Il teatro all’epoca del Lorem Ipsum. Il debutto di Kanata di Robert Lepage/Théâtre du Soleil

di

     
Abstract: ITA | ENG

Lo spettacolo Kanata-Episode 1. La controverse ha debuttatoil 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil; in questa occasione, per la prima volta, Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage. Con KanataMnouchkine e Lepage intendono mostrare la condizione attuale degli Indiani del Canada: una comunità sterminata in cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve, costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese. A partire da una ricognizione storica del fenomeno, il saggio affronta la controversiainternazionale sorta attorno alla scelta dei registi di non portare in scena degli indiani autoctoni, affidando invece a degli attori la rappresentazione delle loro vicende. Tale decisione, infatti, è stata vista dalla comunità delle Prime Nazioni come una forma di ‘appropriazione culturale’; concetto che viene esplorato attraverso la ‘crisi della presenza’ trattata da Ernesto de Martino ne Il mondo magico, e la ‘realtà proxy’, la politica del sostituto, smascherata dall’artista giapponese Hito Steyerl.

The show Kanata - Episode 1. La controversedebuted on December 15 2018 at the Cartoucherie, the historic headquarters of the company Théâtre du Soleil;on this occasion, for the first time, Ariane Mnouchkine gave up directing to leave the leadership of her company to the award-winning french-canadian director Robert Lepage. With KanataMnouchkine and Lepage want to show the current condition of the Indians of Canada: a community exterminated in five hundred years of colonial history, today marginalized in the reserves, forced to depend on state subsidies and a coercive assimilation in Canadian society.Starting from a historical recognition of the phenomenon, the essay deals with the international controvers that arose from the choice of the directors not to bring indigenous Indians to the stage, instead entrusting the representation of their stories to the actors. In fact, this decision was seen by the First Nations community as a form of ‘cultural appropriation’; concept that is explored through the ‘crisis of presence’ treated by Ernesto de Martino in Il mondo magico, and the idea of ‘proxy reality’, of a substitute politician, which has been exposed by the japanese artist Hito Steyerl.

 

1. La controversia teatrale

Al Festival d’Automne di Parigi 2018 Kanata- Episode 1. La controverse è stato sicuramente lo spettacolo più ambito del ricco programma, ma anche il più controverso, tanto che questa parola è diventata parte integrante del titolo per volontà degli autori.

Kanata, che significa ‘villaggio’ nella lingua degli Indiani del Canada (dalla metà degli anni Ottanta chiamati ‘Prime Nazioni’) è andato in scena in una versione ridotta e ancora in forma di ‘prova generale’,[1] il 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil. Per la prima volta Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage.[2]

 Locandina dello spettacolo

Considerata da un lato la composizione multiculturale del Théâtre du Soleil diretto da Ariane Mnouchkine,[3] il suo impegno verso le problematiche sociali degli immigrati e dei sans-papiers, e dall’altro l’attenzione di Robert Lepage verso le minoranze asiatiche in Nordamerica sin dall’epoca de La Trilogia dei dragoni (1989), non stupisce affatto lo sguardo teatrale rivolto dai registi alla ‘visible minority’ delle Prime Nazioni (634 registrate in tutto il Canada, pari al 4% della popolazione, localizzate soprattutto nella zona dell’English Columbia e dell’Ontario). Una comunità sterminata nei cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve[4] o costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese, attraverso il famigerato sistema delle ‘scuole residenziali’ del XIX secolo che separava i bambini dalle famiglie affidandoli a chiese cristiane. Ai nativi che frequentavano le scuole dei coloni era proibito parlare la loro lingua o mantenere la tradizione della tribù di appartenenza; qui molti giovani avrebbero subito violenze fisiche e sessuali (di questo parla un documentario-verità a firma di Louise Lawless). Solo nel 2008 il governo canadese si è ufficialmente scusato con le vittime di questi abusi e con le loro famiglie.[5]

L’intenzione degli autori di Kanata era quella di mostrare la condizione attuale di una comunità che ha ereditato la cultura mitico-rituale degli antenati i quali credevano «nell’animazione intenzionale generale di tutto ciò che si manifesta»,[6] e rappresentavano una realtà etnica e identitaria complessa ma egualitaria. Spazzata via da un vero genocidio, oggi questa comunità è stata toccata anche dal dramma dell’alcolismo e dei suicidi di massa, a causa delle condizioni di vita nelle riserve, dell’emarginazione sociale e della mancanza di lavoro.[7] A questo si aggiunge la grave situazione rappresentata dalla scomparsa di donne indigene a seguito di violenze: uccise, abbandonate nei fiumi o mai più ritrovate.[8] Si tratta di un fenomeno che ha avuto un incremento tragico e su cui esistono molti documentari e film, tra cui River of Silence di Petie Chalifvoux (2016), Wind River (2017) di Taylor Sheridan, vincitore della Miglior Regia al Festival di Cannes (sezione Un Certain Regard), e On the Farm di Rachel Talalay (2016) basato sull’omonimo libro di Stevie Cameron.[9] È proprio questo volume ad aver offerto la maggior parte delle suggestioni alla produzione teatrale, andando a scavare nella storia terribilmente drammatica delle donne indiane uccise a Vancouver agli inizi del 2000 da un serial killer, William Pickton. Il ‘trattamento della tematica’ diventa ben presto oggetto di una controversia teatrale senza precedenti, di cui i giornali si sono abbondantemente alimentati. La domanda più frequente che circolava tra il pubblico prima del debutto era: «Ariane Mnouchkine e Robert Lepage avranno accettato di mettere nel nuovo spettacolo degli indiani veri?».

