«Una mattina in Africa una gazzella si alza, vede il #LeonedOro e poi si rimette a letto». Alcune osservazioni sui modi di ricezione dei film di Lav Diaz

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1. Un esperimento di antropologia

È una tradizione consolidata. Ogni anno, al termine della Mostra del Cinema di Venezia, qualche minuto dopo la fine della cerimonia di premiazione in Sala Grande, nell’adiacente Sala Darsena inizia la proiezione del titolo che si è aggiudicato il premio più ambito, il Leone d’oro.

Ad accorrere nell’immensa tensostruttura che ospita più di 1400 persone ci sono generalmente due tipi di spettatori: da una parte gli addetti ai lavori, con il loro bell’accredito colorato, interessati a recuperare un titolo che si sono persi o a rivederlo per comprenderne meglio il valore artistico; dall’altra – e sono la maggioranza – gli abitanti del Lido, di Venezia e dintorni, signore ingioiellate, professori in servizio o in pensione, frequentatori di stabilimenti balneari, giovani impegnati nell’associazionismo, insomma, spettatori ‘comuni’, ma colti e borghesi, curiosi di scoprire in anteprima la migliore opera del concorso. Se i primi possono decidere, fino all’ultimo, se entrare o no in sala, i secondi hanno già scelto di presenziare allo spettacolo, avendo acquistato il biglietto «a scatola chiusa» alcune ore prima del suo inizio, senza conoscere la composizione del palmares. In altre parole, hanno deciso di partecipare a un rito sociale nel quale, evidentemente, conta soprattutto esserci a prescindere dal film in programma.

Nel caso dell’ultima edizione della Mostra, conclusasi da pochi giorni, questo piccolo rituale si è trasformato in una sorta di esperimento ‘antropologico’, forse capace di dirci qualcosa sui confini e i limiti della visione, su ciò che chiamiamo (ancora) cinema d’autore e sull’identità di una manifestazione come quella lidense. Com’è arcinoto – l’hanno rimarcato fino alla noia tutti i media – a vincere è stato The Woman Who Left di Lav Diaz, un’opera filippina in bianco e nero, con piani fissi, una recitazione monocorde e, last but not least, una durata di 226 minuti. Per chi conosce i precedenti lavori del cineasta (alcuni anche di 8-9 ore) la dilatazione temporale e la rarefazione del tessuto narrativo non costituiscono una sorpresa; per il pubblico non cinefilo, invece, tali caratteri possono indurre una sensazione di fatica, noia, distrazione e, infine, rigetto del patto che sorregge la relazione tra l’individuo e le immagini in movimento. E così è stato anche durante quelle quattro ore, quando si è assistito alla proiezione di due film diversi e in contemporanea: da una parte, sulla superficie del grande schermo, correva (molto lentamente) la storia di Horacia, un’insegnante da poco uscita di prigione e in cerca di chi ne aveva causato l’ingiusta carcerazione trent’anni prima; dall’altra, nel buio della sala, un lento e progressivo alzarsi degli spettatori spazientiti si alternava al vociare, all’appisolarsi e all’accendersi e spegnersi dei display dei cellulari di chi, invece, pur senza andarsene, non riusciva a non interagire con gli altri o con il mondo esterno.

Quella dei due film non è una trovata retorica. Nei tempi lunghi di riflessione che offriva The Woman Who Left, osservando appunto la ‘vita’ della sala Darsena, mi è parso, infatti, di rivivere la storia di Goodbye Dragon Inn, un film di Tsai Ming-liang del 2003, ambientato in un cinema di Taipei semideserto e di esserne, come dire, uno dei protagonisti.

