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1. L’esordio narrativo

 

Nel 1926, Elio Vittorini aveva diciassette anni quando vide pubblicato il suo primo articolo sulla rivista di impronta fascista La Conquista dello Stato, diretta dallo scrittore Curzio Malaparte. La stagione iniziale degli scritti vittoriniani fu «caratterizzata anzitutto per l’accentuata prosa e mimesi con il pensiero di Malaparte» (Rodondi 2008, p. XXIV), che gli procurò il soprannome di ‘pseudomalaparte’ (Greco 1983). Verso il 1929 lo stile strapaesano si rivelò troppo stretto per Vittorini che entrò a far parte della redazione di Solaria. Nello stesso periodo lo scrittore confessò a Falqui, con il quale stava lavorando all’antologia Scrittori Nuovi, la sua irrevocabile «svolta» verso la narrativa, le sue motivazioni e i suoi «grandi» esempi: «II mio rondismo s’inquina ... Non era inquinato anche il rondismo dei selvaggi? [...]. Ma non parlare di moda. Proust e Stendhal, spero, sono fuori della moda. Essi fanno i miei maestri» (LAS I, p. XIX).

Per la rappresentazione interiore di «personaggi giovani», era soprattutto il nostalgico Proust che per Vittorini riusciva a rendere in modo esemplare i sentimenti dell’animo giovanile nella scrittura in prosa: «Proust è il nostro maestro più genuino […]. Per mezzo di Proust si è stabilito uno scambio effettivo tra l’Europa e noi» (LAS I, pp. 124-125).

La svolta di Vittorini verso la narrativa divenne ufficiale con la pubblicazione della raccolta di racconti Piccola borghesia che uscì nel 1931 e del suo primo romanzo Il garofano Rosso, pubblicato a puntate a partire dal febbraio del 1933 sulla rivista Solaria [fig. 1].

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Quando scrive Conversazione in Sicilia Elio Vittorini ha trent’anni, è autore di un romanzo – Il garofano rosso – che è stato sequestrato dall’autorità fascista e vorrebbe partire per la Spagna accanto ai repubblicani. Di lì a poco, nel 1939, si trasferirà a Milano, città che non abbandonerà più; nel ’41 esce l’edizione Bompiani della Conversazione, quando si pubblica anche l’antologia Americana, con i testi tradotti dallo scrittore ma senza le sue note di commento. Conversazione in Sicilia precede dunque Uomini e no, dedicato ai giorni convulsi della guerra in pagine dettate dalla clandestinità e dall’urgenza di raccontare, e disegna piuttosto un affondo nella memoria, una sorta di nostos nel tempo dei ricordi che ne rilancia i motivi nel presente e di lì a poco nella lotta, e nella scrittura, della Resistenza.

 

1. Mappare la memoria

Il racconto del viaggio di Silvestro, il narratore, verso il paese natale, e dell’incontro con la madre dopo quindici anni di lontananza, assume movenze quasi dantesche nell’alternarsi continuo di sonno e veglia («mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia», Vittorini 1966, p. 11), così da disegnare sulla pagine una sorta di mappa del ricordo lungo una regressione memoriale in una «quarta dimensione» di una «Sicilia ammonticchiata di spiriti» (p. 92) che mescola lo sguardo del presente alle suggestioni deformate delle memorie d’infanzia. Così Vittorini:

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Il romanzo di Vittorini Uomini e no sta sulle coscienze di tanti lettori come un peccato non consumato. Testimonianza di un momento civile, la violenza nazifascista e la Resistenza nella Milano del 1944, ma anche ritratto di intellettuale, atto di fede stilistico prima che politico, il libro di Vittorini parve scritto sopra le righe, generoso e faticoso, una parabola troppo intinta nella letteratura. Insomma lo si ricorda come un brutto libro importante (Manciotti, Viganò 1995, p. 296).