 La Cartoucherie ospita Kanata. Ph. Marzio Villa

Infatti, la curiosa richiesta pubblicata su «Le Devoir»[10] era stata proprio questa, attraverso una lettera firmata nel luglio 2018 da Perry Bellegarde, Capo dell’Assemblea delle Prime Nazioni, e sottoscritta da molti rappresentanti di associazioni in difesa dei diritti degli indiani, tra cui vari artisti autoctoni. La lettera sottolineava la presunta mancanza di sensibilità nei confronti di popolazioni già abbastanza ‘invisibili’ nella società canadese, evidenziata dalla scelta di escludere attori e autori indigeni, considerati gli unici veri ‘depositari della Storia’:

Uno dei maggiori problemi che abbiamo in Canada è far sì che la maggior parte delle persone a volte a stretto contatto con noi, ci rispetti quotidianamente anche nella comunità artistica. La nostra invisibilità nello spazio pubblico, sul palco, non ci aiuta. E di questa invisibilità, Mrs. Mnouchkine e Mr. Lepage, non sembrano tener conto, perché nessun membro delle nostre nazioni farà parte dello spettacolo.[11]

 

Scoppia un vero affaire internazionale: il comunicato di luglio contiene una precisa accusa di ‘appropriazione culturale’; in sostanza il gruppo degli autoctoni si definisce ‘espropriato’ della propria storia, escluso da un progetto teatrale fatto da rappresentanti di una cultura dominante, e si dice «stanco di sentire altra gente raccontare le nostre storie». Il teatro viene accusato di appropriarsi delle vicissitudini e del dolore degli altri; l’esclusione di attori indigeni è, effettivamente, il nodo della diatriba:

 

In questo momento in cui ci sono risorse per noi per raccontare la nostra storia e abbiamo la capacità, l’abilità, il desiderio e la passione di raccontare la nostra storia. [...] Ci sono ancora persone che cercano di raccontare la nostra storia per noi. E penso che siamo arrivati al punto di finirla con questo.[12]

Questa assenza si configura agli occhi degli autoctoni su un piano simbolico e metaforico, come un vero e proprio rischio antropogenetico: quello dell’estinzione della loro popolazione, della loro stirpe. I termini della discussione sembrano collegarsi al concetto di «crisi della presenza» espresso da Ernesto de Martino ne Il mondo magico (1948):[13] le pratiche e i riti del ‘mondo magico’ costituiscono la principale tecnica protettiva per le civiltà primitive per riscattare la propria presenza e agire nel mondo. La crisi della presenza si definisce in alcuni momenti, descritti da De Martino come «momenti critici» dell’esistenza, ovvero la rottura di un ordine costituito, l’apparire di pericoli nella natura, il senso di paura e angoscia della solitudine:

I momenti critici dell’esistenza possono essere quelli connessi alla ricerca del cibo e alla nutrizione, alla fabbricazione e all’impiego di strumenti tecnici, ai rapporti sessuali e alla crisi della pubertà, al rapporto col nemico o con lo straniero, all’attraversamento o occupazione di territori nuovi [...]; in tutti questi momenti la storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza, il compito umano di esserci è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a scegliere: il carattere critico di tali momenti sta nel fatto che in essi il rischio di non esserci è più intenso e quindi più urgente il riscatto culturale.[14]

 

La rivendicazione dell’esistenza si attua attraverso l’istituto della ‘destorificazione’ e dell’‘iterazione dell’identico’, e porta a un processo rituale che conduce al sacro: dalla cancellazione della «storia angosciante o al suo mascheramento»[15] alla piena attuazione dell’umana realizzazione. Similmente, di fronte al pericolo di perdere identità e cultura, gli autoctoni rivendicano oggi un’azione risarcitoria: un riscatto culturale in forma di ‘appropriamento’ della crisi attraverso una sua imitazione/ripetizione a teatro; si parla anche di timore di un ‘uso folcloristico’ e edulcorato della Storia, laddove siano attori e non loro stessi a incarnarne le vicende. Così Dave Jenniss, direttore artistico del Théâtre Ondinnok:

Non si può prendere le storie delle persone e dirle come si vuole sul palco e, soprattutto, non metterle lì. Per me, è una assoluta mancanza di rispetto, specialmente con tutto ciò che sta succedendo in questo momento. Siamo nel 2018. Non siamo più nel 1960 in un vecchio documentario della CBC che fotografa gli aborigeni e fa ciò che vuole.[16]

In base a queste rivendicazioni protezionistiche (secondo alcuni critici auto-discriminanti) potrebbe fare un teatro che denunci segregazioni, umiliazioni, violenze solo chi appartenga a quei gruppi e le abbia subite. L’impiccato di domani di Brendan Behan avrebbe dovuto essere scritto e messo in scena da un condannato a morte e non da un drammaturgo irlandese alcolizzato, militante dell’Ira, Salomé di Oscar Wilde avrebbe avuto senso solo se messa in scena da omosessuali, e così via.

Considerata l’eco mediatica della vicenda, gruppi e società che avevano garantito l’adeguato appoggio economico (tra cui il Conseil des Arts du Canada), si staccano dalla cordata della coproduzione, quando ancora il debutto è di là da venire. Mnouckhine intervistata, ribadisce come: «L’arte dell’attore è proprio quella di diventare l’altro [...] Amleto non ha bisogno di essere danese; il teatro ha bisogno di distanza».[17] Anche Lepage chiarisce la sua posizione, rivendicando il diritto del teatro alla finzione e la libertà di parlare «di qualunque cosa a chiunque», fuori da ogni possibile imposizione:

 

Nel corso della mia carriera, ho dedicato molti spettacoli a denunciare le ingiustizie perpetuate in tutto il mondo a specifici gruppi culturali senza includere per questo motivo attori provenienti da questi ambiti culturali. Questi spettacoli sono stati rappresentati in tutto il mondo, di fronte a un pubblico diverso senza che nessuno mi abbia mai accusato di appropriazione culturale. Al contrario. Ex Machina è una delle compagnie teatrali più rispettate al mondo.[18]

Mnouchkine rimane indispettita da quella che sembra a tutti gli effetti, se non una censura, una forte limitazione dell’espressione artistica; colpita dalle «intimidazioni ideologiche sotto forma di articoli di colpevolezza o imprecazioni accusatorie, molto spesso anonime, sui social network»,[19] dagli attacchi da parte di coloro che, animati da pregiudizi, si conformavano al verdetto di questo ‘tribunale’ in modo preventivo, risponde affermando che in teatro l’unica cosa che conta è l’opera, e la prova del suo valore è la presenza del pubblico o la sua assenza; un’opera che però ancora nessuno aveva visto.[20]

