La liturgia della poesia e le prospettive dell’ascesa. Il Purgatorio del Teatro delle Albe

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Il Purgatorio del Teatro delle Albe (co-produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri e Fondazione Matera-Basilicata 2019) è il secondo ‘pannello’ che compone il ‘polittico’ del Cantiere Dante. Il mastodontico progetto, nato nel 2017 con l’Inferno e che si concluderà nel 2021 con l’intero trittico dantesco, è realizzato grazie alla ‘Chiamata Pubblica’ che ha permesso di coinvolgere, accanto ai componenti della compagnia, più di mille cittadini sia tra gli organizzatori che sulla scena. Questo Purgatorio, in particolare, realizzato come una ‘liturgia della poesia’, sembra configurarsi come la cantica del teatro e dell’arte stessa, nel suo essere ‘cantica del ricominciare’, della creazione dopo lo sprofondamento e il buio. Una risalita che, tra Matera e Ravenna, assume prospettive differenti: fisiche e reali nella prima tappa, dello sguardo e della percezione nella seconda. In entrambi i casi, comunque, una risalita per reinventare l’arte, la vita e la loro inscindibilità.

Teatro delle Albe’s Purgatorio (a co-production of Ravenna Festival/Teatro Alighieri and Fondazione Matera-Basilicata 2019) is the second ‘panel’ of the ‘polyptych’ of the Cantiere Dante. The enormous project, born in 2017 with Inferno and that will be concluded in 2021 with the entire Dante’s triptych, is realized thanks to the ‘Chiamata Pubblica’ which involved, in addition to the members of the company, more than a thousand citizens, both in the organization and on stage. In particular, this Purgatorio, realized as a ‘liturgy of poetry’, seems to represent the cantica of theatre and art itself, in its being the ‘cantica of starting over’, of the creation after sinking and dark. An ascent which assumes, between Matera and Ravenna, different perspectives: physical and real in the first case, ascent of gaze and perception in the second one. In both cases, however, an ascent to reinvent art, life and their inseparability.

B. N’Diaye, ‘Angelo del Silenzio’ nella versione ravennate di “Purgatorio” (foto di S. Colciago)

1. La fossa, la creazione alchemica e la liturgia della poesia

Si potrebbe partire dalla Ermanna bambina di Miniature campianesi che deve misurarsi con la propria fatica nella creazione collettiva dei cori della scuola e che preferisce, ogni giorno, scavare «un buco nel giardino per ascoltare le voci dal fondo della terra».[1] Si può partire da lì per osservare come quel buco, in tanti anni, sembra non essersi mai chiuso. Come, anzi, tutti questi decenni di lavoro artistico siano stati quasi lo sfiancante sforzo di tenerla spalancata, quella fossa. Tanto che la Ermanna Montanari del 2019 afferma: «Cerco sempre il buco, chiamiamolo così, la fossa invisibile. Poi arrivano gli umani, i corpi e il loro mistero».[2] Fossa come soglia, insomma, come l’unica via d’accesso a un luogo, il più recondito possibile, nel quale poter scagliare il reale per oscurarlo, per acceccarlo. Non per farlo fuori definitivamente, ma per vedere cosa da esso quel buio sappia generare e tornare poi ad affrontare il mondo attraverso quella generazione per oscuramento, attraverso l’arte, il teatro.

Un percorso dantesco, insomma. Scagliare il mondo, la realtà, al centro della terra, come fu per Lucifero, perché quello schianto possa far sorgere, per smottamenti e frane, il monte, l’ascesa di un salvifico percorso da battere, con tutta l’enorme fatica che questo comporta, per giungere alla creazione. «L’arte, alla sua maniera», chiosa Marco Martinelli nel suo ultimo libro, dedicato proprio a Dante, «nasce dalla terra e indica il cielo»[3] e, per questo motivo, è proprio in Purgatorio che vengono collocati, nella quasi totalità, gli artisti presenti nella Commedia.

Di fatto, non l’Inferno, come banalmente si usa dire, ma il Purgatorio è forse la più ‘teatrale’ fra le tre cantiche, ossia quella che più sembra farsi parallelo e allegoria della creazione scenica e, più in generale, artistica. Non la varietà, la spettacolarità, i quadri scenografici, gli ‘effetti speciali’ della prima cantica, quanto, nella seconda, il baluginare della speranza di una forma che s’intravede solo dopo aver fatto precipitare se stessi e il mondo nell’informe più abissale. Allo stesso tempo, e all’opposto, il principio del cammino verso il misterioso e inaccessibile informe, dopo l’attraversamento sprofondante dei limiti, dei vincoli e dei condizionamenti delle forme.