Con questo giudizio il critico cinematografico Stefano Reggiani, nel recensire su La Stampa (17 settembre 1980) il film di Valentino Orsini appena uscito sugli schermi italiani, liquidava sbrigativamente quella che in fondo era stata la prima uscita letteraria, in presa diretta, sulla lotta armata antifascista in una grande città del Nord. Prima di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947; Ultimo viene il corvo, 1949), prima di Pavese (La casa in collina, 1948), prima di Renata Viganò (LAgnese va a morire, 1949) e ben prima di Fenoglio (i racconti I ventitré giorni della città di Alba, 1952; Primavera di bellezza, 1959; postumi: Una questione privata, 1963; Il partigiano Johnny, 1968; La paga del sabato, 1969).

Nel Paese sanguinosamente liberato, la scrittura stessa sembrava volersi ripulire con sdegno dalla vacua retorica del ventennio per riscoprire i contorni e la sostanza del reale e degli uomini, partendo proprio da quelle dolorose esperienze di guerra civile che avevano coinvolto almeno una parte della gioventù italiana.

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Il cinema è un’invenzione senza futuro

Louis Lumière

 

La scrittura di Vittorini, sia quella narrativa che quella saggistica, rivela seppure nella discontinuità dell’ispirazione di ciascuna opera una costante estroversione verso il mondo che lo circonda e che sembra muoversi e trasformarsi a una velocità sempre maggiore, tanto da indurlo a un continuo lavoro di correzione e riscrittura. Il caso più emblematico è forse quello delle Donne di Messina, ma in generale si può dire che il problema del tempo (come sostiene Calvino nel saggio a lui dedicato sul numero 10 del Menabò, un anno dopo la sua morte) muova lo scrittore a «cancellare via via le date dalle proprie opere, accettando che ognuna porti una data d’inizio, prova della sua necessità storico-genetica, e aggiornando continuamente la data della fine, facendo sì che lo scrivere rincorra l’esser letto, cerchi di scavalcarlo» (Calvino 1995, pp. 172-173). Nell’ottica di questa gara contro il tempo si intendono dunque i continui ritorni sul già scritto o le interruzioni, ed è possibile leggere nell’insieme delle opere compiute e della grande quantità di frammenti la profonda coerenza nel modo tutto vittoriniano di vivere la letteratura come progetto, o meglio ancora come «raccolta di materiali per un progetto» (ivi, p. 60), come tensione continua dall’utopia alla sua progettazione.

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Nell’ambito della assidua collaborazione al Bargello, la quale accompagna in modo assai significativo la maturazione culturale e politica del Vittorini degli anni Trenta, un posto più di nicchia – ma certo non privo di interesse ai fini di una complessiva ricostruzione dei rapporti dello scrittore con le arti visive – è occupato dalle recensioni cinematografiche che in periodi diversi (nel 1932 e poi nel 1936-’37) vengono da lui destinate alle pagine della rivista. Il primo gruppo di testi è esplicitamente legato ad un’‘occasione’ specificamente fiorentina, la costituzione di un Cine Club domenicale in città, che invoglia Vittorini a fare un po’ di critica cinematografica sui film d’essai. A ridosso dell’esordio della nuova rubrica, non senza qualche estremizzazione, lo scrittore scrive a Quasimodo di essere ormai passato dalle recensioni di libri a quelle dei film per sfuggire alle pressioni dei troppi gerarchi aspiranti scrittori («non recensisco più libri. Mi sono dato ai films»), anche se in realtà gli interessi letterari continueranno, parallelamente a quelli cinematografici, a caratterizzare la sua attività di collaborazione al Bargello fino alla fine del rapporto con la rivista.