 La Cartoucherie ospita Kanata: la sala d’attesa del pubblico. Ph. Marzio Villa

Lepage e Mnouchkine, dopo un primo annuncio di cancellazione dello spettacolo, decidono di muoversi autonomamente, e la produzione del Théâtre du Soleil (con la rinuncia da parte di Lepage al proprio cachet) avrebbe garantito alla compagnia di arrivare in fondo al lavoro, già definito nella sua struttura dopo svariati mesi di prove. Il 27 luglio Lepage e Mnouchkine pubblicano una dichiarazione che non lascia spazio a equivoci: il loro spettacolo non vìola le leggi dello Stato, non fa apologia di guerra, non insulta nessuno:

 

Kanata ne violait ni la loi du 29 juillet 1881 ni celle du 13 juillet 1990 ni les articles du Code pénal qui en découlent, en cela qu’il n’appelle ni à la haine, ni au sexisme, ni au racisme ni à l’antisémitisme; qu’il ne fait l’apologie d’aucun crime de guerre ni ne conteste aucun crime contre l’humanité; qu’il ne contient aucune expression outrageante, ni terme de mépris ni invective envers une personne ou un groupe de personnes à raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non-appartenance à une ethnie, une nation, ou une religion déterminée.[21]

 

Kanata, spettacolo di evidente ispirazione transculturale che si colloca lungo la direttrice di ricerca del secondo Novecento tracciata da Peter Brook, dall’Odin e dal Soleil stesso,[22] prima ancora del debutto passa alla storia con l’accusa di violazione teatrale di ‘copyright umano’. L’addebito di ‘cultural appropriation’ a Lepage e Mnouchkine ricorda le simili critiche mosse da Rustom Bharucha al Mahabharata di Brook (1985), letto all’epoca come un’operazione che «trivializzava la cultura indiana impacchettandola in una struttura drammatica pensata specificamente per un pubblico occidentale».[23]

Accolgo sul tema l’acuta riflessione di Francesco Fiorentini che partendo dall’estetica di Brecht (la «singolarità del singolo» garantita dall’«appartenenza a più di una collettività», e dal prerequisito di distacco da sé stessi necessario per acquisire conoscenza) ricorda che

 

si appartiene a molti gruppi, perciò non si appartiene mai del tutto a nessuno di essi e a ognuno si resta sempre un po’ estranei. Perciò se si definisce l’identità a partire da una sola appartenenza (ai bianchi o ai neri, alle donne o agli uomini ecc. ecc.), si oscurano altre appartenenze (culturali, politiche, sociali, sessuali, di classe) e si produce un’identità culturale basata sull’esclusione, sull’esclusione anche di parti di noi stessi dall’immagine che di noi stessi ci facciamo. Il che non può non generare nevrotici disagi e fatali insincerità. Perciò bisogna chiedersi chi ha interesse a favorire la contrapposizione tra bianchi e neri, o tra “noi” e gli “stranieri”, e quali altre differenze vuole nascondere.[24] 


 

Il dibattito di Kanata arriva dopo la cancellazione forzata di un altro spettacolo a firma di Lepage: il concerto blues SLĀV basato sui canti degli schiavi afro-americani al Montreal International Jazz Festival, cancellato con la stessa accusa di appropriazione culturale. Lo show, infatti, era interpretato da una cantante bianca, Betty Bonifassi.

 La Cartoucherie ospita Kanata: i camerini. Ph. Marzio Villa

 

2. Il teatro all’epoca del Lorem Ipsum

Tutti sappiamo che il segnaposto grafico Lorem Ipsum dolor sit amet indica un buco nella pagina web che verrà riempito, ma in un secondo tempo: è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, un testo non ancora deciso. Quindi inutile cercare di tradurre le frasi in latino di Marco Tullio Cicerone perché non significano nulla in questo contesto, semplicemente riempiono un vuoto. Per molti mesi a proposito di Kanata non si è parlato dello spettacolo, dell’eccezionalità della firma di Lepage per il Soleil, della tematica politica, ma solo del buco rappresentato da quel Lorem Ipsum teatrale, ovvero di qualcosa che era ancora in via di trasformazione, di una maschera che non aveva ancora aderito al volto dell’attore.

Il 15 dicembre quando alla Mnouchkine veniva chiesto se ci sarebbero stati indiani veri sul palcoscenico, insomma se quel Lorem Ipsum si sarebbe incarnato in un portavoce dei loro diritti, lei rispondeva puntualmente: «Si vedrà. Ma se lei me lo chiede vuol dire che lo spettacolo non le piacerà». La fondatrice del Soleil aveva ben capito che l’evento teatrale di cui era nota solo la trama generale, ovvero le relazioni tra autoctoni e colonizzatori bianchi, si era trasformato in qualcosa di anomalo, in un ‘caso’ da circo mediatico. Come separare a questo punto il segnale dal rumore? L’intenzionalità creativa autentica da una sequenza incontrollata di voci, alimentata dalla stampa? A teatro, dove la vita è per eccellenza falsa e dove le maschere e i ‘sostituti in carne e ossa’ sono le fondamenta del gioco, cioè eserciti di persone ‘per procura’ (i volti truccati degli attori stessi o fantocci, marionette, ombre, macchine), qualcuno rivendica l’assurdo e impossibile diritto di esistenza in scena. Sembra di sentire in queste parole i protagonisti dei Sei personaggi pirandelliani: gli autoctoni chiedono che il regista metta in scena anche loro, insieme alla loro storia; insomma, come il dottor Scoto dei Personaggi, chiedono un’«esistenza imperitura». La confusione pirandelliana tra realtà e finzione raggiunge a questo punto l’apice, tanto da diventare un tema a sé, ben più intrigante della trama stessa:

 

Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere per la mia e per l’altrui felicità. Mi faccia vivere, signore! Mi faccia viver bene, la prego; ho buon cuore, guardi! Un discreto ingegno, oneste intenzioni, parchi desideri: merito fortuna. Mi dia, prego, un’esistenza imperitura.[25]

 

La citazione corrisponde alla richiesta degli autoctoni: «What we want is for our talents to be recognized, to be celebrated today and in the future because WE ARE».[26]

La caverna di Platone ancora inganna. Chi è titolato a parlare per qualcun altro? Nel Parlamento sono i rappresentanti del popolo eletti democraticamente, a teatro, che non ha bisogno di una democrazia rappresentativa, ci sono gli attori. Complicato e ovviamente inutile far interpretare Medea ad un’infanticida, o Edipo a qualcuno che si cavi davvero gli occhi. Eppure il problema sollevato dagli autoctoni e dai loro supporter non è dissimile. Ed è espresso esattamente in questi termini: «Who has the right to tell and represent a community’s history?». Lepage non può che ricordare agli indigeni cosa sia il teatro, cosa significhi incarnare qualcun altro, cosa che probabilmente i loro antenati, che avevano dato vita a quel complesso cerimoniale che è il potlach, sapevano benissimo:

