Per chiunque si occupi di documentario – da regista o da studioso – il lavoro di Vittorio De Seta rimane, ancora oggi, con ogni evidenza, un punto di riferimento imprescindibile. Nei primi corti degli anni Cinquanta, così come nei film successivi, sono presenti, infatti, già molti degli elementi con i quali il documentario contemporaneo non smette, ancora oggi, di confrontarsi: per esempio, l’idea che del reale esso possa offrire non una semplice documentazione (più o meno neutrale), ma un vero e proprio racconto, a partire dalle storie che è la vita «colta sul fatto» a suggerirci (Vertov 2011).
Prima e meglio di altri, De Seta mostra che questo tipo di narrazione, non diversamente da quelle ‘di finzione’, richiede un ampio lavoro di messa in forma, che i suoi film espongono in modo evidente. Inventando una forma nuova di racconto e rifiutando certi canoni stilistici consolidati (primo fra tutti, l’uso della voce off), De Seta rompe così con una idea di documentario (inteso come mezzo di informazione, utile alla veicolazione di un messaggio, in molti casi propagandistico) che, in Italia almeno, si era consolidata, non a caso, in epoca fascista, a partire dalla fondazione dell’Istituto Luce, e in seguito trasferitasi, senza troppi cambiamenti, nei documentari realizzati nell’immediato dopoguerra. A questo proposito si pensi ai documentari realizzati per un format di successo come «La settimana Incom» che, dopo la guerra, analogamente al passato, anticipavano la proiezione in sala dei film ‘a soggetto’ (Sainati 2001). Se si ha presente la produzione degli anni Cinquanta in Italia, si coglie, senza ombra di dubbio, l’importanza dirompente – sotto molti aspetti – dei primi lavori che De Seta gira in Sicilia, poco più che trentenne.