Per chiunque si occupi di documentario – da regista o da studioso – il lavoro di Vittorio De Seta rimane, ancora oggi, con ogni evidenza, un punto di riferimento imprescindibile. Nei primi corti degli anni Cinquanta, così come nei film successivi, sono presenti, infatti, già molti degli elementi con i quali il documentario contemporaneo non smette, ancora oggi, di confrontarsi: per esempio, l’idea che del reale esso possa offrire non una semplice documentazione (più o meno neutrale), ma un vero e proprio racconto, a partire dalle storie che è la vita «colta sul fatto» a suggerirci (Vertov 2011).
Prima e meglio di altri, De Seta mostra che questo tipo di narrazione, non diversamente da quelle ‘di finzione’, richiede un ampio lavoro di messa in forma, che i suoi film espongono in modo evidente. Inventando una forma nuova di racconto e rifiutando certi canoni stilistici consolidati (primo fra tutti, l’uso della voce off), De Seta rompe così con una idea di documentario (inteso come mezzo di informazione, utile alla veicolazione di un messaggio, in molti casi propagandistico) che, in Italia almeno, si era consolidata, non a caso, in epoca fascista, a partire dalla fondazione dell’Istituto Luce, e in seguito trasferitasi, senza troppi cambiamenti, nei documentari realizzati nell’immediato dopoguerra. A questo proposito si pensi ai documentari realizzati per un format di successo come «La settimana Incom» che, dopo la guerra, analogamente al passato, anticipavano la proiezione in sala dei film ‘a soggetto’ (Sainati 2001). Se si ha presente la produzione degli anni Cinquanta in Italia, si coglie, senza ombra di dubbio, l’importanza dirompente – sotto molti aspetti – dei primi lavori che De Seta gira in Sicilia, poco più che trentenne.
Pasqua in Sicilia (1954), Lu tempu di li pisci spata (1955), Isole di fuoco (1955), Surfarara (1955), Contadini del mare (1955), Parabola d’oro (1955) sono film che del Sud Italia forniscono un’immagine inedita, distante, per esempio, dalla retorica ‘progressista’ di molti documentari, realizzati in quegli stessi anni, con lo scopo di denunciare il ritardo del meridione, la sua condizione di generale arretratezza (culturale ed economica), e promuovere contestualmente un processo di ricostruzione che avrebbe dovuto puntare a colmare lo iato che separava il Sud dal resto del Paese (De Gaetano, Dottorini, Tucci 2023; Sainati, Federico 2023). Anche in questo caso, in anticipo su molti altri, De Seta si rende conto che l’arrivo del tanto atteso progresso avrebbe comportato la sparizione di un mondo arcaico, di cui la Sicilia degli anni Cinquanta è ancora testimone. È una delle ragioni per cui De Seta decide di ‘fissare’ quel mondo nei suoi documentari e di farlo, per di più, trasferendolo in una forma eterna e assoluta, che è quella delle grandi opere d’arte. In una sola mossa, De Seta inventa così una immagine inedita del Sud Italia, lontana da ogni stereotipo precedente, ma soprattutto sperimenta una nuova forma per il documentario, ancora attualissima, almeno quanto le questioni teoriche che la visione dei suoi film permette di affrontare, pur molti anni dopo la loro realizzazione.
Considerati come testimonianza degli ultimi atti di resistenza di un mondo in via di sparizione, i film di De Seta sollevano, per esempio, domande di estrema urgenza, all’interno di una riflessione sul cinema che voglia prendersi in carico la responsabilità, se non di dare una risposta, almeno di aprire nuovi approcci possibili, alle domande che la crisi climatica e ambientale ci pone, prospettando come ipotesi non solo possibile, ma addirittura prossima, la fine del mondo e delle forme di vita diverse che lo abitano.
Reinterpretato in una prospettiva ecocritica, in relazione a quanto detto sin qui, il lavoro di De Seta è un oggetto di riflessione molto interessante e per certi versi esemplare del ruolo che il cinema può assumere in momenti di crisi, come quello che stiamo attraversando, ormai da qualche decennio. Cosa ha a che fare il medium con la questione ecologica? Le risposte a questa domanda sono molte e di importanza diversa (AA.VV 2022; E. Past 2019; M. Midena, E. Past 2023). Tanta letteratura recente si è soffermata su questo punto: a un livello più superficiale, si può certamente dire che il cinema è uno degli strumenti preposti a raccontare la crisi epocale che abbiamo tutti sotto gli occhi. Più profondamente, ci si può poi arrischiare a dire che i film sono luoghi in cui si costruiscono – e non solo si rispecchiano – forme specifiche di vita e ambienti che esistono grazie all’intervento di uno strumento come il cinema, che tecnicamente li disvela, li porta alla luce.
Il lavoro di De Seta si muove su entrambi questi piani: per prima cosa, infatti, si può sostenere che il mondo arcaico e rurale, che film come quelli che abbiamo citato raccontano, precede persino quella che, comunemente ormai, siamo soliti definire ‘Antropocene’, espressione coniata dal chimico Paul Crutzen, per indicare l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre porterebbe i segni nefasti (e forse irreversibili) dell’azione umana. Viviamo, lo sappiamo, in un’epoca in cui l’uomo concepisce il rapporto con l’ambiente in cui abita nella forma dello sfruttamento senza riserve di tutte le risorse che la natura ci mette a disposizione. In questo senso, intuitivo ed elementare, l’Antropocene segna il predominio dell’uomo sulle altre forme di vita non umane, animali o vegetali che siano.