 

Dall’alba dei tempi, il teatro si è basato su un principio molto semplice, che si interpreta qualcun altro. Fingendo di essere qualcun altro. Che si entra nei panni di un’altra persona per cercare di capirli e, nel processo creativo, forse capire meglio noi stessi. Questo antico rituale richiede che prendiamo in prestito, per la durata di una performance, l’aspetto, la voce, l’accento e talvolta anche il sesso di qualcun altro. Ma quando non ci è più permesso di entrare nei panni di qualcun altro, quando è vietato identificarsi con qualcun altro, al teatro viene negata la sua stessa natura, gli è impedito di svolgere la sua funzione primaria.[27]

 

 La scena di Kanata. Ph. Marzio Villa

Insomma, Lepage, esattamente come Pirandello, appare perseguitato da personaggi indispettiti per come sono stati trattati; e proprio come l’autore siciliano col dottore Fileno, a cui egli rispose con un rifiuto e un decisivo «si rassegni», il regista canadese di fronte alla richiesta di rimaneggiare l’opera e cambiare la storia, non ritorna sui suoi passi. Il problema non è la loro assenza o presenza in scena, ma la loro presenza o assenza nella società. Per questo la protesta teatrale diventa ancora più significativa e simbolica: ciò che non attecchisce nel terreno della realtà deve almeno attecchire nel teatro, che ne è un succedaneo.

Emer O’Toole, che studia la rappresentazione nelle pratiche teatrali interculturali, chiamato in causa sulla questione afferma che la posizione di Lepage è troppo ristretta:

 

Certamente il teatro si basa sul fingere di essere qualcun altro, ma questo non significa che tu sei assolto completamente eticamente parlando, dalla natura di quelle rappresentazioni. Penso che si possa interagire e rappresentare le culture di altri popoli, nazioni, razze, etnicità e così via e farlo rispettosamente attraverso il dialogo con quelle culture.[28]

 

La maschera, il travestimento, l’interpretazione, la reviviscenza, l’impersonazione, il concetto di ‘altro da sé’ vengono esposti al linciaggio: la garanzia di verità e unicità sarebbe quindi la presenza fisica in scena – reale e non alienata o mediata –, altrimenti il gioco teatrale non risulta valido. Ma è davvero così? Sul tema del culto della presenza vissuta in epoca di ‘media-mondo’[29] ci viene incontro l’artista giapponese Hito Steyerl, che ha dedicato un libro allo smascheramento della «realtà proxy»,[30] della politica del sostituto, dell’arte che tenta di sfuggire al «panico del Dasein totale»: esserci senza mediazioni, presenziare a tutte le ossessive occasioni di aggregazione che internet e l’iperconnessione digitale promuovono non rappresentano forse l’odierna risposta alla paura del sostituto?

 

L’artista deve essere presente, come suggerisce il titolo della performance di Marina Abramovic. E non solo presente, ma presente in via esclusiva, presente per la prima volta o in qualche altra concitata declinazione del nuovo. L’occupazione artistica è in via di ridefinizione in termini di presenza permanente […] L’economia dell’arte è profondamente immersa in questa economia della presenza.[31]

 

Il capo indiano ha creduto che in scena ci fosse un boicottaggio della presenza. In un mondo che fa tutto per procura, per rappresentanza, appunto per proxy come ci ricorda Hito Steyerl (dalla guerra, al sesso, alla politica), gli attori sono stati scambiati per bot e il teatro per una piattaforma social.[32] A teatro gli attori stanno al posto di qualcun altro: per quanto possano essere dentro la dimensione emotiva del personaggio, talvolta dilaniati dalla storia che parla attraverso la loro bocca, lo fanno attraverso la maschera, segno della massima trasformazione dell’io che serve appunto a partecipare a una realtà ‘altra’, fuori dal tempo, facendo perdere la propria ‘caducità’, il proprio tratto, negando persino la propria umanità, proiettando l’individuo in una dimensione metastorica:

 

La maschera è segno della tensione a superare la condizione umana e insieme limite all’ansia di trascenderla […]. La maschera è una sofferta dichiarazione di distanza, di voragine spalancata tra umano e non umano. La maschera nega ogni somiglianza con l’uomo […]. La maschera è il modo di uccidere il corpo dell’uomo che è segno del tempo.[33]

 

Alla maschera Ferdinando Falossi ha dedicato un ampio e documentato studio in due volumi; qui si ricorda che la metamorfosi dell’individuo, cui la maschera è inscindibilmente legata è

 

un percorso arduo e spesso rischioso, compiuto nel tentativo di superare le restrizioni di una condizione umana percepita come angusta e schiava delle regole del divenire. E’ un gesto fondante di arcaica ribellione al limite. Un gesto remoto perché avviene all’interno di una concezione magica del mondo che è da tempo estranea alle categorie di pensiero occidentali, le quali sembrano ruotare attorno a una conservazione a oltranza dell’identità ontologica dell’individuo. Trasformarsi, espandersi, diventare un altro […]. Gesto estremo quello del mettersi una testa più grande della propria; gesto straordinario quello di assumere una identità più vasta. Strani passaggi di una metamorfosi che è distruzione metodica e riedificazione dell’io.[34]

 

Il teatro non è televisione o giornalismo, e anche laddove di mezzo ci sia una storia vera, si mette in scena sempre una libera interpretazione dei fatti, una trasfigurazione di personaggi attraverso la maschera che non può mancare.

Ma l’Arte è davvero più vera se si ispira alla realtà, se l’attore ne è personalmente e fisicamente coinvolto? E nel caso, chi stabilisce qual è la verità da portare in scena, quale il punto di vista corretto, la rappresentazione più adeguata o – nel caso di rivendicazioni identitarie – quella eticamente più corretta?

