Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

La collaborazione tra Pier Paolo Pasolini e Massimo Girotti, che recita in Teorema (1968) e Medea (1969), si contraddistingue per una rielaborazione del paradigma intertestuale associabile alla sua tipicità divistica: il regista prosegue sulla scia dell’operazione compiuta da Visconti trent’anni prima, ma ribalta totalmente la posizione dei personaggi interpretati dall’attore, i quali per la prima volta, messi da parte i panni degli eroi romantici e virtuosi, subiscono fatalmente l’irruzione dell’estraneità e tornano a essere soggetti della visione.

The collaboration between Pier Paolo Pasolini and Massimo Girotti, who plays in Teorema (1968) and Medea (1969), is marked by a rielaboration of the intertextual paradigm referred to his stardom type: the director carries on the operation made by Visconti thirty years early, but he overturns the position of the characters played by the actor, who undergo, for the first time, the strangeness break-in and they become subjects of vision.

Nel 1952 Elsa Morante realizza un breve e particolareggiato ritratto dell’attore Massimo Girotti per il volume collettaneo Volti del cinema italiano (il testo è stato recentemente ripubblicato per Einaudi in una raccolta di scritti a cura di Goffredo Fofi): Lo studio di un viso d’attore è l’esercizio d’una scienza fantastica: perché sul viso di un attore si può ritrovare il disegno, e perfino il nome, dei suoi personaggi. Massimo Girotti conosce i grandi successi; ma la fatua soddisfazione del successo ha risparmiato il suo viso. Al suo viso imbronciato, interrogante e pensoso, non basta (e non importa) d’essere giovane e d’esser bello. È scontento. Forse perché il suo personaggio ideale, lui, non l’ha incontrato ancora. Come sarà questo personaggio? Gli occhi di Massimo rispondono: “Avrà la mente giovane, fiduciosa”. E la fronte: “Ma il cuore tormentato, adulto”. La bocca dice: “Indolenza e malinconia”. I sopraccigli: “Memoria e severità”. E il sorriso (che si vede pur nella serietà) confessa: “Alla fine, la cosa più bella del mondo è lasciarsi incantare”. Che nome avrà questo personaggio? Adolfo? Werther? Antonio? Amleto? Fra simili specchi incantatori, caro Massimo, scegli il tuo; e lasciati incantare da lui, anche se farai dispetto all’arte neorealista (Morante 2017, p. 130).

All’epoca il trentaquattrenne Girotti è già apparso in circa 36 film, tra i quali certamente alcuni tra i titoli più significativi della sua carriera, eppure l’impressione è che la pasoliniana Morante gli stia suggerendo, nemmeno troppo indirettamente, di aprirsi a più vaste prospettive interpretative. Tra i vari tratti evidenziati nello studio della scrittrice spicca senz’altro la personalizzazione di questo sorriso un po’ ambivalente, sfuggente, incerto, «che si vede pur nella serietà» e che vagheggia un inesauribile desiderio d’incanto. Le occorrenze, in effetti, sono numerose: tra le più note ci sono sicuramente il finale di Un pilota ritorna (Rossellini, 1942) [fig. 1] e, soprattutto, quello di Ossessione (Visconti, 1943): la mdp disegna sul volto dell’attore un’espressione in cui «il pianto si confonde col riso» (Scandola 2020, p. 42) [fig. 2]. C’è da dire che anche Pasolini ripropone un’espressione similmente ambigua nel Creonte di Medea (1969) – si tratta, in realtà, di una serie di micro-espressioni –, mentre in Teorema l’operazione più eclatante riguarda lo stravolgimento dei connotati di Girotti, che vengono degradati nell’emblematico urlo «destinato a durare oltre ogni possibile fine» (Pasolini 1998, p. 1056) dopo aver corso «pieno di uno spavento sacro» (ivi, p. 1055) lungo i fianchi polverosi del deserto-vulcano [fig. 3]. Anche se in un’altra scena, quella epifanica del risveglio che potrebbe corrispondere al capitolo del romanzo intitolato È la volta del Padre, è ancora un sorriso accennato (ed estasiato) a essere fissato nello splendore del primo piano e a costituire uno di quei ‘momenti di verità’, tanto agognati dal regista, che a volte lampeggiano anche negli sguardi e nei sorrisi degli attori professionisti. Scrive Pasolini «Camminando sull’erba bagnata, cercando tra le piante, egli ha nel volto, colpito dal sole radente – di un rosa ch’è pura luce – un lieve sorriso strabiliato e quasi teatrale – tanto è l’incanto» (Pasolini 1998, p. 934) [figg. 4-5].

