» alcune ore prima del suo inizio, senza conoscere la composizione del palmares. In altre parole, hanno deciso di partecipare a un rito sociale nel quale, evidentemente, conta soprattutto esserci a prescindere dal film in programma.

Nel caso dell’ultima edizione della Mostra, conclusasi da pochi giorni, questo piccolo rituale si è trasformato in una sorta di esperimento ‘antropologico’, forse capace di dirci qualcosa sui confini e i limiti della visione, su ciò che chiamiamo (ancora) cinema d’autore e sull’identità di una manifestazione come quella lidense. Com’è arcinoto – l’hanno rimarcato fino alla noia tutti i media – a vincere è stato The Woman Who Left di Lav Diaz, un’opera filippina in bianco e nero, con piani fissi, una recitazione monocorde e, last but not least, una durata di 226 minuti. Per chi conosce i precedenti lavori del cineasta (alcuni anche di 8-9 ore) la dilatazione temporale e la rarefazione del tessuto narrativo non costituiscono una sorpresa; per il pubblico non cinefilo, invece, tali caratteri possono indurre una sensazione di fatica, noia, distrazione e, infine, rigetto del patto che sorregge la relazione tra l’individuo e le immagini in movimento. E così è stato anche durante quelle quattro ore, quando si è assistito alla proiezione di due film diversi e in contemporanea: da una parte, sulla superficie del grande schermo, correva (molto lentamente) la storia di Horacia, un’insegnante da poco uscita di prigione e in cerca di chi ne aveva causato l’ingiusta carcerazione trent’anni prima; dall’altra, nel buio della sala, un lento e progressivo alzarsi degli spettatori spazientiti si alternava al vociare, all’appisolarsi e all’accendersi e spegnersi dei display dei cellulari di chi, invece, pur senza andarsene, non riusciva a non interagire con gli altri o con il mondo esterno.

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