E proprio Purgatorio del Teatro delle Albe pare rivelare tutto questo, nella forma e nella materia. E lo fa, ancora una volta, grazie al magico equilibrio della ‘coppia alchemica’, come amano definirsi Ermanna Montanari e Marco Martinelli. Quell’equilibrio che da sempre regge la loro produzione artistica e che in questo Cantiere Dante pare ancora più manifesto e visibile che in altri precedenti progetti. Qui, più che altrove, pare di poter scorgere le sostanze in trasmutazione dell’una e dell’altro, nella fusione del processo.

L’arte di Montanari di attingere dall’informe e il dono di Martinelli di giocare con le forme; la dionisiaca visionarietà della prima e l’apollinea capacità narrativa del secondo; il solitario ritiro generante dell’una e l’abilità di gestire le moltitudini dell’altro.

Il tutto fuso insieme alla perfezione, senza soluzione di continuità, a comporre, come essi definiscono questo loro ultimo progetto, la mastodontica ‘cattedrale umana’: un solido, smisurato edificio, dunque, dalla forma insieme canonicamente codificata e liberamente inedita, come ogni cattedrale, composto integralmente di corpi e interamente immerso nella potenza della liturgia. Una cattedrale la cui forma ha due numi tutelari dichiarati: le rappresentazioni sacre del medioevo e il teatro di massa di Majakovskij e Mejerchol’d. Due richiami a esperienze di lavori collettivi che coinvolgevano un copioso numero di persone ma che si traducevano nella necessità, perché opere così complesse potessero restare in piedi, del rigore della forma, della fedeltà alla struttura del rito. Due richiami, dunque, che avvertono su quanto, anche qui, nulla nel risultato finale sarà lasciato al caso e allo ‘spontaneismo’, come si rischia facilmente in questi frangenti. Su quanto, piuttosto, la sfida stia nell’attraversamento comunitario di quel percorso che conduce alla creazione, provando a immergersi nel buco, nella fossa, tutti insieme: gettandovi dentro ciascuno il proprio mondo e il proprio sé da far deflagrare perché il monte che si genererà dall’altra parte sia il medesimo per tutti. Per poterlo poi scalare come unica entità, nel momento rigoroso dell’opera realizzata e in compartecipazione con il pubblico. Un doppio viaggio dantesco, in questo caso: lasciarsi guidare lungo le tenebre del formarsi dell’opera da chi conosce la via ma è capace al contempo di reinventarla attraverso il gruppo[4], per poi poter guidare il pubblico come se questo, a sua volta, fosse un Dante disseminato nel numero dei singoli spettatori. Un farsi liturgia dell’opera e del suo generarsi.

Qui, probabilmente, una delle più evidenti manifestazioni di quell’idea di ‘teatro politttttttico’ teorizzato dal Teatro delle Albe fin dalla sua nascita e da contrapporre con decisione al ‘teatro politico’ che dominava la scena negli anni in cui la compagnia andava formandosi. La necessità di rifiutare il piegarsi della forma teatrale e artistica all’ideologia e all’univocità delle risposte, per fare, piuttosto, della forma stessa un luogo di accoglimento di infinite domande possibili, di pieghe su pieghe da plasmare senza facili o risolutive soluzioni, ma come continua vertigine che destabilizza. Non per complicare l’opera, ma piuttosto per far sì che essa mantenga in sé la complessità del reale scongiurandone ogni semplificazione consolatoria. Come la complessità strutturale dei polittici, appunto, con l’ulteriore gioco linguistico del sommarsi delle ‘t’ che serve a moltiplicare il più possibile i pannelli di questa ideale raffigurazione. Una devozione al rigore della forma, si diceva. Purché questo non significhi sterile congelamento, arida mummificazione, ma piuttosto il disporre le pieghe, il piegarsi e ripiegarsi di pannelli nei quali possa avvenire il miracolo dell’esperienza misteriosa, spiazzante. È in questo senso, allora, che il Cantiere Dante – e in particolare questo Purgatorio – si fa liturgia. Trovando in quest’ultima gli argini ideali entro cui far scorrere le correnti imprevedibili dell’opera, per fare di essa un rito collettivo. Una liturgia della poesia: sia quest’ultima il poema dantesco o le immagini in cui questo è riflesso e deformato.