Nell’aprile del 1932, il primo film proiettato al Cine Club ad attirare l’attenzione vittoriniana è Ronny di Reinhold Schünzel [fig. 1], produzione tedesca del 1931 che avrà anche una versione francese con la co-regia dello stesso Schünzel. La pellicola dà occasione al recensore di riflettere sui rapporti tra dimensione teatrale e dimensione cinematografica e sull’auspicabile affrancamento di quest’ultima dalle convenzioni da palcoscenico che inficiano invece il film preso in esame, nel quale anche il parlato si risolve «in senso didascalico, esplicativo; cioè teatrale» (Vittorini 2008, p. 585). Sono piuttosto i film di Clair, pur ‘operettistici’, ad essere presi da Vittorini ad esempio di come un’opera «dovrebbe dare nell’espressione cinematografica qualcosa di molto diverso che non possa dare nella comune espressione di palcoscenico» (ibidem): emerge già la fascinazione vittoriniana per la ricerca del dire ‘diversamente’, del dire ‘di più’, che guiderà molte ‘scommesse’ culturali e artistiche dell’autore anche nel campo dei rapporti tra scrittura e immagini.

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Una lettura del rapporto tra Vittorini e la fotografia non può prescindere dalla congenita ibridazione dei linguaggi rintracciabile sia nelle riflessioni teoriche, sia nell’effettivo utilizzo delle immagini fotografiche proposto dallo scrittore. Luoghi privilegiati di ‘esercizio visivo’ – dopo l’antologia Americana (1941) e prima del ritorno nella terra d’origine per l’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (1953) – i trentanove fascicoli del Politecnico, settimanale e poi mensile di cultura contemporanea, convogliano nell’immediato dopoguerra una serie di istanze di rigenerazione che agiscono tra i fogli della rivista attivando livelli molteplici di lettura e coinvolgendo tanto il paino contenutistico, quanto l’aspetto grafico, le componenti paratestuali e, non ultimo, il cospicuo apparato iconografico.

Uno sguardo alle pagine del Politecnico tradisce in maniera quasi immediata la frequenza, e incidenza, di fotografie organizzate in gruppi; è in essi che risiede spesso la chiave di volta dell’interpretazione relativa all’impiego delle illustrazioni nel periodico. Oltre che nel dialogo con le didascalie e con i testi, infatti, è nell’interazione delle immagini tra di loro che bisogna ricercare il nucleo semantico delle fotografie, tanto più se il piano metodologico incontra gli intenti espressi, appunto, da precise dichiarazioni di poetica di Vittorini:

 

Partendo da questo scritto, di capitale importanza ai fini di un’indagine sulle relazioni tra Vittorini e la fotografia, Giovanni Falaschi ha evidenziato la matrice cinematografica, nonché irrimediabilmente letteraria, della concezione vittoriniana della fotografia (cfr. Falaschi 1987, pp. 34-37); Maria Rizzarelli, curatrice della settima edizione di Conversazione in Sicilia, corredata dalle fotografie di Luigi Crocenzi, si è soffermata sulle «finalità narrative e non puramente didascaliche» delle fotografie nelle esperienze vittoriniane antecedenti al romanzo e ha posto l’accento sulle «potenzialità semantiche e diegetiche» offerte dall’utilizzo dei materiali iconografici da parte dello scrittore (Rizzarelli 2007, pp. V-VI); Giuseppe Lupo, recuperando gli spunti interpretativi rintracciabili nelle recensioni cinematografiche pubblicate da Vittorini sul Bargello negli anni Trenta, ha chiarito la scaturigine del rapporto di analogia che lo scrittore istituisce tra la narrativa e il cinema in quanto dinamica sequenza di fotogrammi, tra il racconto e il movimento generato dalle fotografie disposte in successione (cfr. Lupo 2011, p. 68-73). È un dato acquisito dalla critica, insomma, anche nei contributi più recenti, il nesso tra la concatenazione delle immagini e una componente narrativa che sovrasta l’identità della singola fotografia e che induce a ricercare il senso delle illustrazioni nel loro susseguirsi. Dalle parole dello stesso Vittorini scaturisce una considerazione del medium fotografico che paradossalmente prescinde dallo specifico della fotografia e si lega a doppio filo sia con la sintassi filmica che con il linguaggio verbale, e sovrappone e fonde insieme, oltretutto, le strutture di questi ultimi due codici in ragione di una esorbitante creatività di segno letterario. «Nessuna immagine era mai abbandonata a se stessa», ricorda Giuseppe Trevisani, «ma ognuna era costretta, tagliata, interpretata, scelta, forzata, reinventata sulla pagina: […] la fotografia era diventata per noi, in quegli anni, veramente lessico, cioè comunicazione e linguaggio» (Trevisani 1966, p. 36).

