Corpi che tessono un dialogo vivace con il paesaggio che li circonda: paesaggio fisico, culturale, naturale, antropico o in fieri. È questa l’immagine più ricorrente del cinema di Ugo Saitta, autore che ha raccontato la Sicilia del pieno Novecento, dalla ricostruzione del Secondo dopoguerra fino agli opulenti anni Ottanta, senza mai trascurare la radice costitutiva dell’isola, fatta di tradizioni e costumi millenari. La sua opera conferma quanto il policentrismo delle strutture produttive del cinema italiano (Brunetta 2003, p. 14), attestatosi nel periodo del muto, continui la propria parabola nei decenni successivi, tendendo al contempo verso una koinè nazionale.
Saitta ha avuto con il cinema una relazione simile a quella che lega un artigiano al suo mestiere. Un rapporto fatto di aggiustamenti, di scelte pratiche nella produzione di film per lo più realizzati in un contesto circoscritto e con mezzi limitati, per scopi anche lontani dalla semplice espressione autoriale. Eppure, allo stesso modo di Vittorio De Seta e Giuseppe Alliata, egli è riuscito a restituire il sostrato mitico della sua terra, individuando, grazie alla concretezza del suo approccio al lavoro e alla realtà, una linea di narrazione unica e personale. Senza fermarsi alla bellezza della Trinacria, il regista catanese ha raccontato in che modo l’uomo sia riuscito a rendere contemporaneo l’orizzonte leggendario della più grande isola del Mediterraneo. Ma per farlo ha dovuto costruirsi un vocabolario personale, un frasario chiaro a cui riferirsi, un ‘canovaccio di norme’ che è diventato la sua cifra distintiva.
Il cinema di Saitta è percorso da retoriche ricorrenti, punti di vista e forme che ritornano, ogni volta con un accento differente. Quasi un rituale della narrazione, nel senso canonico del termine «rito», che è, nella sua definizione classica, una procedura di azioni da rispettare, solitamente in cerimonie religiose o istituzionali (Treccani, voce Rito). Il modello registico/narrativo che l’autore individua – in maniera più o meno consapevole – si stende all’orizzonte delle sue scelte, diventando la struttura perfetta per restituire la sostanza di quella ritualità sempre presente nella vita quotidiana siciliana. Lo schematismo delle forme si allaccia a quello della ricorrenza degli usi e costumi locali. Un film dopo l’altro, il regista catanese traccia un paesaggio di figure periodiche, una sorta di alfabeto di fatti e situazioni da cui attinge per raccontare ogni volta una storia diversa. Costruisce, cioè, una traccia di riferimento. Gli abitanti di Catania e dintorni, gli operai che lavorano alle cave dell’Etna o alla costruzione delle città, gli agricoltori che curano i prodotti della terra o guidano il tipico carretto siciliano, sono rappresentati utilizzando costruzioni replicate.
In questo modello, i protagonisti sono prima di tutto la gestualità e i movimenti del corpo, come accade nei film dedicati all’Etna (Di Girolamo e Rimini 2023) – L’Etna è bianco (1947), Sciara (1953), Itinerario Etna (1960) ed Etna quota 3000 (1976) ̶ , in cui il rapporto tra l’uomo e il vulcano è spesso segnato da un movimento di ascensione [fig. 1]: modalità di conquista della vetta, al fine di dominare la forza del monte o a scopo escursionistico. Tale prospettiva in parte soddisfa la tensione alla ricerca di un’armonia intrinseca nella terra siciliana, come se ci fosse «bellezza anche nel sudore dei minatori» (De Filippo 2012, p. 27).
L’aspirazione a una struttura equilibrata suggerisce a Saitta di dipingere la Sicilia secondo un susseguirsi di configurazioni, costanti nel disegno generale ma varie nelle combinazioni. Con queste tessere, alla base segnate da una regola ‘schematica’, il regista crea il mosaico delle nove puntate dei cinegiornali di Volto di Sicilia (1951-1969), ambizioso frutto dell’esperienza acquisita dall’autore durante il suo periodo alla settimana Incom. L’approccio pragmatico che contraddistingue la vita professionale di Saitta è in ogni caso radicato nel sostrato mitico della sua terra, ma il volo a tratti satirico del suo sguardo gli consente di stemperare il racconto delle complesse realtà di quel particolare momento storico-politico, come la crescita industriale e turistica.
Un incipit imbevuto di distacco ironico apre l’episodio Volto di Sicilia n. 1. Nei primi minuti del cinegiornale le parole di commento ricordano l’inizio dell’Orlando furioso: «I fatti, gli uomini, le tragedie, i problemi, le conquiste. Noi vi raccontiamo e spieghiamo quello che veramente accade in Sicilia, chi lavora, chi ha fame, chi costruisce, chi spara e chi fa all’amore». La radice potenzialmente tragica è sempre controbilanciata dalla leggerezza, la povertà dal progresso, la violenza dalla celebrazione della vita. Nell’esplosione di aspetti contrastanti il cinema di Saitta è potentemente meridiano, si «conforma come un laboratorio nel quale la precisione antropologica è determinante» (Giordano 2021, p. 33) e si attesta quale dimensione in cui troviamo il «sacro selvaggio» e il «folklorismo» sposati a un’ambientazione «modernamente urbana e metropolitana» (Ibidem).
