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Numerosi documentaristi del secondo dopoguerra hanno raccontato l’antica pratica della pesca nel Sud Italia. Partendo dai capolavori di Vittorio De Seta girati nelle acque siciliane, questo contributo si sofferma su alcuni esempi che mostrano la crescente attenzione che in quegli anni era rivolta verso il mondo marino e verso la sfida estetica che esso costituiva per la macchina da presa.  

Il nostro corpo scopre un mondo quando accetta di affidarsi senza paura al moto della risacca, quando contemplando il cielo stesi sul mare immergiamo le orecchie nel suo ventre sonoro, accettando di appartenergli con fiducia filiale. In questo esercizio, nella confidenza con la grammatica dell’acqua c’è un’antica saggezza, il suggerimento della possibilità di un altro tempo. Senza l’infinito del mare si va a fondo, risucchiati dal vortice del nostro antropomorfismo (Cassano 2003, p. 17).

Queste parole di Franco Cassano dedicate al pensiero meridiano, un pensiero nato nel Mediterraneo «che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare» (Cassano 2003, p. 5), potrebbero funzionare come perfetto decalogo per un cinema documentario che volesse misurarsi, come ha più volte fatto nel corso del secondo dopoguerra, con il racconto della pesca sopra e sotto la superficie marina. Un invito alla comunione con l’elemento acquatico che negli anni Cinquanta, in una filmografia sterminata che si è occupata della pesca e della cultura del mare (Blasco 1990), si può ritrovare specialmente nei cortometraggi di Vittorio De Seta sui pescatori siciliani.

Fin dal suo esordio con Lu tempu di li pisci spata (1954), e poi nei successivi Isole di fuoco (1954), Contadini del mare (1955) e Pescherecci (1958), De Seta racconta la difficile vita sul mare e una pratica ancestrale come la pesca attraverso la contemplazione e l’ascolto della natura con i suoi ritmi arcaici. Il rischio dell’antropomorfismo paventato da Cassano è aggirato da film che informano senza progettare, e che collocano i soggetti nell’invariabile ciclo dei rapporti con la natura (Bertozzi 2014, p. 157). De Seta sviluppa infatti il racconto attorno a un tempo non umano che scandisce l’esistenza dei pescatori, rispettosi conoscitori della ‘grammatica dell’acqua’; un tempo che è contemporaneamente quello del pesce spada e quello del cinema (sul rapporto tra umano e non umano in De Seta cfr. Alcantara 2023). Lu tempu di li pisci spata è articolato nelle tre fasi dell’attesa, della caccia e del ballo serale, ed è segnato da un crescendo del montaggio che si fa sempre più rapido, a partire dall’avvistamento della preda che spezza la stasi dei rematori fino alla cattura e alle note delle canzoni popolari che rallegrano il termine di una giornata di fatiche [fig. 1]. Una partizione che ritorna in Isole di fuoco, cortometraggio girato a Stromboli dove è l’attesa dell’eruzione a catalizzare l’attenzione e le speranze della comunità marinara.

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Nel film Banditi a Orgosolo (1961), ambientato nel cuore della Sardegna, nel Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta costruisce un racconto in cui i personaggi entrano costantemente in rapporto con l’ambiente circostante creando una interazione intensa che permette l’evolversi della storia narrata. Il paesaggio è inizialmente interlocutore e benevolo compagno di viaggio dei due protagonisti, ma nella seconda parte del film diventa antagonista quando le forze dell’ambiente, secondo un concetto di Deleuze, agiscono su di loro imponendo una reazione che non sarà vincente: la natura del luogo, intesa in senso mitico, ha il sopravvento sul tentativo di sfuggire alla legge dello Stato e a quella non scritta di quel preciso mondo in cui vivono.

In the film Banditi a Orgosolo (1961), set in the heart of Sardinia, in the Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta constructs a tale in which the characters constantly enter into a relationship with their surroundings, creating an intense interaction that allows the narrated story to evolve. The landscape is initially the interlocutor and benevolent travelling companion of the two protagonists, but in the second part of the film it becomes antagonistic at the moment when the forces of the environment, according to a concept by Gilles Deleuze, act on them, imposing a reaction that will not be successful: the nature of the place, understood in a mythical sense, has the upper hand over the attempt to escape the law of the State and the unwritten law of that precise world in which they live.

Sulla vetta di Punta Sulitta i corpi di Michele e di Peppeddu, i protagonisti di Banditi a Orgosolo (1961), si stagliano sul cielo terso e grigio, spruzzato di qualche nuvoletta. Il Supramonte barbaricino è tutto intorno e sullo sfondo il massiccio calcareo del Corrasi, bianco, quasi un deserto, fa pendant con il cielo [fig. 1]. In questo paesaggio immenso è proprio lo spazio aperto, quasi un ossimoro visivo, a segnare confini insuperabili che isolano i due fratelli in una intimità austera. Il tono cinereo, con una dominante grigia dovuta in primis alla pellicola in bianco e nero che non valorizza il consueto splendore del cielo sopra la Sardegna, segna l’atmosfera che regna fra i due fratelli: pacata e allo stesso tempo amara. È uno dei rari momenti di intimità in cui il carattere burbero e schivo di Michele non condiziona il rapporto con il ragazzino. I due parlano fra loro di rapporti familiari, del padre che è morto cadendo in un precipizio molti anni prima mentre seguiva le capre, dell’inscindibile legame che unisce il lavoro con la vita quotidiana tanto da identificare l’uno nell’altra. D’altronde la vita del pastore identificata con il proprio lavoro è un filo rosso che attraversa tutto il film, il mestiere è la natura della propria vita, di padre in figlio senza possibilità di interruzione.

