Sulla vetta di Punta Sulitta i corpi di Michele e di Peppeddu, i protagonisti di Banditi a Orgosolo (1961), si stagliano sul cielo terso e grigio, spruzzato di qualche nuvoletta. Il Supramonte barbaricino è tutto intorno e sullo sfondo il massiccio calcareo del Corrasi, bianco, quasi un deserto, fa pendant con il cielo [fig. 1]. In questo paesaggio immenso è proprio lo spazio aperto, quasi un ossimoro visivo, a segnare confini insuperabili che isolano i due fratelli in una intimità austera. Il tono cinereo, con una dominante grigia dovuta in primis alla pellicola in bianco e nero che non valorizza il consueto splendore del cielo sopra la Sardegna, segna l’atmosfera che regna fra i due fratelli: pacata e allo stesso tempo amara. È uno dei rari momenti di intimità in cui il carattere burbero e schivo di Michele non condiziona il rapporto con il ragazzino. I due parlano fra loro di rapporti familiari, del padre che è morto cadendo in un precipizio molti anni prima mentre seguiva le capre, dell’inscindibile legame che unisce il lavoro con la vita quotidiana tanto da identificare l’uno nell’altra. D’altronde la vita del pastore identificata con il proprio lavoro è un filo rosso che attraversa tutto il film, il mestiere è la natura della propria vita, di padre in figlio senza possibilità di interruzione.
E si parla anche dell’ambiente circostante, un ambiente abbandonato che potremmo definire, seguendo Gilles Clément, una ‘riserva’ sottratta al territorio antropizzato (Clément 2016, p. 13). «Perché non ci sono pastori qui?» chiede Peppeddu. E il fratello maggiore risponde: «Perché sono posti brutti. D’inverno c’è la neve e l’estate manca l’acqua». Posti brutti, dunque, dove la bellezza/bruttezza del luogo non dipende da fattori estetici, dal paesaggio suggestivo, ma solo dalla possibilità di poterlo vivere in funzione del lavoro. La sensibilità verso il luogo è diversa, invece, per il più piccolo, che dell’ambiente coglie una bellezza intrinseca: «A me piace, però» replica, infatti, al fratello. La macchina da presa ci mostra il ragazzino in contre-plongée che sale su una roccia [fig. 2], lo stacco stringe sul primo piano del capo che si guarda intorno. L’inquadratura stretta colloca il volto sul fondo neutro del cielo grigio isolandolo dal contesto e il movimento rotatorio della testa che si guarda intorno non è accompagnato dal raccordo di sguardo che, secondo le regole sintattiche, dovrebbe mostrare ciò che viene osservato. Non è importante ri-vedere il paesaggio perché ciò che prova il ragazzo va oltre quanto osserva, è un piacere interiore che scaturisce dall’essere in quell’ambiente. Michele, al contrario, ha una visione disincantata, ha perso ogni prospettiva positiva e la strada verso la trasformazione in bandito accentua il conflitto nei confronti del mondo esterno, riguardi esso gli uomini o l’ambiente con cui entra costantemente in rapporto.
Le forze dell’ambiente, afferma Deleuze:
[…] agiscono sul personaggio, gli lanciano una sfida e costituiscono una situazione nella quale egli è preso. Il personaggio reagisce a sua volta (azione propriamente detta) in modo tale da rispondere alla situazione, da modificare l’ambiente o il suo rapporto con l’ambiente, con la situazione, con altri personaggi. Deve acquisire un nuovo modo di essere (habitus), o innalzare il suo modo di essere alle esigenze dell’ambiente e della situazione (Deleuze 1984, pp. 167-168).
Sin dall’inizio del film, nella scena della caccia al muflone, il protagonista ingaggia una sorta di competizione con il paesaggio circostante: lo deve dominare, controllare, portare a sé. La corsa a perdifiato sulla pietraia per raggiungere la preda mostra una tale dimestichezza nel movimento che evidenzia quanto l’uomo sia integrato in quel particolare ambiente [fig. 3]. Lo stesso accade quando scappa per la prima volta dai carabinieri: è veloce e agile come uno stambecco. Ma man mano che la vicenda si sviluppa e il nemico ‘ufficiale’ si manifesta in tutta la sua espressione negativa, lo spettatore si accorge che il pericolo reale va ben oltre i carabinieri e lo Stato ed è insito nell’ambiente stesso di cui Michele è parte integrante e le cui forze agiscono su e contro di lui. Il posto è ‘brutto’, secondo Michele, sia perché non controllabile, sia perché diventa suo antagonista e gli impedisce di raggiungere il suo obiettivo, ossia arrivare nella pianura per sfuggire ai carabinieri. In fin dei conti ciò che sconfigge Michele è il Supramonte stesso, o meglio, quella parte che è costretto a percorre nonostante conosca la sua pericolosità.
La breve scena di Punta Sulitta sintetizza il modo particolare in cui è costruito il rapporto fra il protagonista e il paesaggio. Relazione segnata da una contraddizione di fondo in quanto il legame fra Michele e la natura che lo circonda è da un lato sempre molto forte, sottolineato dalla collocazione del personaggio nell’ambiente [fig. 4], dai colori del suo abbigliamento che quasi lo mimetizzano fondendolo con la natura [fig. 5], dalla dinamica con cui si muove nello spazio [fig. 6]; dall’altro lato alcune battute, come quella riportata, e ancor più lo sviluppo della storia esprimono conflittualità. Diego Carpitella segnala il linguaggio del corpo, ossia il modo di muoversi e la postura, come fatto culturale di cui si occupa la disciplina socio-antropologica della cinesica (Carpitella 1981, p. 61) che usa come strumento scientifico più idoneo la macchina da presa cinematografica. Uno degli studi di Carpitella in questo ambito è dedicato proprio ai pastori barbaricini dei quali il linguaggio del corpo è espressione identitaria ben oltre la prossemica (Carpitella 1984).