Nell’universo diegetico immaginato da Tsai, alle vicende del proiezionista, della cassiera e dello scarso pubblico in sala – che scopriremo essere composto anche da veri e propri fantasmi – si accostava la visione sullo schermo del coloratissimo e spettacolare Dragon Inn di King Hu, uno dei più importanti wuxiapian taiwanesi degli anni Sessanta e ultimo film in cartellone prima della chiusura definitiva del locale. A suo tempo, la pellicola fu letta come una metafora della morte del cinema: sia di quello di Taiwan (che in quel periodo produceva meno di dieci film l’anno), sia del cinema in sala, evidentemente destinato a diventare marginale rispetto ad altre forme più economiche e domestiche di fruizione. Immerso in un doppio film, consapevole del fatto che non sarebbe mai accaduto una seconda volta a The Woman Who Left di incontrare un migliaio di spettatori ‘comuni’ tutti insieme, ho deciso allora di prestare maggiore attenzione alle storie che si svolgevano tra le poltrone adiacenti alle mie, rispetto a quelle che si dipanavano sul grande schermo, passato peraltro inopinatamente dallo spendido Eastmancolor di King Hu, al freddo e contrastato bianco e nero di Lav Diaz. Che stessi assistendo, anche io, a un altro metaforico caso di morte del cinema?

2. Cinefilia vs media

Nel suo seguitissimo blog dedicato alla cinefilia contemporanea, Roy Menarini, commentando a caldo le reazioni degli addetti ai lavori e dei media generalisti alla notizia del nuovo Leone d’oro, ha evidenziato un cambio di baricentro nelle solite polemiche post-festivaliere.

Questa volta non ci sono lamentele sul capolavoro “non colto” dalla giuria, perché su Lav Diaz si nota un consenso decisamente sorprendente. Al contrario, i media generalisti (e gli oppositori a-priori del cinema d’autore) hanno deriso la scelta della giuria come elitaria e al solito esteticamente vetusta. La battaglia dunque non è più tra critici e giuria, ma tra critica e mondo esterno, che giunge in alcuni casi a definire inaccettabile che un film in bianco e nero vinca un festival (magari dimentichi che The Artist, muto e b/n, ha vinto l’Oscar pochi anni fa). Ma si sa, l’analfabetismo culturale cinematografico in questo paese è altissimo, nulla di cui sorprendersi.

Come confermano le parole del docente e critico bolognese, la dicotomia tra cinefili appassionati e spettatori comuni, larvale ma comunque evidente già durante la proiezione in Sala Darsena, è sbocciata nella discorsività paratestuale dei giorni seguenti. Titolisti di quotidiani di ogni orientamento politico non hanno esitato a rimarcare gli elementi per così dire ‘ostici’ dell’opera (la lunghezza, il b/n, l’origine geografica), talvolta non degnandosi di citarne il titolo o il nome del suo principale artefice. E d’altra parte testate di critica cinematografica come Cineforum, Sentieri selvaggi (qui, qui e qui gli editoriali), Quinlan e altre, hanno fatto a gara per lamentarsi della pochezza della stampa generalista italiana, ricordando quanto fosse doveroso il primo premio a un cineasta che era già entrato nel pantheon degli autori contemporanei grazie ai riconoscimenti ottenuti a Locarno (Pardo d’oro), Berlino (Alfred Bauer Priz) e in un’edizione precedente della Mostra (il premio Orizzonti).

Per certi versi, questa sorta di plastica rappresentazione delle distanze tra film da festival e da cassetta, tra cinefilo colto e pubblico «analfabeta-culturale» ci ha riportato direttamente ai tempi de Il secondo tragico Fantozzi, ai cineforum del Prof. Guidobaldo Maria Riccardelli, all’urlo fantozziano che battezza “La corazzata Kotiomkin” una cagata pazzesca. Con buona pace dei cultural studies che da diversi decenni cercano di legittimare lo studio di opere popolari e di rompere la distinzione tra prodotto di massa e d’élite, mescolando le carte, gli interessi, le competenze, i piaceri della visione nonché i pubblici di riferimento, il Leone d’oro assegnato a Lav Diaz ha finito per ricalcare – più nell’immaginario che nella realtà, più nei discorsi che nelle pratiche – quel solco che separa i consumi cinematografici e i relativi spettatori, sulla falsariga di quanto accade nell’arte contemporanea o nel teatro. Siamo insomma ancora alla guerra tra guelfi e ghibellini, la cui imperitura riproduzione in ogni ambito del nostro vivere sociale rappresenta una condanna dai tratti danteschi che ancora oggi facciamo fatica a espiare. Un dualismo che, tuttavia, almeno in questo caso, mi è parso meno bipolare di quel che appariva di primo acchito tanto da meritare una riflessione dai tratti, come vedremo, un po’ provocatori.

