Matteo Martelli, Marina Spunta (a cura di), La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive

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Il volume La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive (Presses Universitaires de Strasbourg, 2020), curato da Matteo Martelli e Marina Spunta, raccoglie gli atti dell’omonimo convegno internazionale, tenutosi a Strasburgo nel dicembre 2018 e organizzato in collaborazione con Nunzia Palmieri. Obiettivo dei quindici contributi raccolti è ricostruire un dato non ancora sufficientemente indagato nell’opera celatiana, la centralità dello sguardo e delle arti visive. Autore tra i più letterari della nostra tradizione, Celati è stato tra i primi (insieme a Calvino) a interrogarsi sui confini e i limiti della parola, arrivando a sostenere – in ‘Il racconto di superficie’, apparso sul Verri nel 1973 – che per avvicinarsi alla fabulazione, ovvero «l’illimitato divenire e tutte le metamorfosi a cui soggiaciamo», la scrittura avrebbe dovuto «uscire da se stessa, se riesce a farcela. Il problema dello scrivere oggi è tutto qui». Queste parole rivelano in controluce come la poetica celatiana, stante la messa in discussione della staticità del testo, sia costruita su basi non soltanto letterarie. I suoi temi – il rapporto tra corpo e spazio, il ruolo del paesaggio, la riflessione sul senso del quotidiano – derivano tutti da un dialogo con le arti della visione, che divengono «materia di riflessione e di formazione del pensiero, un oggetto di ricerca critica e artistica, un incontro e uno scambio per pratiche interdisciplinari e scritture ibride» (p. 12). Di questo «pensiero figurale» (p. 10), Gestaltung d’una spinta conoscitiva presente sia negli scritti teorici sia nella pratica creativa, La scrittura dello sguardo individua forme e funzioni attraverso tre sezioni che hanno il merito di favorire i rimandi interni, mantenendo al contempo una coerente focalizzazione sul cimento con diversi media: pittura, fotografia, cinema.

La prima parte include saggi sul rapporto con la tradizione pittorica, oggetto d’attenzione critica e fonte di evidentia per gli spazi narrativi dell’autore. In apertura, Maria Teresa De Palma esamina alcuni degli appunti del Fondo Celati della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, rivelando una corrispondenza tra il canone figurativo e quello tracciato negli Studi d’affezione (Quodlibet, 2016) e in Narrative in fuga (Quodlibet, 2019). Se Celati critico letterario osteggia il Rinascimento tradizionalmente inteso, il critico d’arte schiva la visione prospettica per aggrapparsi all’orizzonte frammentario del Quattrocento fiammingo; predilezione che trova una continuazione nell’interesse per la ‘logica del discontinuo’ in ambito contemporaneo (Schwitters, Duchamp, un’archeologia del marginale messa in luce anche nel saggio a firma di Giacomo Micheletti). Marco Antonio Bazzocchi e Filippo Milani si concentrano invece sulle fonti visive delle atmosfere del ‘novellino padano’, individuando in Morandi e nel Turner mediato da Francesco Arcangeli sicuri punti di riferimento. Di particolare interesse è la lettura di Verso la Foce e Condizioni di luce sulla via Emilia offerta da Bazzocchi nel suo saggio, focalizzato sull’analisi del rapporto luce-colore e delle modalità della percezione che, spingendo il lettore-osservatore a sentirsi sempre ‘dentro’ la rappresentazione, legano la ricerca morandiana a quella del secondo Celati. La bassa soglia d’intensità tipica della produzione narrativa degli anni Ottanta è il risultato della scelta formale della ‘visione frontale’ che – come spiegato dallo scrittore nel saggio apparso in Cinema & Cinema nel 1987, ‘La veduta frontale: Antonioni, l’avventura, l’attesa’–, disattendendo le «aspettative che annientano la forma semplice del guardare» della visione di scorcio, consente allo sguardo di trovare quiete, di accettare il quotidiano per quello che è, svelato da «un modo di narrare che evita le eccitazioni, e riporta tutto ad un pacato uso della rappresentazione» (p. 211). Ne risultano pagine d’osservazione incentrate sulle apparenze, ariostesche parvenze di realtà in continuo mutamento, che – ricorda Bazzocchi – testimoniano «non semplicemente ciò che appare, ma ciò che appare a un occhio che ha rinunciato a conoscere, ma vuole trovare un posto nell’insieme delle cose del mondo» (p. 47).

Ed è nella fotografia che quest’occhio arreso, che pensa-immagina a un tempo, trova un mondo congeniale al proprio modo di sentire. Nel secondo segmento del volume, il noto binomio Ghirri-Celati viene ulteriormente definito grazie all’indagine di alcuni inediti abbozzi di Verso la Foce offerta da Spunta e al confronto con un altro, meno indagato sodalizio, quello con il fotografo Carlo Gajani. Gabriele Gimmelli propone un’attenta lettura dei documenti che preludono agli iconotesti nati da questa collaborazione, La bottega dei mimi e Il chiodo in testa (recentemente ripubblicati, a cura di Nunzia Palmieri, in Animazioni e incantamenti, L’Orma, 2017), evidenziando le affinità formali, non solo ideologiche, tra il primo Celati e la ricerca pittorico-fotografica di Gajani. In chiusura alla sezione, infine, il contributo di Cecilia Monina si sofferma di nuovo sulla bassa soglia d’intensità delle pagine celatiane. La ‘visione frontale’ del novellino padano, naturalistica e antiromanzesca, viene qui indagata attraverso la nozione di ‘doppio framing’, doppia cornice «che dirige e orienta lo sguardo» (p. 125). Ciò permette all’autrice di tracciare una genealogia del ‘vedere del vedere’ composta da Celati, Ghirri ed Antonioni. I tre sembrano rispondere con diversi mezzi al medesimo ventaglio di quesiti: come tradurre lo smarrimento che ci invade di fronte al susseguirsi delle apparenze? Cosa nascondono le immagini che ci circondano, e in che cosa consiste il vedere? L’espediente della doppia cornice, in narrativa come nelle arti della visione, crea piani panoramici che spingono il lettore-osservatore a «porsi sulla soglia, provare l’esperienza dell’esercizio dell’artista, immedesimarsi e concentrarsi sull’inquadratura come apertura del proprio sguardo sulla realtà» (p. 126). Il rivolgersi alla macchina da presa, dunque, per l’autore dei Narratori delle pianure è la naturale prosecuzione di una attività che fa della riflessione sullo sguardo e della fantasticazione una poetica riflessa nei racconti e nei documentari degli anni Novanta (aspetti complementari, questi, enucleati, all’interno della terza parte, nei saggi di Giulio Iacoli e Ugo Fracassa).

Pur nella diversità dei modi attraverso cui Gianni Celati si avvicina alle varie arti, è evidente ci si trovi di fronte a un approccio al visibile che travalica l’interesse storico-filologico per aprirsi a un’ottica sistemica, nell’intento di riappropriarsi della «momentaneità incatturabile d’ogni sguardo» (così l’autore stesso nel saggio ‘Di cosa si parla quando si parla di paesaggi’, in M. Belpoliti, M. Sironi (a cura di), Gianni Celati, Riga, 28, 2008, s.p.): centro d’interesse non è più – o non solo – l’opera in sé, bensì le relazioni tra l’oggetto d’osservazione, il critico-scrittore e lo spettatore. Fatto proprio l’orizzonte interdisciplinare e intermediale intrinseco alla materia, questo volume apre lo spazio a un’ermeneutica dell’«ecosistema» (W.J.T. Mitchell) formato da parole e immagini, e disegna una mappa imprescindibile per i futuri studi sull’autore.