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Pasolini e Ferreri sono accumunati da una vena nichilista, da una rivolta incessante contro le istituzioni statali, religiose, morali, politiche e culturali, che si manifesta attraverso la messa in scena di situazioni e atti estremi. In Porcile (1969) Ferreri entra in una sorta di passerella simbolica tra i corridoi e le stanze della villa settecentesca di Stra, immergendosi in uno stilizzato balletto di presenze emblematiche che partecipano a una specie di carnevale ideologico e filosofico. Il contributo propone un’analisi dello stile recitativo di Ferreri nel ruolo del tedesco Hans Günther all’interno del secondo episodio del film, e insieme elabora un’attenta riflessione sull’utilizzo di Pasolini dei suoi personaggi cinematografici, intesi come ‘strumenti’ vividi e singolari di un pensiero che si mette in gioco in termini di parabola estrema.

Pasolini and Ferreri share a nihilistic vein, an incessant revolt against state, religious, moral, political and cultural institutions, which manifests itself through the representation of extreme situations and acts. In Porcile (1969) Ferreri enters in a kind of symbolic parade through the corridors and rooms of the 18th-century villa in Stra, immersing himself in a stylised ballet of emblematic presences participating in a kind of ideological and philosophical carnival. The contribution proposes an analysis of Ferreri’s acting style in the role of the German Hans Günther within the film’s second episode, and at the same time elaborates a careful reflection on Pasolini’s use of his cinematic characters, understood as vivid and singular ‘instruments’ of a thought that expresses itself in terms of extreme parable.

Fin dall’inizio della sua esperienza di regista Pasolini non si è limitato a intrecciare costantemente i corpi popolari della borgata con quelli degli attori professionisti. Una delle particolarità più significative nella sua scelta degli interpreti riguarda il ricorso continuo ai volti o alle voci degli amici e conoscenti scrittori, poeti, giornalisti, critici letterari, registi, artisti, intellettuali di varia provenienza. Si tratta quasi sempre di ruoli da non protagonisti, che immettono dentro il film un’aura particolare, facendo vibrare sia le corde della poetica pasoliniana sia quelle legate al sentire e all’immaginario di un determinato momento storico. Si comincia con l’apparizione di Elsa Morante dentro un carcere, mentre legge un fotoromanzo in Accattone (1961), e di Paolo Volponi vestito da prete in Mamma Roma (1962). Si finisce con le voci di Giorgio Caproni, Marco Bellocchio e Aurelio Roncaglia che, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975-1976), doppiano rispettivamente gli attori Giorgio Cataldi e Aldo Valletti e il giornalista-scrittore Umberto Paolo Quintavalle. In mezzo si pone una vera e propria sfilata di personaggi e di voci della cultura, dell’arte e dello spettacolo: Giorgio Bassani, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg, Giorgio Agamben, Gabriele Baldini, Domenico Modugno, Carmelo Bene, Julian Beck, Cesare Garboli, Giuseppe Zigaina e tanti altri, fra cui Orson Welles che interpreta in maniera emblematica il ruolo del regista in La ricotta (1963).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

La presenza cinematografica di Ninetto Davoli nei film di Pasolini rappresenta un campo di tensioni estetiche e ideologiche. Prima di tutto apparendo nella vita e nelle opere di Pasolini quando stava perdendo la fede e l’amore nella realtà e nel sottoproletariato romano. Davoli è visto come un simbolo di sopravvivenza di grazia e purezza e, in alcuni scritti di Pasolini, come colui che è in grado di dar vita a momenti unici di espressione di felicità. Da Edipo Re (1967) in avanti, la sua figura appare come un Anghelos, un presagio del cambiamento e della sventura, in una crescente visione pessimistica della società.