«Liturgia – come poesia – è splendore gratuito», scriveva Cristina Campo, «spreco delicato, più necessario dell’utile. […] In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia».[5] E, come la liturgia religiosa è allegoria dell’inaccessibile mistero di quella celeste, percepita inevitabilmente in modo diretto nell’interiorità e non tramite la mediazione razionale, la liturgia teatrale della poesia non serve a comprendere quest’ultima, a trovare di essa un chiarimento, un’esposizione, una rappresentazione. È, piuttosto, l’invocazione necessaria a prendere parte in maniera immediata al misterioso rigore della sua architettura e al fondo inattingibile del suo nucleo. Un’invocazione collettiva, proprio come avveniva nel Medioevo nelle rappresentazioni sacre di cui dicevamo, che moltiplica esponenzialmente questa collettività nel rimbalzo tra la massa degli attori e quelli degli spettatori: in ogni caso, tutti allo stesso modo coinvolti, comunità immersa nella condivisione del rito e del suo mistero.

 

Il passaggio, a Ravenna, attraverso il ‘muro di fuoco’ dei lussuriosi (foto di S. Lelli)

 

2. Il verticale e l’orizzontale: prospettive dell’ascesa tra Matera e Ravenna

Forse in nessun altro luogo meglio che a Matera poteva debuttare, come ha fatto lo scorso 17 Maggio, questo secondo pannello del polittico rappresentato dal Cantiere Dante. Dovendo pensare a un possibile equivalente del Purgatorio – per come Dante lo descrive – in forma di città, è proprio Matera a venire subito in mente. Con il suo essere arroccata sul monte e insieme col suo inglobare in parte il monte stesso all’interno della città; con gli innumerevoli piani di ogni grandezza che si sovrappongono e si mescolano confusamente; con i suoi scoscendimenti e l’incessante brulicare di folle che scendono e salgono continuamente come non trovassero pace; con i suoi anfratti e i suoi gradini scavati nella viva pietra; le distese inabitate di valli e rilievi visibili fino all’orizzonte; il suo inerpicarsi fino in cima alla chiesa rupestre di Santa Maria di Idris che, da fuori, si rivela solo per una grande croce in ferro battuto conficcata nella roccia grezza. Ancora, con una delle molte ipotesi sull’etimologia del suo nome, che richiama il fatto che, nella notte, le luci della città sembravano una distesa di stelle:[6] come le prime stelle viste da Dante e da Virgilio all’uscita dalle viscere dell’Inferno.

E, giungendo da tutto questo al complesso dell’ex Convento delle Monacelle – il luogo nella parte alta della città che ha ospitato il progetto –, sembra che la Chiamata Pubblica che ha permesso di coinvolgere i cittadini materani nella realizzazione del Purgatorio non abbia fatto confluire solo gli esseri umani dentro l’opera e dentro il complesso, ma la struttura stessa dell’intera città. Come se il piccolo contenesse il grande e se ne facesse specchio e, ancora una volta, allegoria. Allegoria del modo di stare del corpo a Matera come nel Purgatorio: si continua a salire, infatti, come si è fatto fuori fino a poco prima e come avviene lungo tutta la seconda cantica dantesca. L’intero percorso del rito, della liturgia, è qui strutturato in modo da condurre realmente e fisicamente verso l’alto il pubblico, in cui ciascuno è il Dante che si lascia guidare nell’ascesa.

 

L’‘Antipurgatorio’ a Matera: il passaggio per Via Riscatto (foto di M. Caselli Nirmal)

 

Si comincia a salire già entrando nella prima, vera tappa, dopo l’Antipurgatorio rappresentato dalla Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli e dal passaggio – anche qui con straordinaria coincidenza – per Via Riscatto: l’ingresso del Purgatorio è quello della Chiesa di San Giuseppe, posto in cima a cinque gradini. Da lì in poi il tragitto interno all’opera e al convento sarà un graduale, perenne salire per scale interne, per scale esterne, ballatoi, terrazze. I due cerimonieri, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, due corpi in bianco per Virgilio, guidano gli spettatori, i partecipanti al rito, di quadro in quadro, di cornice in cornice, per questo immaginario monte che si è convertito in gioco della scena. In alcune di queste stazioni si sosta, perché l’attenzione richiesta è maggiore, altre le si ascolta e osserva brevemente, di passaggio, senza fermarsi, come echi destinati a rimanere nell’orecchio e ad accompagnare il cammino fino al momento successivo. Comunque, un progressivo e perpetuo salire del piede e del corpo tutto.