Francesco Fiorentino, proprio in riferimento alla querelle per Kanata, si chiede se

 

quando qualcuno racconta la nostra storia stia compiendo in ogni caso un’espropriazione; e anche se ogni limitazione a parlare della storia di altri costituisca sempre una censura, come dice Lepage. Il teatro non può e forse neanche dovrebbe rappresentare tutto. Ci sono certe cose che forse non dovrebbero essere rappresentate senza il pudore, il riserbo, la titubanza che nasce dal riconoscimento profondo dell’alterità dell’altro che si porta sulla scena. Non possiamo mai rappresentare la storia degli altri nel modo giusto. Ma questo non significa che gli altri, i subalterni, i senza voce, una volta conquistata la scena, sarebbero in grado di dire la verità su di sé e sulla propria storia.[35] 

3. La storia

Vancouver, capitale della British Columbia. Leyla (Shaghayegh Beheshti) curatrice del National Art Gallery ad Ottawa riceve la visita di Jacques (Vincent Mangado), direttore museale francese che cerca alcuni quadri che rappresentano gli autoctoni per una importante mostra; tra questi un prezioso ritratto chiamato la Gioconda Améridien, la Gioconda degli Indiani d’America. Leyla si innamora di lui e gli rivela di non essere sposata ma di avere una figlia adottiva indiana, Tanya (Frédérique Voruz), discendente dei Mohawk. Come molti bambini indiani dopo le tragiche vicende di espropriazione di terre, Tanya era stata portata via dalla madre naturale (Nirupama Nityanandan) per essere educata e adottata. La storia si sposta da Ottawa alla caotica Vancouver,[36] dove incontriamo Tanya che si prostituisce a Downtown Eastside in mezzo ad altri derelitti, ubriachi e tossicodipendenti; qua vive una comunità di autoctoni, aiutati da volontari che offrono loro gratuitamente, per conto dello Stato, assistenza medica e droga.[37] È proprio qua che una coppia francese di artisti, Miranda (Dominique Jambert), pittrice, e Ferdinand (Sébastien Brottet-Michel), attore di cinema di scarso talento, si trasferiscono. Affittano un loft da una agente immobiliare cinese (Man Waï Fok) in Hastings Street, dove farmacie su ruote e assistenti sociali danno supporto a drogati e disagiati. Esattamente in quel luogo un tempo c’era un’area boschiva abitata proprio dalla popolazione indigena nativa, prima della colonizzazione.

 Giubbe rosse. Ph. Michèle Laurent, dal sito ufficiale del Théâtre du Soleil

Come un film che scorre all’indietro vediamo quell’area come doveva presentarsi molti decenni prima, quando gli autoctoni vivevano in luoghi incontaminati, prima che i coloni canadesi distruggessero la foresta, mettendo gli indiani nelle riserve, portando via i loro bambini per affidarli alla chiesa cristiana. Dai missionari alle Giubbe rosse, dalla frenetica costruzione di grattacieli alle riserve, il ‘film teatrale’ mostra come in un flash un diritto di vita negato, e un’illegittima sottrazione di terre a una popolazione indigena che non si è mai integrata con la comunità canadese. Di questo sterminio dimenticato, degli abusi ammessi anche dalla Commissione per la verità e la riconciliazione, in scena c’è traccia in pochi ma significativi momenti, in cui vediamo la città ‘ingoiare’ gli abitanti originari, violandone i diritti e portando via alla madre i figli legittimi. Troviamo anche una toccante testimonianza dalla voce dell’attrice Nirupama Nityandan.

Lo spettacolo fa riferimento anche a un episodio di cronaca nera realmente accaduto: un fattore di 57 anni, Robert Pickton (‘Willie’), nel 2002 fu incarcerato con l’accusa di aver violentato, fatto a pezzi e dato in pasto ai maiali quarantanove donne indiane, prostitute e tossicodipendenti.

 

4. Lo spettacolo

Come spesso avviene negli spettacoli di Lepage tutto ruota intorno a un oggetto-risorsa, in questo caso duplice: il cavalletto con il quadro e la canoa dei primi abitanti. Questi elementi indicano il passato: da un lato mostrano la rappresentazione istituzionale dei nativi indiani, dall’altro un momento di intensa armonia dell’uomo con la natura.

Il Museo ha consegnato alla memoria un popolo che però esiste ancora, pur vivendo nelle riserve o in strada, privato di dignità e ai margini dell’opulenta società canadese. La scena si sposta continuamente dagli esterni agli interni, adattando all’ambiente i pochi oggetti della scenografia dotati di ruote; un loft diventa un attimo dopo la strada dove si trovano i disperati che vengono aiutati da volontari e addetti ai servizi sociali, oppure gli uffici di polizia. L’ambientazione delle antiche terre ha il suo fulcro nell’immagine della canoa che fluttua in aria, tra la nebbia e gli animali della foresta. All’armonioso quadro della natura si contrappone la caotica metropoli, dove l’identità si disperde per confondersi con tradizioni e lingue di tutto il mondo. Un video animato e intermittente usato come fondale dà la dimensione della metropoli multietnica di Vancouver. La donna che dipinge ritratti di autoctoni, Miranda, incontra in strada, in mezzo ad altre prostitute, la giovane Tanya che si rivelerà essere la figlia di Leyla, e la fotografa; la ospiterà a casa cercando di entrare in amicizia con lei.

 Robert Lepage con gli attori. Ph. Michèle Laurent, dal sito ufficiale del Théâtre du Soleil

Tanya però si allontana e non verrà mai più ritrovata, andando a sommarsi alle numerose donne indigene scomparse. Qua la vicenda assume i tratti del noir, ricordando la storia del serial killer che violentava e faceva a pezzi le donne indiane. Incarcerato fu lui stesso a confessare gli omicidi a un compagno di cella, che in realtà era un poliziotto sotto copertura.