Ninetto Davoli's cinematic presence in Pasolini's films constitutes a field of aesthetic and ideological tension. Firstly appearing in Pasolini's life and works when the author was losing faith and love in reality and in the Roman underclass, Davoli is seen as a surviving symbol of grace and purity and, in some of Pasolini's writings, he brings to life some unique moments of happiness. From Edipo Re (1967) onward, his figure appears as an Anghelos, a harbinger of mutation and misfortune, in an increasingly pessimistic view of society.

 


 

1. Costretti a essere

 

In queste celebri righe dell’Abiura dalla “Trilogia della vita”, scritte da Pier Paolo Pasolini qualche mese prima di morire e uscite postume, colpisce uno strano verbo: ‘costretti’. Chi costringeva, fino a qualche anno prima, i giovani sottoproletari romani, immondizia umana, imbecilli, squallidi criminali, vili inetti, a essere adorabili, simpatici e innocenti? La risposta è, mi pare, implicita nel testo (e a un passo dalla confessione): Pasolini stesso, il suo sguardo, e diciamo pure la sua logica del desiderio.

Da qui, forse, occorre partire per afferrare il senso ambiguo della presenza di Ninetto Davoli nel suo cinema. La figura dell’attore è indissolubilmente legata a quella del regista, è (insieme a quello di Franco Citti in Accattone) il volto con cui il suo cinema è spesso identificato. Eppure tra le due figure c’è un abisso. Il corpo, i gesti di Ninetto Davoli sono in Pasolini un campo di tensioni erotiche, estetiche e ideologiche: una creatura che miracolosamente appare mentre il suo mondo va scomparendo (o va morendo negli occhi e nel cuore del poeta), forse l’ultima speranza che i giovani e i ragazzi non siano, ‘già allora’, così e così.

Davoli arriva nel cinema di Pasolini, paradossalmente, quando questi, ben prima dell’abiura della Trilogia, sta dicendo addio al mondo delle borgate, al presente, a ogni forma per quanto complessa e contraddittoria di realismo. Si sta spingendo verso l’apologo, la favola, la parabola, il mito – ma si porta dietro, come un fantasma, Ninetto. Lo aveva conosciuto quattordicenne all’epoca delle riprese della Ricotta, lo fa comparire per la prima volta come pastorello nel Vangelo secondo Matteo e poi lo mette al centro della scena, a fianco a Totò, in Uccellacci e uccellini. In mezzo si è consumata una cesura, simboleggiata anche fisicamente dal crollo fisico e dal ricovero del poeta, nel marzo del 1966.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Fra i vari film girati tra il 1967 e il 1970 (da Buñuel a Bertolucci, Garrel e Cavani), l’incontro dell’attore Pierre Clémenti con Pier Paolo Pasolini sul set di Teorema e poi per le riprese di Porcile (1969) diede il via a un legame artistico e personale fruttuoso anche sul piano delle riflessioni sulle relazioni fra attore, personaggio, regista, attorialità e cinema. La prova filmica pasoliniana, infatti, diede l’opportunità all’ex allievo di Marc’O di rompere le convenzioni con il teatro di parola, il naturalismo e l’approccio razionale per mezzo del linguaggio di un corpo adattabile in maniera plurale. Pasolini, dal suo canto, intrecciò – dai casting alla «performance della cinepresa» – il piano attoriale espresso da Clémenti come un «magma invisibile», in cui l’attore e la sua fisicità sono parte di un’unica materia cinematografica.