La simbolica ascesa del Purgatorio è insieme speranza e sicurezza della meta cui si aspira, sofferenza dello sforzo e gioia della salvezza, incertezza di ciò che il passo successivo potrà recare ma certezza di ciò che l’ultimo condurrà. È il passo del risollevarsi e del ricominciare, verbo, quest’ultimo, cui le Albe hanno affidato il viatico delle note introduttive del progetto,[7] prese in prestito dalle pagine dedicate al Purgatorio dell’ultimo libro di Martinelli.[8] Verbo che, ancora una volta, è insieme quello del Purgatorio e dell’arte, entrambi esigenti l’invenzione continua di un nuovo linguaggio, come si iniziasse a balbettare ogni volta per la prima volta.

E sarà forse come conseguenza del progressivo consolidarsi della sua componente liturgica nella ripetizione delle repliche, ma la percezione dell’ascesa sembra ancora più intensa nella versione ravennate che in quella materana, sebbene, paradossalmente, la geografia del cammino di interpreti e spettatori in questa seconda versione non preveda, in effetti, alcuna reale salita. Se al Complesso delle Monacelle il corpo dello spettatore, di tappa in tappa, si spostava effettivamente verso l’alto, seguendo fisicamente la struttura ascensionale del Purgatorio dantesco, mentre lo sguardo percorreva quasi sempre la direttrice orizzontale, a Ravenna quest’ordine è esattamente invertito e, proprio come all’interno di una cattedrale, mentre il passo mantiene la propria direzione sul piano orizzontale, lo sguardo scorre costantemente verso l’alto, a potenziare ulteriormente l’allegoria della speranza e dell’invocazione. A potenziare, d’altronde, l’idea che regge l’intera opera dantesca e incarnata dalla croce: l’interconnessione tra retta orizzontale, quella del mondo da abitare, e retta verticale, quella del sacro e della tensione a esso.

Verticalità agevolata, tra le altre cose, dal fatto che a Ravenna, in ulteriore contrapposizione, il cammino è condotto interamente all’aperto. «Sotterra consigliava a Dante di mettere il Purgatorio la teologia più autorevole, sotterra l’Eneide, sotterra le più e le maggiori visioni, ma egli lo volle all’aria aperta»,[9] evidenziava D’Ovidio più di un secolo fa. Nel 2017 l’Inferno, nella fedeltà a Dante coniugata alla necessità di dirompere oltre i confini del teatro, s’era fatto luogo nel chiuso del Teatro Rasi, ma strabordando oltre il palco per comprendere la platea, i corridoi, i bagni, gli uffici, e l’intero edificio. E la stessa fedeltà e la stessa necessità, oggi, hanno generato questo Purgatorio interamente all’aria aperta, appunto, tra la tomba di Dante e i giardini che collegano edifici quasi simbolici per un’opera intessuta di teatro, liturgia, quiete e musicalità: l’Istituto Musicale “G. Verdi”, la Casa residenza anziani “Garibaldi e Zabbini” e quello straordinario ibrido tra chiesa duecentesca e edificio teatrale che è, naturalmente, il Rasi.

Il «Dolce color d’orïental zaffiro», che nel primo canto della cantica è quello dell’alba, qui – come era stato anche a Matera – è il colore del cielo al tramonto, il momento in cui si comincia. A segnare il principio della liturgia ravennate del Purgatorio, l’apertura della porta a due ante del sepolcro del Poeta da parte di Martinelli e Montanari. Ermanna Montanari, con un sorriso che farà da filo rosso dell’intero cammino, pronuncia ed esita quasi con tenerezza sul nome «Dante…», con un appena percettibile cenno del volto e un breve silenzio a seguire che sembrano fermare tutto lì, a quel nome: come una presentazione, un’evidenza delle spoglie di fronte alle quali ci si trova. Ma, dopo la pausa momentanea ma duplicatrice di strade, la voce di Montanari prosegue: «…e la sua guida, Virgilio, sono usciti dalle viscere dell’Inferno». E il viaggio comincia. Proseguendo con i versi che aprono la cantica letti a leggio da Montanari, alla quale fanno eco, proprio come in una messa, le voci di attori confusi agli spettatori, che sollevano al cielo lunghi rami a concretizzare i giunchi cui bisogna rendersi simili per affrontare con umiltà il cammino.