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Abstract: ITA | ENG

Nell'ultimo romanzo, ad oggi, di Gabriele Frasca, Dai cancelli d'acciaio (2004-2011, essendo uscito in due diverse versioni) gli schermi occupano una posizione preminente a livello diegetico, con implicazioni che toccano alcune questioni decisive della contemporaneità, dalla storia dei media (via McLuhan) a complessi nodi di carattere religioso, psicoanalitico, socio-politico (con echi di San Paolo, Lacan, Beckett). Agli schermi è infatti affidato il destino di passione di due dei protagonisti del romanzo: uno, il sacerdote gesuita Saverio Juvarra, per la violenta cerimonia audiovisiva di espiazione cui è sottoposto; l'altro, il videogiocatore compulsivo Valentino Mormile, perché un videogioco online sarà lo strumento per il compimento del suo drammatico destino. Il presente intervento cercherà di mostrare quale complesso ruolo di sollecitazione sessuale, mortificazione ed espiazione, affermazione del potere e negazione della vita giochino gli schermi tanto nel testo di Frasca quanto nelle illustrazioni del duo di artisti napoletani Cyop & Kaf che arricchiscono il volume.

In Gabriele Frasca's most recent novel, “Dai cancelli d'acciaio” (From the Steel Gates; 2004-2011) cameras, screens and several technically advanced gadgets occupy a prominent position, with implications involving some decisive issues of the contemporary Western world, including but not limited to media history (via McLuhan), religion, psychoanalysis, society and politics, terrorism, literature (with echoes of St. Paul, Lacan, Joyce, Beckett). The dramatic destinies of two of the main characters of the novel (the Jesuit priest Saverio Juvarra; the young compulsive video game player Valentino Mormile) are also entrusted to a perverse media network. This essay underlines the complex role of sexual stimulation, mortification and expiation, affirmation of power and denial of life, played by audio-visual apparatuses and entertaining devices in this novel.

 

 

La morte è forse altro

che questo

entrare in uno schermo

Carlo Bordini, I sogni


 

Se sopra è il Cielo […] e sotto è già l'Inferno, dov'è la terra?

Gabriele Frasca, Dai cancelli d'acciaio

 

1. Sono schermi, solo schermi

Difficile censire il numero esatto di schermi presenti in Dai cancelli d’acciaio, terzo romanzo di Gabriele Frasca, apparso a fascicoli nel 2004 e poi riproposto in volume nel 2011: siamo certo ben oltre le settanta unità, il che, considerata anche la presenza di lettori mp3, smartphone e altro, ne fa un buon candidato al titolo di testo narrativo con la maggior incidenza di congegni audiovisivi nella storia della letteratura italiana. In realtà tutta l’opera multimediale di Frasca, dagli esordi fino al videodramma Nei molti mondi (2014), presenta miriadi di schermi sia reali sia metaforici, entro un raffinato gioco linguistico dove il vocabolo oscilla tra il suo significato tradizionalmente letterario (penso all'accezione medievale, cortese, del termine ‘schermo’, nel senso di diaframma) e quello corrente riferito agli apparecchi che consentono differenti esperienze di fruizione, dalla spettatorialità cinematografica a quella televisiva, fino alle pratiche videoludiche. Tuttavia la compresenza di più media, ciascuno dei quali gioca un ruolo decisivo nel romanzo, anche a livello diegetico, qualifica senz’altro Dai cancelli d’acciaio come l’opera dove Frasca ha affrontato in modo più articolato e volutamente ambiguo il tema dello schermo quale dispositivo di visione e occultamento;[1] non solo, ma la centralità della questione è come ribattuta e sottolineata dalle immagini del duo artistico napoletano Cyop&Kaf, che intervallano con ritmo ternario i quindici capitoli del romanzo, non tanto illustrandolo quanto interpretandone figurativamente alcuni aspetti salienti.

