All’interno della cerchia dei registi demartiniani, Luigi Di Gianni si distingue per uno sguardo sulle pratiche magico-rituali derivante da una dimensione filosofica, squisitamente esistenziale, ancor prima che estetica e documentaria. La compresenza di realtà e finzione nelle sue opere non è solo scelta stilistica e simbolica, ma diventa strumento imprescindibile per un’indagine del reale. È su questo terreno ibrido, “onirico” – per citare il suggestivo contributo di Gaudiosi (2023, pp. 39-46) – che il suo cinema percorre sentieri inesplorati, si costituisce come forza rivelatrice del rapporto tra uomo e mondo.
In questa direzione, si è scelto di analizzare alcune sequenze di Magia Lucana (1958) e Il male di San Donato (1965), entrambi incentrati su riti arcaici, episodi di possessione e fascinazione, e segnanti due fasi differenti della sua produzione. Partendo dalla potenza evocativa dei fotogrammi in bianco e nero, si cercherà di mostrare come – nonostante le importanti differenze – i documentari di Di Gianni siano entrati in dialogo con le teorie De Martino e ne abbiano superato l’impostazione storico-sociale, anticipando una concezione metafisica, esistenziale, della ritualità, che emerge negli ultimi scritti dell’etnologo napoletano.
1. Magia lucana
Nuvola,
nuvola scura,
ca se venut’à ffa?
Va’ via, vattinne luntano, vattinne a lu bosco.
Ristuccia, ristuccia
Vattinne da chilla parte scura, dove non canta lu gallo