3. Lo spettro dell’autore

A guardarli con un certo distacco, le grandi kermesse come Venezia e Cannes appaiono come eventi novecenteschi che giungono nel nuovo secolo senza mascherare età, rughe e stanchezze. Pur rispondendo, ancora oggi, ad alcune esigenze del mercato (facilitare la distribuzione di film, far incontrare domanda e offerta, ingenerare discorsività critica e visibilità mediatica, definire categorie estetiche, storicizzare artefatti), è difficile negare che la loro funzione originaria, quella cioè di assegnare patenti di artisticità ai film e di autorialità ai registi e soprattutto di imporre gli uni e gli altri all’attenzione della collettività, si è andata vieppiù scolorendo. Tranne rarissime eccezioni, è in prima istanza l’opinione pubblica – e in particolar modo quella italiana – che si mostra indifferente agli esiti della Mostra tanto che persino le opere che ottengono i riconoscimenti più ambiti penano a conquistarsi un proprio pubblico. Si pensi all’ultimo lustro: con la sola eccezione di Sacro Gra (2013), perché italiano, Leoni d’oro come Faust di Sokurov (2011), Pietà di Kim Ki-duk (2012), Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza di Andersson (2014) e Ti guardo di Vigas (2015), non hanno raggiunto tutti insieme l’incasso di Vita, Cuore, Battito (2016), commedia interpretata dal duo comico napoletano degli Arteteca, ‘celebri’ – si fa per dire – per le loro imitazioni dei tamarri in TV.

Al di là degli irrispettosi accostamenti, è un fatto che la risposta di tali eventi alla loro marginalità discorsiva non vada verso una sintonizzazione con i gusti del pubblico massificato, ma verso l’accentuazione di un carattere di sempre più orgogliosa alterità. Non in tutti i titoli in cartello e nei red carpet s’intende – quest’anno la presenza di film e divi americani ‘acchiappa-click’ è stata ad esempio più intensa che mai – ma nel selezionare per il concorso e spesso ricompensarne alla fine i titoli più ‘ambiziosi’, assegnando così una precisa identità all’intera manifestazione nel segno della radicalità e della sperimentazione. «Il pubblico va formato, educato – commenta Barbera in un’intervista rilasciata a La Stampa pochi giorni fa – bisogna far sapere che, oltre il cinema che più facilmente si vede nelle sale, oltre i blockbuster, c’è altro. Oggi non esistono più le sale d’essai, e quelle che ci sono fanno fatica a restare aperte. Senza kermesse che difendano quel tipo di prodotto saremmo tutti condannati a vedere solo commedie omologate». Intento nobile e probabilmente a suo modo necessario, tuttavia di difficile realizzazione se solo pochi addetti ai lavori e pochi spettatori qualificati (dunque un pubblico già formato e già preparato, ma di stra-nicchia) hanno accesso alla visione di queste opere.