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Disobedience, l’ultimo film di Sebastián Lelio, nelle sale italiane da alcuni giorni, racconta la storia di Ronit, fotografa londinese che vive a New York e torna a Hendon, nel sobborgo della capitale dove è cresciuta, subito dopo la morte del padre, il Rav Krucka, rabbino della comunità ebraica ortodossa che lei ha ormai abbandonato da sei anni. Al suo ritorno Ronit ritrova il cugino Dovid, erede degli insegnamenti del Rav, e scopre che ha sposato Esti, amica d’infanzia con cui lei aveva vissuto una appassionata relazione. I due sono gli unici che, seppur dopo un’iniziale ritrosia, non solo l’accolgono nella loro casa ma mostrano di voler condividere il suo dolore, mentre nel complesso gli abitanti di Hendon la condannano senza appello per avere detto addio alla famiglia, alla casa, alle regole della comunità.

Da molti acclamato come una storia d’amore proibito, Disobedience in realtà mette a fuoco le esistenze di tre persone colte in un momento di grande tensione, nel quale i loro destini tornano a intrecciarsi, a distanza di anni, prima di riavviarsi verso strade divergenti grazie a una ritrovata indipendenza. È insomma un inno alla sofferta e gioiosa facoltà del libero arbitrio, che dei rapporti umani (e di tutte le loro possibili sfumature – amorose, amicali, familiari) è radice ed essenza. Tale radice risulta tanto più indicativa quanto più i rapporti vengono osservati nella loro differenziante particolarità, attraverso l’obiettivo di un regista che ha sempre scelto (almeno fino a questo momento) di puntare lo sguardo sui destini individuali. La nuova ‘donna fantastica’ che Lelio sceglie di raccontare nel suo primo film in lingua inglese è infatti lesbica, ebrea ed esiliata da una comunità ortodossa.

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Nel mondo dei media always on, che quotidianamente ci investono con una Ê»granularità di stimoliʼ da gestire con sempre più abile multitasking, il teatro, tra le più antiche forme di comunicazione artistica, ridefinisce il proprio statuto e la propria funzione mediali tramite l’appropriazione e l’elaborazione dei linguaggi attivi nel mediascape contemporaneo.

La questione dello sviluppo dell’arte teatrale in parallelo all’evoluzione della comunicazione e delle sue tecnologie, già asse teorico stratificato di riflessioni e traiettorie di ricerca, si arricchisce di un nuovo, significativo, momento di analisi e divulgazione con il volume Teatro e immaginari digitali. Saggi di mediologia dello spettacolo multimediale a cura di Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio (Gechi Edizioni, 2018).

 

 

Pubblicazione collettanea dalla spinta vocazione prismatica, il testo concentra l’attenzione di diversi studiosi nei confronti del «plesso semantico che tiene insieme il teatro con i nuovi media digitali» (Amendola, p. 18), nel segno di una prospettiva di ricerca duplice, media-archeologica e sociologica, ben argomentata nell’introduzione dai curatori.

Il primo approccio, seguendo l’intuizione dello studioso Jussi Pa­rikka, si fonda sull’ «investigate the new media cultures through insights from past new media» (Parikka, 2002); il che significa, nell’indagine sul medium-teatro, riconoscere e valorizzare gli spettacoli pionieristici nell’uso delle tecnologie analogiche, che dagli anni Ottanta del secolo scorso sono riusciti a rideterminare i rapporti di forza tra teatro e media.

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