Leyla e Miranda si incontrano: d’ora in avanti si impegneranno ad aiutare la comunità indiana. Il loft diventa un luogo di asilo per disperati, e ‘magicamente’ ciò che era una pittura si anima e si tramuta in parola e dialogo. La casa accoglie un’intera comunità, perde i connotati del quotidiano per diventare luogo del sovrannaturale. Con l’arte Miranda si trasforma in uno sciamano, esce dal proprio corpo, diventa leggerissima, viene posseduta dagli spiriti della natura; mentre dipinge gli appare come in una visione proprio Tanya, insieme a tutte le persone scomparse: vita e morte si ricongiungono, passato e presente si toccano perché il tempo si sospende, e questo è il potere evocativo dell’arte di dare corpo al mito e al sogno. Miranda, che incarna l’innocenza come l’omonimo personaggio della Tempesta shakespeariana, dopo la morte di Tanya decide di ritrarre le donne scomparse, ma la sua esposizione viene ostacolata e infine cancellata, perché non ha il permesso dei familiari. Per cercare di fare esperienze dirette e concrete di questa realtà e rendere il suo lavoro più vero e credibile (un riferimento proprio al lavoro di Lepage e alla controversia nata sul tema della legittimazione a parlare delle storie di altri), Miranda decide allora di andare a Hastings street per confondersi tra i drogati. Qua incontra un indigeno documentarista di nome Tobie (Martial Jacques) che la invita a partecipare a una cerimonia tradizionale (l’offerta della pipa)[38] sulla sua canoa.

 Canoa rovesciata. Ph. Michèle Laurent, dal sito ufficiale del Théâtre du Soleil

Sospesa nell’aria la canoa fluttua in cielo, mettendoci di fronte a un’immagine dal sapore surrealista: la donna si muove lentamente in equilibrio a testa in giù, mostrando ancora una volta la capacità di Lepage di dare alle storie una grandiosa forza poetica grazie a potenti quadri scenici uniti a coreografie acrobatiche, come in Les aiguilles et l’opium. I due sono ora in un tempo magico, volano in un altro mondo dove gli spiriti degli animali sacri o le anime degli antenati faranno loro da guida. La volontà comune di ricerca della verità unisce la donna e l’uomo, pur appartenendo a etnie diverse. Così il teatro offre una storia emblematica di una comunità le cui vicende continuano a essere tormentate dalle richieste di sfruttamento dei loro territori, a cui ancora, fieramente, si oppongono con ogni mezzo. Ma il teatro mostra anche una via di uscita dalle discriminazioni, dall’odio e dalla violenza: una metamorfosi necessaria come suggerimento anche per l’oggi, che è un ritorno a un ricongiungimento tra l’umano, il mondo sensibile e la Storia rappresentata dalla memoria. Il viaggio in canoa diventa la metafora di un percorso di conoscenza e di cambiamento.

È un attimo quello in cui un altro uomo di magia, il regista Robert Lepage, muta lo spazio profano in uno spazio eccezionale; ed è quell’attimo che trasforma il teatro in omphalòs, tempio, cerchio magico: è il rito teatrale che cementa la comunità riaffermando la ‘presenza’. Il Lorem Ipsum si è trasformato in una maschera vivente.

 

5. Appendice. Rispondere al sacrificio con un sacrificio. Una testimonianza di Kanata di Elisa Lombardi[39]

È difficile vivere il lutto di una storia d’amore, soprattutto se è stata avventurosa, intensa, e se ci abbiamo creduto davvero perché abbiamo vissuto uno ‘stato di grazia’ tale che non possiamo assolutamente dimenticarcene. È difficile viverne il lutto perché ne portiamo ancora i segni addosso, cicatrici sulla pelle che raccontano questa alchimia unica che si è interrotta all’improvviso, e che non ritroveremo sicuramente con un altro amante. È necessario però anche andare avanti. Darsi alla vita. Peter Brook ci insegna che tutto è in movimento, «bisogna tenersi forte e lasciarsi andare con dolcezza».

Ecco, questo è quello che è accaduto a tutti quelli che hanno preso parte alla creazione di Kanata; proprio a tutti, anche a chi, come me, ha partecipato solo a tre fasi delle cinque totali che hanno visto la creazione di questo spettacolo durante tre anni di lavoro, a fasi alterne. È difficile da spettatore oggi guardare Kanata con occhi nuovi, vergini dal ricordo di tanta bellezza e magia che è emersa durante la fase di creazione di questo spettacolo. A giugno 2018 Kanata era uno spettacolo di ben cinque ore diviso in tre atti. Oggi, alla prima a Parigi del 15 dicembre il mio cuore è diviso tra passato e presente, non posso non sentire del dolore e vivere un lutto per tutto quello che non c’è più, non sentire dispiacere per alcuni attori che non sono oggi sul palcoscenico del Théâtre du Soleil alla Cartucherie, come Serge Nicolai protagonista del primo atto nelle vesti di Edmund Kean, o dai personaggi che erano stati creati nel secondo atto; ma nello stesso tempo provo una gioia ed emozione immensa per quello che vedo.

Eppure, questi personaggi sono ancora tutti lì, posso sentirne l’eco, sono qui anche oggi, dentro questi attori straordinari che li hanno creati e che hanno avuto il coraggio di sacrificare il loro lavoro per servire qualcosa di più grande ed elevato, che noi siamo solito chiamare “Arte”. Sono profondamente toccata e commossa nel vedere oggi questo spettacolo nuovo, vivo, che non si è lasciato morire: come una pianta che, pur recisa brutalmente, continua ancora a germogliare perché le sue radici sono profonde e ben radicate nel terreno.

Mi commuove ad oggi non solo lo spettacolo in sé stesso, ma soprattutto il sacrificio che ha fatto Robert Lepage accettando di portare a termine questo lavoro senza percepire alcun compenso; e il sacrificio che hanno fatto tutti gli attori del Théâtre du Soleil di non rimanere attaccati al proprio ego di attore, al proprio lavoro personale, ma di essere cosi coraggiosi da mettersi in ombra per fare splendere l’opera teatrale Kanata. Mi fa tremare le vene dei polsi il coraggio di Ariane Mnouchkine che dice: «No, noi andiamo avanti contro tutto e tutti perché non stiamo facendo niente di sbagliato, siamo artisti». Questa per me è una grande lezione di vita e di umanità artistica, che solo una equipe teatrale come quella del Théâtre du Soleil poteva regalarci ai giorni nostri, capitanata dal genio assoluto di Robert Lepage. Rispondere al sacrificio, al genocidio degli Indiani d’America con un altro sacrificio. Un sacrificio per un sacrificio.