Il mondo di cui il cinema di De Seta ci racconta le ultime gesta è, al contrario, letteralmente un ecosistema complesso, in cui l’uomo non è che una delle parti coinvolte. Le tradizioni popolari, i riti religiosi e non, che il lavoro del regista mette in scena, altro non sono che la conferma del rapporto affatto subordinato che la natura, nelle sue diverse espressioni, intrattiene con l’umano. Come ogni altro ecosistema, il mondo di De Seta si sostanzia di una serie di relazioni che mettono l’uomo nella stessa posizione del non umano, l’animale per esempio, e nel caso specifico i pesci. Basta riguardare Lu tempo di li pisci spata (1954), per capire di cosa stiamo parlando.
Il film racconta, come è noto, la pesca del pescespada nello stretto di Messina. Un piccolo gruppo di pescatori a bordo di una feluca aspetta di avvistare una preda. Il pescatore salito sull’albero dell’imbarcazione lancia un grido che suona come un richiamo per il suo branco, che in quel momento si riunisce per dare inizio alla pesca [fig. 1]. È una vera e propria lotta quella che gli uomini ingaggiano con il pescespada: lo rincorrono, lo arpionano, lo tirano con enorme fatica sulla barca e infine gli imprimono con le unghie un marchio che identifica i pesci pescati nello stretto di Messina [fig. 2]. Nonostante la violenza, quella a cui assistiamo è una lotta in cui l’uomo e l’animale mostrano di essere in una relazione tale per cui, in un modo o nell’altro, i due si riconoscono: entrambi fanno parte di un sistema ecologico, scandito da un tempo, prima disteso, poi via via più concitato, che il ritmo del montaggio ci restituisce. C’è una porzione di mondo, nella sua interezza, ne Lu tempu di li pisci spata, in cui uomini e animali sono attori, allo stesso modo. Così, lo stretto di Messina, non è semplicemente il paesaggio che fa da sfondo all’impresa dei pescatori: piuttosto è l’ambiente che si fa garante della relazione fra le parti – umane e non – che all’interno di esso vivono, si muovono e infine muoiono. La grandezza del lavoro di De Seta è mostrare come la macchina da presa non si limiti a rappresentare il mondo che ha di fronte, ma partecipi ad ampliare il sistema di relazioni di cui finisce per far parte essa stessa. Nelle mani De Seta, la macchina da presa, dunque, è uno strumento che costruisce uno spazio-ambiente che oltrepassa l’umano, include le forme di vita animali, fino ad arrivare ad assumere uno sguardo che non ha più caratteristiche antropomorfe, ma piuttosto impersonali.
Anche in questo senso, i documentari di De Seta consentono una lettura che lo reinterpreti in prospettiva ecocritica. La centralità della presenza umana nel mondo, che ha trovato la sua più nefasta concretizzazione nelle storture dell’Antropocene, può forse trovare un’alternativa in tentativi di dislocamento e riposizionamento dello sguardo, come certo cinema ha dichiarato di saper fare. I documentari di De Seta mostrano, mi pare, il processo che conduce gradualmente a una vera e propria de-antropomorfizzazione del punto di vista assunto dalla macchina da presa. Sono ancora scene di pesca quelle di cui si racconta in Contadini del mare, questa volta la mattanza dei tonni, al largo delle coste di Trapani. Ancora più che ne Lu tempu di li pisci spata, qui la pesca si configura come uno scontro corpo a corpo fra uomo e animale. In un’alternanza di inquadrature, che mostrano da una parte i pescatori impegnati a tirare le reti e d’altra i tonni intrappolati, De Seta costruisce una continuità visiva che allude, in un certo senso, a una vicinanza (una indistinguibilità, persino) fra gli uni e gli altri [figg. 3-4]. Uniti in gesti reiterati e ritmati, i pescatori costituiscono – proprio come i tonni – un corpo unico, in cui è impossibile distinguere un individuo da un altro, un volto da quello che gli sta accanto. La macchina da presa non può quindi assumere la posizione di nessuno di loro, dal momento che una posizione univoca non esiste: è il primo segno del fatto che De Seta sta lavorando qui a una de-personalizzazione dello sguardo del suo cinema, progetto che lo rende oggi profondamente attuale. Molto più che il solo punto di vista del regista, la macchina da presa riesce qui a restituire la complessità di un ambiente, nel quale forme di vita umane e non umane vivono in una relazione mediata dalla presenza dell’acqua. Ed è di questo elemento che la macchina da presa assume il movimento, quasi arrivando a coincidere con la fluidità delle onde. Quando l’uomo si fa indietro, un ecosistema complesso emerge. De Seta lo sa e per questo quasi sparisce: perché è così, attraverso questo radicale gesto di sottrazione, che un intero mondo si è palesato e continua a vivere nei suoi film, in un’operazione che qualcuno potrebbe definire, letteralmente, di ‘salvaguardia ambientale’.
Bibliografia
AA.VV., ‘EcoCinema’, Bianco&Nero, n. 602, 2022.
R. De Gaetano, D. Dottorini, N. Tucci (a cura di), Il paesaggio degli autori. Cinema e immaginario meridiano, Cosenza, Pellegrini, 2023.
M. Midena, E. Past, Antropocine, lo schermo verde. Manuale di percorsi e idee per un Italian Ecocinema, Roma, Altraeconomia, 2023.
E. Past, Italian Ecocinema Beyond the Human, Blominghton Indiana, Indiana University Press, 2019.
A. Sainati, La settimana Incom. Cinegiornali e informazione negli anni ’50, Torino, Lindau, 2001.
A. Sainati, M. Federico (a cura di), Le vie del Sud. Transiti e confini nel cinema meridiano, Pisa, Edizioni Ets, 2023.
D. Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, tr. it. a cura di P. Montani, Milano, Mimesis, 2011.