 

Il corteo per le vie della città: l’‘Antipurgatorio’ a Ravenna (foto di S. Lelli)

 

Cammino che da lì prende il via in direzione dell’ingresso del Purgatorio, in un percorso, quello dell’Antipurgatorio delle vie ravennati, costellato di voci e immagini che provengono dall’alto e che, come dicevamo, costringono già a guardare in su: dal coro in cima ai portici di Piazza San Francesco ai balconi di Via Guaccimanni che, come consacrati alla figura della Vergine Maria (tanto centrale nel Purgatorio dantesco da essere posta a esempio di virtù all’ingresso di ogni cornice), accolgono dapprima la sua lamentazione in prima persona per voce di un bambino (lo splendido canto Voi ch’amate lo Criatore del XII sec.) e poi l’Ave Maria di Franz Schubert che una giovane intona su un altro balcone, qualche metro più in là. Pochi passi e, mentre si continua a sollevare lo sguardo per interrogare possibili reazioni dei ravennati nelle loro abitazioni, da un’altra ringhiera in alto, immobile, appare una delle immagini più emozionanti dell’intera opera: un bambino con grembiule nero e fiocco bianco al collo tiene l’indice della mano destra alle labbra: è l’‘Angelo del Silenzio’ che, dopo il frastuono infernale, introduce alla quiete del monte che porta al Paradiso Terrestre.

Spalancati i cancelli del giardino-Purgatorio, soffiano, come un vortice d’aria causato da quell’apertura, le voci e i suoni indecifrabili disegnati da Luigi Ceccarelli e dai suoi musicisti, che avvolgeranno l’intero viaggio e, mischiati a essi, un incessante frinire di cicale e cantare di uccelli realmente nascosti tra i rami degli alberi, in una inevitabile quanto fruttuosa collisione tra l’imprevedibilità del reale e l’architettura dell’opera.

Da qui, il vero e proprio percorso all’interno delle cornici del Purgatorio. Tanto uguale alla versione materana nel suo essere un cammino che trova i propri fulcri nella possibilità del rinnovamento, nell’intrecciarsi del viaggio di Dante con quello di altri artisti e poeti dei secoli successivi che hanno proposto all’uomo e alla società la possibilità di un cambio di passo, nel rimbalzare dell’immagine della classe come luogo nel quale dimenticare tutto ciò che si è per reinventare un linguaggio, una strada, una nuova dimensione dell’umano e della sua relazione con ciò che lo circonda, nell’approdo a un Paradiso Terrestre che altro non è che questo nostro mondo che potrà salvarsi solo se quella nuova strada verrà percorsa prima possibile. Tanto diversa, al contempo, in questa differente prospettiva dell’ascesa che, ribaltando le direttrici dello sguardo e del corpo, trasforma il salire in un’ascesa ancora più profonda e interiore, amplificando il rapporto tra esperienza individuale e intima e ritualità di gruppo.

Pensiamo alla cornice delle donne morte per un atto di violenza guidate da Pia de’ Tolomei che, se a Matera riempivano in orizzontale il perimetro della Chiesa di San Giuseppe, qui svettano in verticale lungo i gradini di una scala antincendio.

 

A sinistra: a Matera, le donne morte di morte violenta | A destra: lo stesso coro nella versione ravennate (foto di M. Caselli Nirmal e di S. Lelli)

 

Così come avviene per la figura dell’invidiosa Sapìa (Laura Redaelli): se a Matera la si incontrava in uno dei corridoi di passaggio a sussurrare il suo avvertimento a non seguire il suo esempio, qui la si trova molto in alto, in piedi, su uno dei tetti degli edifici che circondano il perimetro dell’azione.

 

A sinistra: Sapìa nella versione materana | A destra: la stessa figura a Ravenna (foto di M. Caselli Nirmal e di S. Colciago)

 

E, ancora, la verticalità e l’ascesa dello sguardo ribalta il piano della cornice degli iracondi, forse l’esempio più lampante: a Matera li si osservava correre come forsennati calpestando una enorme cartina dell’Italia, addirittura dall’alto di un ballatoio, che costringeva a guardare verso il basso, quasi come in un girone infernale. A Ravenna, invece, la cartina viene issata a coprire per intero l’altezza di un alto edificio, mentre il coro, come un turbine, un vortice, occupa le rampe di un’altra scala antincendio lungo il cammino.