Saitta descrive le abitudini, le stereotipie comportamentali, antiche e moderne, della Sicilia, e lo fa con un linguaggio che trova nella ricorrenza delle figure, pensata come ‘una procedura’ rituale, lo strumento per organizzare una realtà potenzialmente confusa. I temi attraversati nell’intera serie sono i più vari: la storia greco-romana dell’isola, i protagonisti della letteratura e della musica, lo sviluppo delle industrie petrolchimiche, la coltivazione della vite e la produzione del vino, quella delle arance, il pericolo sismico, le possibilità dell’industria del loisir. Sotto lo sguardo di Saitta l’isola è un territorio caleidoscopico, in grado di moltiplicarsi nell’aspetto. Per un regista come lui, con una solida conoscenza del linguaggio cinegiornalistico, la cassetta degli attrezzi si avvale di tagli, punti di vista, ritmi del racconto documentario. È un retroterra professionale significativo, pilastro di una grammatica solida. La ripetizione, fondante, abbraccia il racconto dei luoghi, dei volti e delle tradizioni modellandoli in una ritualità narrativa, a ogni proiezione riattivata e rinvigorita nella prospettiva del ‘mito’ di una terra di bellezza e leggende identitarie.
Il vocabolario saittiano sorge prepotente dalle sequenze descrittive del paesaggio. In parte le scelte del catanese riprendono alcuni tòpoi presenti nei documentari turistici: «la bellezza dei panorami, la ricchezza del patrimonio artistico e archeologico» (Palmieri 2019, p. 70). La costruzione di una sintassi filmica tutta personale propone un bagaglio di immagini sicure in grado di restituire il panorama variegato della ritualità quotidiana, imbevuta di tradizione e aperta alla modernità. I contadini, in particolare, anche con le loro manifestazioni folkloristiche, si muovono nel territorio per mezzo di una gestualità consolidata, in perfetto accordo figurativo con il ritmo del linguaggio filmico saittiano. In Volto di Sicilia n. 8 (1968) [fig. 2], nella successione convenzionale di gesti e movimenti, la raccolta degli agrumi, fatta come la effettuavano le passate generazioni, ristabilisce ordine nel caos indotto dalla modernità urbana. Allo stesso modo, il rito delle vacanze sulle piste sciistiche del vulcano catanese o il tempo sacro della Pasqua di Piana degli albanesi sono raccontati ricordando quanto queste esperienze rispondano a gesti ripetuti da anni.
Gli stessi temi ritornano in Volto di Sicilia n. 5, in cui le prassi tipiche della raccolta di arance [fig. 3] sono completate dai passaggi, anch’essi a loro modo ‘rituali’, della catena di montaggio dell’industria conserviera [fig. 4]. Lo schema ricomincia in Volto di Sicilia n. 3 (1963), aperto dal racconto della commistione tra metodi di lavorazione antichi e moderni nella filiera del vino [fig. 5]. Come per gli altri numeri citati, anche questa puntata della serie esplora altri aspetti della Sicilia del boom economico, la vita degli automobilisti in città e, ancora una volta, le gite fuori porta.
Al di fuori di Volto di Sicilia Saitta percorre le stesse vie. In film come La barca siciliana (1958) l’attenzione al lavoro dell’uomo e alla sua quotidiana lotta per la sopravvivenza, talvolta condotta contro le manifestazioni furiose della natura, prende corpo nella tipica imbarcazione dipinta utilizzata dai pescatori locali. L’intero immaginario insulare sembra concretizzarsi in una ‘gemma’ della tradizione, costruita, come sottolinea la voce di commento, con «tecnica primitiva», ma caratterizzata da «un preciso schema decorativo». Gli ornamenti ripetono le stesse figure da secoli, tornano per richiamare memorie dalle origini remote, fondamenti di identità.
Il cinema di Saitta attraversa, dunque, l’universo siciliano con addosso una incontenibile fame di fissare e registrare tutto. Le ampie inquadrature dei ‘paesaggi del mito’ sono sempre contornate da dettagli che emergono, per esempio, dalla preziosità del folklore barocco (il carretto) o dal fascino dell’efficienza (le macchine per la lavorazione degli agrumi). Eppure, qualche anno più avanti, nel 1976, con Storia su due ruote [fig. 6], la voracità del raccontare si assottiglia, lascia spazio a un’altra urgenza: recuperare la storia dei riti, le ragioni della loro nascita. La necessità di cui Saitta si fa voce deriva dalla preponderanza dello sfruttamento turistico, a causa del quale simboli complessi, ricchi di richiami archetipici, come il carro dipinto, si irrigidiscono in stereotipo, a puro vantaggio del mercato del tempo libero. Se fino a qualche anno prima il confronto tra il passato e il presente si ricomponeva nella felice visione del progresso, ora il discorso del regista catanese è impregnato di dubbio, a tratti di nostalgia. La riduzione agli schemi e alla razionalità della maestria tecnica non è sufficiente ad arginare la realtà che cambia, velocemente.
* Un ringraziamento va alla Filmoteca regionale siciliana (CRICD) per aver concesso l’uso dei fotogrammi a corredo di questo articolo.
Bibliografia
G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano. 1905-2003, Torino, Einaudi, 2003.
A. De Filippo, Ugo Saitta. Cineoperatore, Acireale, Bonanno, 2012.
L. Di Girolamo, S. Rimini, ‘“Secondo la leggenda…”. Mito e paesaggio nel cinema di Ugo Saitta’, in R. De Gaetano, D. Dottorini, N. Tucci (a cura di), Il paesaggio degli autori. Cinema e immaginario meridiano, Cosenza, Pellegrini, pp. 83-91, 2023.
F. Giordano, Il mattone sudato. Paesaggio, Mediterraneo, comunità locali dal cinema ai nuovi media, Reggio Calabria, La città del sole, 2021.
M. Palmieri, Profondo sud, Napoli, Liguori, 2019.
Treccani, ‘Rito’, treccani.it, <https://www.treccani.it/enciclopedia/rito(Universo-del-Corpo)/> [accessed 3 July 2024].