Dall’esterno, insomma, la percezione resta quella dell’arroccamento o dell’autoreferenzialità, ma soprattutto, come già anticipato, del fallimento del mandato auto-assegnatosi dai festival: più si cerca di rianimare il concetto e le pratiche d’autore (in senso radicale e altro), più si allontano varie tipologie di pubblico, esponendosi nel contempo a ironie e sarcasmi da chi si sente escluso da tale circuito. E pur tuttavia maggiore è il profilo sperimentale e ‘ostico’ dei film proposti per la selezione ufficiale, maggiori sono le possibilità di emergere e farsi riconoscere in questi stessi ambiti. Siamo dentro ad un cortocircuito nel quale la dualità in qualche misura sorregge e riproduce se stessa, come il cinema di Lav Diaz dimostra plasticamente: esso non ha altro asilo possibile che in una dimensione festivaliera, all’interno della quale, in compenso, grazie alla sua irriducibilità ai modelli standardizzati di racconto, si conquista un incondizionato consenso. Egli incarna l’essenza identitaria della manifestazione che lo ospita. E d’altra parte, al di fuori di tale circuito quando esso viene citato, discusso e parlato è per farne oggetto di derisione, per rimarcarne il fatto che (quasi) nessuno lo vedrà. «Una mattina in Africa una gazzella si alza, vede il #LeonedOro e poi si rimette a letto». «#MilanUdinese è talmente noiosa che potrebbe vincere il #LeonedOro al Festival del cinema di Venezia». «Ma un film sull’emarginante condizione di lentezza del bradipo...mai #LeonedOro»: questi sono solo alcuni dei tweet sarcastici lanciati sul web durante e dopo la cerimonia di premiazione del 10 settembre. Intanto, quella stessa sera in sala Darsena, una signora ingioiellata masticava amaro, si spazientiva e chiedeva al marito di riportarla a casa, una coppia di fidanzati non esitava a vedere le foto di matrimonio di una loro amica postati sul wall di Facebook, due tipi davanti a me si davano di gomito appena un loro vicino crollava in un sonno riparatore.

Io stesso, ne sono consapevole, mi sto muovendo su questo confine. Parlo della sala e non dello schermo, della signora veneziana ingioiellata e non di Horacia che, invero, è un personaggio di straordinaria forza narrativa e meriterebbe di essere raccontata.

Contribuisco in altri termini a ricalcare quei solchi tra tipologie di spettatori di cui ho parlato prima, a riprodurre dualità comportandomi come i fantasmi di Goodbye Dragon Inn che vagano nella sala, tra una poltrona e l’alta, peraltro in buona compagnia, ovvero con quel concetto d’autore che, pur rinfrancato dall’entusiasmo cinefilo, conserva una natura spettrale nei discorsi sociali. A ben vedere, infatti, la rianimazione del concetto d’autore da parte di istituzioni come la Biennale si pratica per assenza. Lav Diaz conquista i titoli dei giornali e i post sui social network solo per confermarne la sua irriducibilità ed esclusione, in un gioco di apparizioni e sparizioni in cui, peraltro, non gli è più concessa la possibilità di mutare condizione: se egli si mettesse a girare film di 90’ minuti, in technicolor e con movimenti di macchina avvolgenti, perderebbe la sua forza negoziale e forse di lui non ne parlerebbe più nessuno.

Serve però compiere ancora un passo in avanti, verso ambiti disciplinari a me più congegnali, per intravedere l’approdo verso il quale vorrei condurre questo ragionamento.

4. Il volto dell’altro

«Come sempre vince il Terzo Mondo». Con questo occhiello di commento al palmares, il quotidiano «Libero» si è aggiudicato il Leone d’oro per il titolo di giornale più razzista dell’ultima edizione veneziana. Il bersaglio del quotidiano ultra-conservatore è una categoria di pubblico (ripeto più immaginaria che reale), generalmente considerata radical-chic e di sinistra (tra Moretti ed Emergency, per intenderci), che fruisce e acclama film ‘ermetici’ e ‘difficili’, spesso provenienti da paesi geograficamente lontani ed economicamente più poveri. Secondo una vulgata comune, è a questo tipo di spettatori che Venezia, Cannes e Berlino si rivolgerebbero in maniera privilegiata, escludendo dai concorsi e dai premi film popolari e meno intellettuali come le commedie, i film di supereroi, le animazioni e così via. Sebbene l’espressione «Terzo mondo» faccia prudere le mani, specie quando assegnata a paesi con una crescita del PIL di 6-7 punti l’anno, occorre ammettere che il becero titolista coglie una certa qual verità. A scorrere l’albo d’oro della Mostra si scopre, infatti, che nelle ultime ventiquattro edizioni in ben tredici occasioni il Leone d’oro è stato assegnato (a volte ex-aequo) a film prodotti in Asia, da Israele all’India, dalla Cina al Giappone. Non stiamo parlando di paesi del «Terzo Mondo», questo è vero, ma si tratta comunque di paesi che appartengono a quel grande calderone culturale e geografico che continuiamo a chiamare Oriente, nonostante e anche dopo Edward Said, lo studioso palestinese che più di quarant’anni fa ha denunciato il carattere politicamente segnato di questo concetto essenzialista e etnocentrico.