Michele riesce a sfuggire ai carabinieri, ma non al mondo di cui egli stesso fa parte e che lo tiene prigioniero senza possibilità di fuga.
In questa condizione di conflitto, spetta al fratello giovane il compito di proporre una alternativa non rassegnata. E se nel dialogo a Punta Sulitta il giovane Peppeddu sottolinea la bellezza del paesaggio che il fratello maggiore non riesce a cogliere, nell’epilogo del secondo atto, quando il climax è stato appena raggiunto con la morte del gregge, spetta sempre a lui dissentire dal fratello per propendere verso uno sviluppo che non sia la mera trasformazione in bandito.
Le rocce sgargianti dell’altopiano del Corrasi, lo stesso luogo in cui George Huston qualche anno dopo girerà la celebre scena del sacrificio di Isacco della sua Bibbia, sono disseminate di pecore agonizzanti. Peppeddu le scopre al risveglio dopo il presagio dato dall’avvoltoio che incombe dall’alto. De Seta inquadra la scena in un campo lungo che esalta la profondità di campo e mostra il ragazzino che lentamente si avvicina verso gli animali e, seguito in un long take panoramico, le controlla una per una per poi correre disperato dal fratello [fig. 7]. Michele è seduto su un masso con lo sguardo perso nel vuoto della vallata. «Si vede che erano destinate così» risponde al fratello che gli chiede perché le pecore stiano morendo e aggiunge un emblematico e definitivo «non ho più scelta ormai». Il viaggio verso la salvezza è finito. Michele è sfuggito ai carabinieri e alla legge dello Stato ma non alla natura del luogo, quella che, come lasciava intuire la voce narrante già nell’incipit, fa «diventare banditi da un giorno all’altro, quasi senza rendersene conto». Il destino entra definitivamente nelle vicende di Michele e Peppeddu e il mito diventa centrale rispetto al fatto storico portando a compimento quanto delineato in maniera frammentata nel corso del film. Il paesaggio, da semplice luogo in cui si svolgono le vicende, diventa elemento determinante nella narrazione evidenziando che dietro la vita quotidiana c’è sempre il mito (Bernardi 2002, pp. 74-84).
Il destino di Michele si è compiuto e la strada del banditismo è intrapresa, ma non per il ragazzino. Poco prima dell’inizio del terzo atto di epilogo del film i due fratelli si muovono rapidamente sul calcare del monte Corrasi. Peppeddu prende con sé il paiolo per fare il formaggio, la bisaccia e il secchio per la mungitura e si avvia, ma il fratello gli strappa di dosso gli attrezzi del mestiere e li scaraventa lontano: «Ma perché te la porti dietro questa roba? Non l’hai capito che non serve più. Buttala. Buttala via! Non le abbiamo più le pecore. È finita!». Peppeddu, però, non accetta di rassegnarsi. Si china, raccoglie il paiolo e controlla che non sia stato danneggiato [fig. 8], lo mette in spalla e riparte per seguire il fratello a debita distanza. Ancora una volta è la collocazione nello spazio che evidenzia due differenti sensibilità.
De Seta aveva già mostrato la Barbagia nei due precedenti cortometraggi del 1958 (Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia) accennando i caratteri che verranno sviluppati e articolati in Banditi a Orgosolo di cui sono un proemio (Consolo 1995, p. 29). Il secondo dei due è ambientato nel centro abitato e mostra il paesaggio rurale solo marginalmente, esso è invece centrale nel primo dei due documentari in cui si ritrovano le tracce del successivo lungometraggio sin dai primi scorci in cui il pastore si muove sulle pietraie del Supramonte. Qui l’assenza di dialoghi non favorisce l’articolazione narrativa e i personaggi si muovono sulla scena come delle monadi che pur trovandosi nello stesso ambiente non comunicano fra di loro. Questa mancanza di comunicazione interna impedisce al racconto di esprimere una prospettiva alternativa a quella dominante e dal film traspare solo l’idea di un mondo chiuso in cui i pastori sono come prigionieri della natura e costretti a ripetere sempre le stesse azioni in un rituale senza tempo. Il paesaggio opprime e, paradossalmente, i grandi spazi aperti invece che dare l’idea di libertà tendono a isolare. Serviranno i tempi del lungometraggio e l’inserimento accanto ai pastori di una figura giovane per offrire uno sguardo nuovo.
Tag: Sud, cinema, documentario, De Seta, paesaggio
Bibliografia
S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002.
D. Carpitella, Cinesica 2. Barbagia, Prod. Istituto Luce, Italia, 42’, 1984.
D. Carpitella, ‘Cinesica 1. Napoli. Il linguaggio del corpo e le tradizioni popolari: codici democinesici e ricerca cinematografica’, La Ricerca Folklorica, n. 3, aprile 1981, pp. 61-70
G. Clément, Manifesto del terzo paesaggio [2014], trad. it. F. De Pieri e G. Lucchesini, Macerata, Quodlibet, 2016.
V. Consolo, Il metodo verghiano di De Seta, in A. Rais (a cura di), Il cinema di Vittorio De Seta/The Films
of Vittorio De Seta, Maimone, Catania 1995.
G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento [1983], trad. it. di J.-P. Manganaro, Milano, Ubulibri, 1984.