Among the many movies filmed between 1967 and 1970 (from Buñuel to Bertolucci, Garrel, and Cavani), actor Pierre Clémenti's encounter with director Pier Paolo Pasolini on the set of Teorema and later for the filming of Porcile (1969) marked the beginning of a successful creative and personal relationship as well as discussions on the relationships between actor, character, director, actorhood, and cinema. The former Marc'O's student had the chance to transcend Word Theatre, realism, and the rational approach conventions by using the language of his plural and adaptable body in Pasolini's film. For his part, Pasolini combined the actorly plan, expressed by Clémenti, as a «invisible magma», in which the actor and his physique are part of a larger cinematographic force.

 

«Je n’aime pas travailler. J’aime les aventures. C’était une période de retour à la beauté, de retour à la nudité aussi. […]. C’est une période où j’acceptais de faire des films seulement si je ne parlais pas dedans. J’ai aussi refusé le Satyricon de Fellini, parce qu’il me demandait de rester enfermé dans le studio pendant six mois, pour être à sa disposition» (Clémenti in Bonnaud 2000). Con queste parole Pierre Clémenti, «incarnation idéale de toutes les aventures de la modernité cinématographique» (Bonnaud 2000), ha rievocato – un anno prima di morire – quella che è stata indubbiamente la stagione più feconda della sua breve ma intensa carriera artistica, ovvero il triennio 1967-1970. Nel giro di pochi anni, infatti, l’ex-allievo di Marc’O – il cui magistero risulterà fondamentale nella formazione del suo stile – diventa la musa maschile del cinema engagé, offrendo alla cinepresa di Buñuel (Belle de jour, Bella di giorno, 1967), Bertolucci (Partner, 1968), Pasolini (Porcile, 1969), Garrel (Le lit de la vierge, 1970) e Cavani (I cannibali, 1970) il magnetismo inquieto di una presenza schermica che, come ha confermato la stessa Liliana Cavani, non aveva bisogno della parola per comunicare.

Quello di Clémenti è un corpo ambiguo, al contempo rabbioso e aggraziato, violento e fragile, maschile e femminile: da un lato lo sguardo tenebroso e i capelli corvini, tinti di biondo da Visconti per ingentilire il figlio del principe di Salina (Il gattopardo, 1963), dall’altro quel collo slanciato e quelle mani bianche che seducono, tra gli altri, proprio Pier Paolo Pasolini. Per il quale – come si legge nell’intervista concessa dal regista a Jean Duflot – la criminalità del personaggio di Porcile non è quella del selvaggio, ma quella dell’intellettuale, di un ribelle che – come il suo interprete – infrange leggi, tabù e convenzioni per salvaguardare la propria libertà. Tra le prime convenzioni trasgredite da Clémenti c’è proprio quella del teatro di parola, la cui tradizione secondo Marc’O – regista e drammaturgo vicino agli ambienti del surrealismo e del lettrismo – stava trasformando gli attori in semplici esecutori di un testo. Nella compagnia dell’American Center, frequentata – tra gli altri – anche da Bulle Ogier, Clémenti segue corsi di danza e impara a padroneggiare tutte le risorse della mimica, che Marc’O integra con suoni e musica dando origine a un «théâtre musical» dalla forte connotazione politica.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Dopo l’abbandono del progetto da parte di Orson Welles per Tiresia per l’Edipo re, nel 1967 Pasolini si rivolse a Julian Beck del Living Theatre. Il cambio si rivelò uno stimolo per il ripensamento del personaggio sfruttando l’aura, la fisicità androgina e dissacrante dell’attore. In dialogo ma anche in autonomia rispetto alla comunità teatrale di appartenenza, Pasolini ricorrerà a una inaspettata sottrazione del corpo, al centro dell’attività dell’interprete, per esaltare la potenza sacrale ma anche umoristica del suo volto.

Pasolini engaged Julian Beck of the Living Theatre in 1967 after Orson Welles decided to back out of the performance of Tiresias for Edipo Re. The shift significantly contributed for reconsidering the role by utilizing the aura, androgynous physique, and disrupting the body language of Beck. In the dedicated scenes, Pasolini used an unexpected reduction of the body, which was at the center of the performer's activity, to amplify the holy but also humorous force of his face, acting both in dialogue with and independently from the theatrical group to which he belonged.