 

A sinistra: a Matera, visti dall’alto, gli iracondi calpestano la cartina dell’Italia | A destra: lo stesso coro nella versione ravennate e la cartina appesa al contrario (foto di M. Caselli Nirmal e di S. Lelli)

 

Fino alla scena del dialogo tra Adriano V e Ugo Capeto, a Matera giocata a terra, in orizzontale, con i due sdraiati supini uno davanti all’altro come il primo viene effettivamente trovato da Dante, mentre qui, invece, torna la postura verticale e il re è addirittura posto, su una sedia a rotelle, in cima a un alto sostegno che, per l’ennesima volta, porta il pubblico ad alzare la testa e lo sguardo, a contemplare un’altezza.

A sinistra: Adriano V e Ugo Capeto nella versione materana | A destra: le stesse figure nella versione ravennate (foto di M. Caselli Nirmal e di S. Colciago)

 

La liturgia, il salire del corpo, l’ascesa dello sguardo e quella della percezione, tutto nella direzione di un continuo ricominciare, ritrasformarsi e reinventarsi della creazione artistica come della vita. Tanto di quella individuale, quanto di quella collettiva, in un’unione indistricabile come la si trova nell’idea di Chiamata Pubblica che sta dietro al Cantiere Dante. Un’opera, questa delle Albe, che tutte queste spinte, queste forze, non cerca di illustrarle e rappresentarle, raccontandole, semplificandole, ma piuttosto, in modo molto più efficace e potente, le mette semplicemente in atto[10] e in vita, nell’azione rituale. Proprio come, sulla pagina scritta di Nel nome di Dante, Marco Martinelli fa – mutatis mutandis – con la ‘messa in atto’, con la ‘messa in vita’ di Dante attraverso l’intreccio inscindibile con la figura del proprio padre, Vincenzo Martinelli, e con la propria vita.

È così che la liturgia scatena in pieno la potenza e la fascinazione propria e del teatro: nell’immersione diretta che svincola la mediazione della rappresentazione, della predicazione, potremmo dire, proseguendo sul piano dell’allegoria religiosa. Ricorrendo ancora una volta a Cristina Campo – con tanto di riferimento a due cerimonieri, due officianti, che oscillano tra il farsi guide e il disperdersi nelle folle dei cori: «Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro».[11]

 

 


1 E. Montanari, Miniature campianesi, Quartu Sant’Elena (CA), Oblomov edizioni, 2017, p. 43.

2 E. Montanari in G. Sonno, Intervista-dialogo con Ermanna Montanari e Marco Martinelli, http://www.teatrodellealbe.com/archivio/uploads/interviste/interv-000713.pdf [accessed 04 August 2019].

3 M. Martinelli, Nel nome di Dante, Milano, Ponte alle Grazie, 2019, p. 102.

4 A tal proposito, è importante sottolineare quanto, accanto al lavoro di Martinelli e Montanari, sia stato fondamentale quello delle cosiddette ‘guide’ dei vari cori nei quali sono state suddivise le masse di cittadini che, sia a Matera che a Ravenna, hanno partecipato alla messa in scena del Purgatorio, molte delle quali sono membri del Teatro delle Albe, come Roberto Magnani, Laura Redaelli e Alessandro Renda.

5 C. Campo [Bernardo Trevisano, pseud.], ‘Note sopra la liturgia’, Cappella Sistina, luglio-settembre 1966, ora in Ead., Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, p. 127.

6 Allo stesso modo in cui, per una curiosa coincidenza, la ‘selva oscura’ che apre l’Inferno trovava una corrispondenza nel nome Kibera (selva, foresta, appunto), lo slum di Nairobi nel quale lo scorso ottobre il Teatro delle Albe ha portato un progetto sui versi di Dante che ha coinvolto circa 140 ragazzi e bambini del luogo.

7 Cfr. M. Martinelli, E. Montanari, Purgatorio. Chiamata Pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri, Matera, Teatro delle Albe, 2019: «Il Purgatorio è la cantica del ricominciare. Si può ricominciare? Dopo un fallimento, una sconfitta, una delusione? […] Certo che si può. È come ritornare sui banchi di scuola, in prima elementare, e apprendere una lingua nuova».

8 Cfr. M. Martinelli, Nel nome di Dante, cit., p. 100.

9 F. D’Ovidio, Nuovi Studii Danteschi, I: Il Purgatorio e il suo preludio, Milano, Hoepli, 1906, p. 469.

10 Interessante, in merito all’idea di ‘attualità’ di Dante come sua ‘messa in atto’, il testo di Gianni Vacchelli: G. Vacchelli, L’«attualità» dell’esperienza di Dante, Milano, Mimesis, 2014.

11 C. Campo [Bernardo Trevisano, pseud.], ‘Note sopra la liturgia’, p. 124.