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L’articolo analizza il film di Vittorio De Seta I dimenticati del 1959 sulle feste dell'Abete e di Sant’Alessandro in Calabria. L’analisi si focalizza in particolare sul rapporto tra il paesaggio ripreso, le attività rituali e le modalità di ripresa della comunità. La cifra dell’operazione di De Seta risiede nella rivendicazione della ‘dignità della cultura’ attraverso una ‘drammaturgia creativa’ dell’esistenza di un paese del meridione di Italia allora senza strade e lasciato indietro rispetto al miracolo economico.

The article analyses Vittorio De Seta's 1959 film I dimenticati on the festivities of Abete and Sant’Alessandro in Calabria. The analysis focuses in particular on the relationship between the depicted landscape, the ritual activities and the way the community is filmed. The essence of De Seta’s work lies in the claim of the ‘dignity of culture’ through a ‘creative dramaturgy’ of the existence of a town in southern Italy that was then without roads and left behind by the economic miracle.

 

 

Nel 1959 De Seta realizza I dimenticati, cortometraggio che documenta le feste dell’Abete e di Sant’Alessandro con cui Alessandria del Carretto, paese dell’alto Ionio cosentino, celebra l’inizio della primavera (Fofi, Volpi 1999). In una prima fase, un gruppo di abitanti si reca in altura, dove un grosso abete viene abbattuto e trasportato fino al paese, mentre altri approntano cesti di libagioni. Viene poi predisposto un mercato per finanziare la festa del santo attraverso la vendita dei prodotti locali. L’abete viene infine issato nella piazza di fronte alla chiesa e la sua cima addobbata come una cuccagna. Si dà il via a una gara di arrampicata, che vedrà vincitore – come documenta De Seta – chi riuscirà a scalare il tronco fin su in cima. Al termine del rito annuale, la comunità farà ritorno alla vita di ogni giorno.

I dimenticati ha per oggetto la festa, dimensione che spezza l’andamento quotidiano del tempo, sebbene celebri proprio l’operare comune e durevole di una comunità. È infatti la vita collettiva e quotidiana a sostenere il rito, versione drammaturgica di un patto comunitario (Peirano 2000; Turner 1975). La festa afferma dunque una cosmologia e una struttura sociale nel mettere in scena una narrazione: in questo caso, quella della conquista del limen arboreo del mondo naturale, forse il nucleo tematico più evidente de I dimenticati.

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Il saggio è un tentativo di rileggere in prospettiva ecocritica il cinema di Vittorio De Seta. In questa chiave, i primi documentari realizzati in Sicilia a metà degli anni Cinquanta, anticipano molte riflessioni recenti sulla cosiddetta Antropocene, attorno al rapporto fra uomo e animale, per esempio, e alla tutela dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra forme di vita differenti.

The essay is an attempt to reread Vittorio De Seta’s cinema from an ecocritical perspective. In this key, the first documentaries made in Sicily in the mid-1950s anticipate many recent reflections on the so-called Anthropocene, around the relationship between humans and animals, for example, and the protection of the environment, understood as a system of relationships between different forms of life.   

Per chiunque si occupi di documentario – da regista o da studioso – il lavoro di Vittorio De Seta rimane, ancora oggi, con ogni evidenza, un punto di riferimento imprescindibile. Nei primi corti degli anni Cinquanta, così come nei film successivi, sono presenti, infatti, già molti degli elementi con i quali il documentario contemporaneo non smette, ancora oggi, di confrontarsi: per esempio, l’idea che del reale esso possa offrire non una semplice documentazione (più o meno neutrale), ma un vero e proprio racconto, a partire dalle storie che è la vita «colta sul fatto» a suggerirci (Vertov 2011).

Prima e meglio di altri, De Seta mostra che questo tipo di narrazione, non diversamente da quelle ‘di finzione’, richiede un ampio lavoro di messa in forma, che i suoi film espongono in modo evidente. Inventando una forma nuova di racconto e rifiutando certi canoni stilistici consolidati (primo fra tutti, l’uso della voce off), De Seta rompe così con una idea di documentario (inteso come mezzo di informazione, utile alla veicolazione di un messaggio, in molti casi propagandistico) che, in Italia almeno, si era consolidata, non a caso, in epoca fascista, a partire dalla fondazione dell’Istituto Luce, e in seguito trasferitasi, senza troppi cambiamenti, nei documentari realizzati nell’immediato dopoguerra. A questo proposito si pensi ai documentari realizzati per un format di successo come «La settimana Incom» che, dopo la guerra, analogamente al passato, anticipavano la proiezione in sala dei film ‘a soggetto’ (Sainati 2001). Se si ha presente la produzione degli anni Cinquanta in Italia, si coglie, senza ombra di dubbio, l’importanza dirompente – sotto molti aspetti – dei primi lavori che De Seta gira in Sicilia, poco più che trentenne.

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