Lav Diaz, buon ultimo, si accomoda così in un pantheon di vincitori che annovera nomi come Tsai Ming-liang, Jia Zhang-ke, Hou Hsiao-hsien, Tran Ahn-hung, Kitano Takeshi, Jafar Panahi, Kim Ki-duk. Pur nella loro singolarità, sono tutti cineasti che si muovono all’interno di un modo di rappresentazione abbastanza coeso: rarefazione degli intrecci, montaggio ellittico, ricorso a piani sequenza e long take, riduzione o assenza di movimenti di macchina, recitazione de-drammatizzata. Sembrerà forse paradossale, ma la riduzione della ricchezza polisemica propria dell’espressività cinematografica in pochi caratteri riconoscibili e panculturali, molto simili tra l’altro a quelli che contraddistinguono il cinema europeo moderno degli anni Sessanta/Settanta, riconduce questo tipo di cinema e i suoi interpreti direttamente all’interno delle teorie saidiane sull’orientalismo e poi ai contributi dei post-colonial studies che si occupano dei fenomeni di essenzialismo e controllo strategico del ‘diverso’ attraverso il topos dell’alterità. Detto in parole povere, con l’assegnazione dei Leoni d’oro a una precisa tipologia di pellicole – che non si produce solo in Asia, ovviamente, ma che costituisce la maggior parte dei titoli selezionati da quelle aree geografiche – si mette in atto un processo di assimilazione delle molteplicità culturali in tutto e per tutto analogo a quello che investe altri artefatti esotici (pitture di paesaggio, diari di viaggio, ecc…). Nel senso che la complessità si risolve in rappresentazioni dai pochi e precisi attributi, poco importa se in questo caso rimarcanti l’opposizione al modello di narrazione audiovisiva dominante, quello del cinema hollywoodiano. Da qui il via a un altro paradosso: con il suo titolo fuorviante, il quotidiano neo-con italiano è stato tra i pochi ad aver intuito un possibile frame epistemologico in azione che va ben oltre l’opera di Lav Diaz.

Detto che non è questa la sede per studiare il funzionamento di tale meccanismo orientalista (né di decostruire la categoria profondamente colonialista di world cinema dentro la quale tutti questi lavori sono collocati), possiamo per lo meno interrogarci sulle ragioni per cui l’alterità identitaria di un festival – l’essere scientemente diverso dai consumi di massa per differenziarsi e rinforzarsi in un quadro mediale che cambia e che lo marginalizza – debba passare giocoforza dall’alterità esibita di opere provenienti da mondi lontani, meglio se dal FarEast. In estrema sintesi mi sento di dire che la causa di tale processo può essere individuata nell’apertura di credito al logos, alla parola: quanto più, infatti, le storie rappresentate abitano spazi culturali indefiniti, riconoscibili per pochi tratti, ma poi immersi in un universo sfuggente e ricco di riferimenti inaccessibili, tanto più sarà possibile per il cinefilo intervenire con il proprio personale contributo interpretativo; maggiore è l’inaccessibilità a un giudizio ‘competente’ nei confronti ad esempio della verosimiglianza di storie, ambientazioni, dialoghi, snodi narrativi (cosa che accadrebbe se il racconto fosse ambientato in contesti familiari), maggiore è la possibilità di attivare immaginari, fantasie, proiezioni di epistemi, ma anche illusioni di trascendenze e dinamiche di stupore.

Come afferma il Lévinas di Totalità e infinito, il volto dell’altro – nel nostro caso del film-altro – la sua esteriorità inafferrabile, la sua irriducibilità a essere contenuto, altro non è che il desiderio del sé di calarsi nel dominio del discorso.