A chi ha accusato Robert Lepage e Ariane Mnouchkine di appropriazione indebita di identità culturale della storia del popolo degli Indiani d’America, e del genocidio che hanno subito, è stato risposto con un sacrificio, il sacrificio di se stessi di fronte all’arte. La domanda che si eleva forte e chiara durante lo spettacolo, la domanda che ci porta e che sostiene con tutta la sua forza artistica e umana la straordinaria attrice Dominique Jamber è: «Che cosa può fare l’artista? Cosa possiamo fare noi artisti oggi?». E’ una domanda che ci tocca tutti da vicino. La risposta è nel lavoro stesso, l’artista rinuncia a sé per servire una legge più alta e più grande che è la forza di creazione, l’arte.

Il primo atto trattava della vita di Edmund Kean, attore di origine britannica nato a Londra nel marzo del 1787, considerato il migliore attore della sua epoca che ebbe successo non sono in Inghilterra ma anche nell’America del Nord. Questo attore fu accolto in Québec da una tribù di Indiani d’America, gli Uroni, che apprezzarono a tal punto la sua bravura da farlo capo tribù con il nome di ‘Alanienouidet’. Kean fece poi ritorno in Inghilterra ma rimase sempre vicino agli Indiani di America. Nel primo atto questa storia, realmente accaduta, veniva narrata dall’attore Serge Nicolai. Un dipinto che lo ritrae storicamente nel suo letto vestito da Indiano faceva da ponte con la storia contemporanea che si svolgeva a Québec, nel museo d’arte dove appunto il curatore di un museo francese si reca per richiedere dei quadri e fare una mostra in Francia con queste splendide opere (con cui si apre lo spettacolo inaugurato il 15 dicembre 2018).

Il secondo Atto trattava invece, dello sterminio degli indiani d’America e in particolare della storia dei bambini indiani strappati alle loro famiglie e portati nelle Scuole cristiane, dove molti di loro furono abusati o maltrattati. In questo atto gli attori Jean Sebastian Merle, Sayed Ahmad, Maurice Durozier e Andrea Marchand tra gli altri, ci regalavano emozioni straordinarie. Questa parte era davvero toccante, creata nell’assoluto rispetto della Storia e di questa popolazione, e prevedeva anche delle testimonianze video. Il primo atto si chiudeva con un gioco di ombre straordinario, il secondo con un momento di ‘Teatro in Video’, tramite un gioco di telecamere che Lepage aveva inventato insieme a Steve Blanchet con giochi visuali in 3D a cui si è dovuto rinunciare. L’ultimo atto, invece, si svolgeva a Vancouver nella nostra epoca: anche qui veniva narrato un fatto realmente accaduto, la storia dell’allevatore chiamato ‘Willie’ che fu riconosciuto colpevole di quarantanove omicidi di prostitute native.

 


1 Al Festival di Parigi del progetto iniziale di cinque ore diviso viene mostrato solo l’episodio che corrisponde all’originario terzo atto in forma non definitiva, come dichiarato nel foglio distribuito al pubblico dalla compagnia.

2 Su Robert Lepage cfr. A. M. Monteverdi, Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage, Milano, Meltemi, 2018, e l’omonimo documentario produzione AMM 2019 (regia A. M. Monteverdi, riprese video G. Baresi, A. Bronzini, montaggio, animazioni e grafica 3D di L. Strangis).

3 Sulla storia del Soleil cfr. B. Picon-Vallin, Le Théâtre du Soleil. Les cinquante premières années, Arles, Actes Sud, 2014.

4 «Le relazioni tra il governo centrale e le comunità indigene si basano sull’Indian Act, una legge che dal 1876 definisce chi sono gli ‘indiani’, i loro diritti e doveri e la modalità di vita nelle riserve, ma che in effetti è servita in realtà a tenere sotto controllo le comunità indigene ed a restringere progressivamente le loro libertà. Oltre all’Indian Act i singoli territori abitati dagli aborigeni hanno stipulato nel corso degli anni dei trattati con lo Stato canadese», D. Musella, ‘I Nativi del Canada ora alzano la voce: Mai più passivi!’, First line press, 13 febbraio 2013, [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

5 Le scuole residenziali sono rimaste aperte fino agli anni Sessanta quando vennero sostituite dal sistema delle adozioni: migliaia di bambini aborigeni tra gli anni Sessanta e Ottanta furono separati dalle loro famiglie per essere dati in adozione a famiglie bianche. Questa pratica è conosciuta con il nome di Sixties Scoop e proseguì fino al 1984; coinvolse circa 16 mila bambini aborigeni solo in Ontario.  Il 14 febbraio 2017 un giudice canadese ha stabilito che il governo del Canada è responsabile per i danni psicologici e morali causati a migliaia di bambini per le pratiche dei Sixties Scoop.

6 Cfr. R. Melillo, Tutuch (Uccello tuono), Atripalda (Av), Mephite, 2004.

7 Nella riserva di Attawapiskat nella regione Nord di Ontario dove vivono circa 2.000 aborigeni appartenenti ai Nehilaw discendenti dai Cherokee, nel 2016 furono registrati innumerevoli tentativi di suicidio. Cfr. R. Brown, ‘La comunità indigena del Canada dove in 100 hanno tentato il suicidio in nove mesi’, Vice, 15 giugno 2016, <https://www.vice.com/it/article/neym3z/comunita-indigeni-canada-suicidi> [ultimo accesso 19 gennaio 2019].

8 Quella degli indiani è diventata la comunità con il più alto tasso di suicidi dovuti a emarginazione sociale e mancanza di lavoro. A questo si sommano eventi davvero tragici, come un numero elevato di sparizioni e uccisioni di donne native, con più della metà di questi omicidi tuttora irrisolti. Secondo le fonti ufficiali del Governo canadese il numero complessivo delle vittime ammonterebbe a 4000 dal 1980. Molti giornali si sono occupati dei casi delle donne scomparse. A questo proposito si veda D. Minuti, ‘La strage silenziosa delle donne autoctone in Canada’, Globalist, 5 ottobre 2017, [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

9 S. Cameron, On the Farm. Robert William Pickton and the Tragic Story of Vancouver's Missing Women, A.A. Knopf, Canada, 2011.