La parola procede da una differenza assoluta [e] la differenza assoluta, inconcepibile in termini di logica formale, s’instaura solo grazie al linguaggio. […] Il carattere incomprensibile d’Altri […] non si descrive negativamente. Il discorso mette in relazione con ciò che resta essenzialmente trascendente più di quanto non faccia la comprensione. […] La parola si dice anche solo attraverso questo silenzio mantenuto e la cui pesantezza riconosce questa evasione d’Altri. La conoscenza che assorbe altri si situa immediatamente nel discorso che gli rivolgo. Parlare, invece di «lasciar essere» sollecita altri. La parola sporge sulla visione. […] In questo modo la struttura formale del linguaggio annuncia l’inviolabilità etica d’Altri e, senza la benché minima ombra di «numinoso», la sua «santità». […] La presenza di un essere che non entra nella sfera del Medesimo, presenza che la oltrepassa, fissa il suo «statuto» di infinito (Lévinas, 2004, p. 200, corsivi miei)

Forse potrebbe sembrare insolito applicare le teorie del filosofo lituano alla relazione tra lo spettatore-cinefilo e il film-altro, ma è indubbio che la chiamata alla responsabilità del sé che implica la proposta lévinasiana (poco oltre scriverà: «l’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Me­desimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica»), risuona negli appelli alla serietà e alla spinta maieutica che la critica rivolge a se stessa quando casi come quello di Lav Diaz ne mettono in crisi, apparentemente, la funzione. «Prendere sul serio questo lavoro – scrive ad esempio il comitato di redazione di Cineforum all’indomani della chiusura della Mostra – ragionando anche e non solo sui festival e sui film che sono proposti, è l'unica cosa che rende la critica ancora credibile. Anteporre l’argomentazione al giudizio, l'unico compito che un critico dovrebbe avere».

Ne consegue che se, come sancisce sarcastico «Libero», «vince sempre il Terzo Mondo», è perché la libertà del medesimo s’instaura, si giustifica, si fa responsabilità solo nella relazione con quadri geografici e culturali altri, che permettono alla totalità di sfiorare l’infinito e, soprattutto, «alla parola di sporgere sulla visione».

5. La parola e il movimento

Per chiudere, come una narrazione modernista circolare impone, torno al punto da cui ero partito, vale a dire alla visione di The Woman Who Left in Sala Darsena la sera delle premiazioni e torno, più precisamente, a quel lento allontanarsi o distrarsi di una parte degli spettatori tra i quali, si sarà capito, mi colloco anch’io. In una delle mie varie distrazioni, mi è capitato di chiedermi se al mio posto anche Francesco Casetti, ovvero uno dei pensatori che ha ragionato con più lucidità sui modi di vita del cinema dentro e fuori la sala e che ha dedicato uno dei saggi più illuminanti sull’utilizzo dei dispositivi mobili durante le proiezioni dei film (Casetti: 2011), avrebbe anch’egli gettato l’occhio sui devices accesi dei vicini di poltrona.

D’altra parte l’esperienza di quella proiezione s’inserisce perfettamente al centro della proposta teorica che egli ha avanzato nel più recente La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene. In quel libro, l’attuale fruizione di cinema viene situata dentro quattro possibili orizzonti esperienziali: il cinema rilocato, che colonizza nuovi spazi di visione (ad esempio quelli urbani o quelli domestici); il cinema re-rilocato, che ritorna a impossessarsi del suo ambiente originario, quello della sala, contaminandolo con nuovi modi di visione e consapevolezze (ad esempio i film-evento, le reunions di fans, ecc.); il cinema non-rilocato che rimane caparbiamente attaccato alla sala (ad esempio i festival o le anteprime); il cinema de-localizzato, «un cinema non più cinema che si perde nel mare dei media» (ad esempio nelle serie TV) (Casetti: 2015, pp. 300-302).

Nella quadripartizione avanzata dallo studioso di Yale, la visione dell’opera di Lav Diaz si colloca in prima battuta nel contenitore del cinema non-rilocato, ma la sua estensione temporale estrema, stressando i limiti e la pazienza della visione, finisce anche per sconfinare in altre territorialità. Da una parte seleziona e fidelizza il proprio pubblico cinefilo di elezione che è disposto a partecipare a un’esperienza che supera la semplice visione di un film, avvicinandolo alle ‘adunate’ dei fans che re-rilocano la sala pienamente consapevoli del tipo di piacere che proveranno. È ciò che Casetti chiama «ritorno alla madrepatria» ovvero un riprendere possesso di un territorio apparentemente perduto abitandolo con comportamenti e competenze nuove. Risocializzandolo. Dall’altra quella stessa estensione trasforma lo spazio tradizionalmente statico della sala in uno decisamente più mobile, formicolante, interattivo che si arricchisce di una pluralità di azioni, non per forza competenti e socializzanti, che hanno il merito di de-localizzare lo spettacolo nella direzione di accostamento con le forme di fruizione di altri media: anche durante la visione prolungata di una serie tv o di un’installazione museale, ad esempio, capita di allontanarsi dallo schermo, andare in bagno, rispondere a un messaggio, appisolarsi, ridestarsi, controllare la bacheca di FB e interagire con il mondo esterno proprio come succedeva in Sala Darsena.

Se, insomma, i capolavori asiatici premiati dalla Biennale rappresentano una chiamata alla parola e al discorso critico e, nel contempo, intensificano l’identità del sé (cinefilo) attraverso l’enigma dell’altro, i film di Lav Diaz possono essere considerati anche come una chiamata al movimento e alla distrazione, ovvero a instaurare una relazione debole o assente verso quello stesso enigma-altro del film, in uno sforzo de-orientalizzante e demistificate che consente alla «non-visione di sporgere sulla parola». Se tale esperienza prorompe quasi ‘naturalmente’ in spettatori poco abituati a proposte così radicali, tanto da spingerli a parlottare, addormentarsi o ad abbandonare il cinema, essa può essere vissuta anche da coloro che sono positivamente predisposti ai film di Diaz come ad esempio il sottoscritto. Secondo questa prospettiva, il solco (più immaginario che reale) che separerebbe pubblico competente da quello «analfabeta-culturale» si colma improvvisamente nel momento in cui entrambe le tipologie di pubblico staccano per qualche istante lo sguardo dal grande schermo, si voltano di lato, scambiano un’occhiata con il proprio vicino o sbirciano sul loro cellulare. In queste azioni e ancor più nell’alzarsi e abbandonare la sala rigettando il patto sociale al quale si sta partecipando (a maggior ragione se si è pagato un biglietto «a scatola chiusa» e si sta vivendo, almeno teoricamente, un’esperienza colta e apprezzata nella propria cerchia sociale), non si trova così la prefigurazione della morte del cinema o di un certo cinema d’autore, come una lettura allegorica poteva inizialmente suggerire, ma forse la sola possibilità di sopravvivenza di questo tipo di cinema nel mare magnum delle immagini in movimento. Alla «morte dell’autore» di barthesiana memoria, i festival rispondono con un suo tentativo di rianimazione, ma nella dimensione del Doppelgänger, del doppio-fantasma da inseguire o da cui scappare, o con la parola o, ancor meglio, alzandosi dalla poltrona.

 

Bibliografia di riferimento

F. Casetti, ‘Back to the Motherland: the Film Theatre in the Postmedia Age’, Screen,. LII, 1, 2011, pp. 1-12.

F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano, Bompiani, 2015.

M. De Certeau, La scrittura dell’altro, Milano, Raffaello Cortina, 2005.

M. Dalla Gassa, Orient (to) Express. Film di viaggio, etno-grafie, teoria d’autore, Milano-Udine, Mimesis, 2016.

R. Krauss (a cura di), ‘High/Low’, October, 1956, primavera 1991.

E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità [1977], Milano, Jaca Book, 2005.

E. Lévinas, Tra noi. Saggio sul pensare-all’altro, Milano, Jaca Book, 1998 (in modo particolare il capitolo: “Dall’uno all’altro. Trascendenza e tempo”, pp. 169-192).

G. Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell'autore cinematografico, Roma, Carocci, 2006.

J. Remes, Motion(less) Pictures: The Cinema of Stasis, New York, Columbia University Press, 2015 (in particolare pp. 137-144).

E. Saïd, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Roma, Feltrinelli, 1991.