10 P. Bellegarde, ‘Encore une fois, l’aventure se passera sans nous, les Autochtones?’, Le Devoir, 14 July 2018, [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

11 Ibidem.

12 J. Deer, ‘Long meeting but little hope as Indigenous activists raise representation issues with Robert Lepage’, Cbc, 20 luglio 2018, [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

13 E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

14 Ivi, pp. 18-19.

15 Ibidem.

16 P. Saint-Arnaud, ‘L’invitation de Robert Lepage est bien accueillie par les opposants’. Le Devoir, 16 luglio 2018, [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

17 R. Salutin, ‘Cultural appropriation, where timing may be everything’, The Star, 16 August 2018, <https://www.thestar.com/opinion/star-columnists/2018/08/16/cultural-appropriation-where-timing-may-be-everything.html> [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

18 Robert Lepage’s Position, Dalla pagina social di Ex Machina, 6 luglio 2018, ripubblicata su My Scena

19 Dichiarazione di Ariane Mnouchkine pubblicata il 5 settembre 2018 nel sito del Théâtre du Soleil; ripubblicata su Le Monde il 6 settembre 2018: [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

20« Une fois le spectacle visible et jugeable, libre alors à ses détracteurs de le critiquer âprement et d'appeler à la sanction suprême, c'est-à-dire à la désertification de la salle. Tous les artistes savent qu'ils sont faillibles et que leurs insuffisances artistiques seront toujours sévèrement notées. Ils l'acceptent depuis des millénaires.
Mais après un déluge de procès d'intention tous plus insultants les uns que les autres, ils ne peuvent ni ne doivent accepter de se plier au verdict d'un jury multitudineux et autoproclamé qui, refusant obstinément d'examiner la seule et unique pièce à conviction qui compte c'est-à-dire l'oeuvre elle-même, la déclare nocive, culturellement blasphématoire, dépossédante, captieuse, vandalisante, vorace, politiquement pathologique, avant même qu’elle soit née. Cela dit, et sans renoncer à la liberté de création, principe inaliénable, le Théâtre du Soleil s'emploiera sans relâche à tenter de tisser les liens indispensables de la confiance et de l'estime réciproques avec les représentants des artistes autochtones, d’où qu'ils soient, déjà rencontrés ou pas encore.
Artistes à qui nous adressons ici notre plus respectueux et espérant, salut». Altre dichiarazioni e interviste ad Ariane Mnouchkine sul ‘caso Kanata’ sono visibili nel sito web del Soleil: ˂https://www.theatre-du-soleil.fr/fr/notre-theatre/les-spectacles/kanata-episode-i-la-controverse-2018-2164˃.

21 Ibidem.

22 Ci riferiamo in generale alla ricerca di alcuni gruppi e alla loro predilezione verso i teatri orientali negli anni Sessanta e Settanta: da Jerzy Grotowsky all’Odin Teatret di Eugenio Barba, a Peter Brook e Richard Schechner. Per approfondimenti rimandiamo a N. Savarese, I teatri euroasiani, Bari, Laterza, 2002; e a G. Heeg, ‘Cos’è il teatro transculturale’, Sciami, ottobre 2018, <https://webzine.sciami.com/cose-il-teatro-transculturale/> [ultimo accesso 5 aprile 2019].

23 R. Bharucha, ‘Peter Brook’s “Mahabharata”: A View from India’, Economic and Political Weekly, Vol. 23, No. 32, 6 August 1988, pp. 1642-1647, cit. da F. Fiorentino, ‘Conflitti di proprietà’, Sciami, ottobre 2018, <https://webzine.sciami.com/conflitti-di-proprieta/> [ultimo accesso 5 aprile 2019].

24 F. Fiorentino, ‘Conflitti di proprietà’, Sciami, ottobre 2018, <https://webzine.sciami.com/conflitti-di-proprieta/> [ultimo accesso 5 aprile 2019].

25 L. Pirandello, ‘Personaggi’, Novelle per un anno (1906), Firenze, Giunti, 1994, p. 661.

26 Cit. in J. Deer, ‘Long meeting but little hope as Indigenous activists raise representation issues with Robert Lepage’, Cbc, 20 July 2018, <https://www.cbc.ca/news/indigenous/kanata-meeting-lepage-1.4754698> [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

27 Dichiarazione di Robert Lepage riportata dal sito della CBC: SLĀV director Robert Lepage calls show’s cancellation a ‘blow to artistic freedom’, 7 July 2018, [ultimo accesso 20 gennaio 2019].

28 Ibidem.

29 Cfr. G. Boccia-Artieri, I media-mondo. Forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea, Milano, Booklet, 2004.

30 Un proxy è un agente o un sostituto autorizzato ad agire per conto di un’altra persona, una sorta di avatar digitale che ci permette di essere contemporaneamente presenti in ogni luogo della rete con foto, tweet, like.

31 H. Steyerl, Duty free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, Varese, Johan&Levi, 2018, p. 32.

32 In ambito informatico i bot (abbreviazione di robot) sono software che, accedendo alla Rete sfruttando gli stessi canali utilizzati da utenti in carne e ossa, sono in grado di svolgere i compiti più vari in maniera completamente autonoma.

33 F. Mastropasqua, ‘Maschera e tempo’, Critica d’arte, nn. 25-26, 2005, pp. 52-64.

34 F. Falossi, F. Mastropasqua, L’incanto della maschera. Origini e forme di una maschera vuota, Torino, Primp, 2014, p. 17.

35 F. Fiorentino, ‘Conflitti di proprietà’, <https://webzine.sciami.com/conflitti-di-proprieta/> [ultimo accesso 5 aprile 2019].

36 Vancouver ha una storia relativamente recente, ingigantita urbanisticamente da grattacieli e industrie; L’ondata migratoria dall’Estremo Oriente ha portato moltissimi asiatici (uno su tre è cinese), ed è diventata famosa anche per l’industria televisiva e cinematografica (da cui il soprannome datole dagli americani Hollywood North: Vancouver è location per moltissimi film e serie televisive tra cui CSI e la saga Twilight).

37 Questo accade davvero a Vancouver dove la Providence Crosstown Clinic, unica in tutto il Nordamerica, offre eroina e idromorfone in ambiente controllato.

38 Vedi la descrizione della cerimonia in J. G. Neihardt (a cura di), Alce Nero parla. Vita di uno stregone dei Sioux Oglala, Milano, Adelphi, 1968.

39 Elisa Lombardi, dottore di ricerca in Storia del Teatro e collaboratrice tecnica di Ex Machina, ha partecipato in qualità di ‘osservatrice’ a numerose fasi di creazione dello spettacolo Kanata. Questa testimonianza è stata scritta appositamente per il presente saggio.