La scelta di Julian Beck per l’interpretazione di Tiresia in Edipo re è un ripiego in corso d’opera. Pasolini scrive la sceneggiatura pensando a Orson Welles, descrivendo il personaggio come un «vecchio uomo, grasso, pesante, segnato dalla vecchiezza su un viso restato infante» (Pasolini 2001a, p. 1006). L’idea è forse quella di tracciare un filo sottile tra i personaggi del regista della Ricotta e dell’indovino di Edipo re, uniti idealmente dalla sagacia dell’intellettuale che osserva stancamente l’inutile agitarsi dell’umanità, con «una dimensione morale, insaporita dall’intelligenza e dalla sua crudeltà consuete: sarebbe stato un Tiresia accusatore», come spiega a Jean-André Fieschi (Pasolini 2001a, p. 2924). Ma Welles rinuncia, optando negli stessi mesi per un altro Edipo re e un altro Tiresia: nell’estate 1967 partecipa infatti alle riprese del film Oedipus the King di Philippe Saville, in cui interpreta proprio il veggente cieco. Così, poco prima, nell’aprile 1967, nel bel mezzo della produzione, Pasolini deve cercare rapidamente un «ripiego» (Chiesi 2006, p. 20).

Proprio in quei giorni, dal 5 al 7 aprile, va in scena al Teatro delle Arti di Roma l’Antigone del Living Theatre, la compagnia che due anni prima aveva folgorato Pasolini con una pratica teatrale spregiudicata e coinvolgente, politica e rivoluzionaria, contribuendo alla nascita della stagione della sua scrittura tragica. Nello stesso teatro, l’8 e il 9 aprile il gruppo americano propone anche Le serve. È quasi inevitabile che la folgorazione si rinnovi: Pasolini invita a cena Judith Malina e Julian Beck, di cui elogia l’interpretazione femminile nelle Serve, e propone all’attore di partire subito per il Marocco per interpretare Tiresia, promettendo non solo una regolare paga ma anche, come ricorderebbe Francesco Leonetti (che nel film interpreta il servo di Laio), «un camioncino» (Boriassi 2017-2018, p. 76). Beck accetta, previa «cortese concessione del Living Theatre», come si legge nei titoli di testa: «senza il consenso del clan, infatti, Julian non si può allontanare dalla sua comunità di vita e di lavoro» (Possamai 2011, p. 44).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Laura Betti vive a fianco di Pasolini un’avventura artistica esaltante che la porta a esplorare un modo ‘paradossale’ di recitare davanti alla macchina da presa. Il suo stile rimane inconfondibile e si caratterizza per un mix spregiudicato di mimica ed espressività vocale. I ruoli interpretati nel cinema di Pasolini ci consegnano i tratti di una personaggia ingenua e ambigua allo stesso tempo, autentica e camaleontica.

Laura Betti lives alongside Pasolini an exciting artistic adventure that leads her to explore a 'paradoxical' way of acting in front of the camera. His style remains unmistakable and is characterized by a mix of facial expressions and vocal expressiveness. The roles played in Pasolini's cinema give us the traits of a naive and ambiguous character at the same time, authentic and chameleonic.

  Ho fatto circa cinquantacinque film e mi pare di aver capito, solo ora, che per quanto io abbia ben nascosto la parte di me che sono io, evitando eccessive confusioni con il mio doppio programmato mica male proprio da me, Pier Paolo riusciva a capirmi (spesso non me ne accorgevo e lo negavo beffardamente) meglio di chiunque altro (Betti 1991, p. 189).

 

Il rapporto simbiotico fra Betti e Pasolini raggiunge sul set livelli di intensità non comune, testimoniati dagli scatti dei fotografi di scena, da dichiarazioni, interviste, tutte impronte di un frammentario discorso amoroso che si ricompone poi nell’assolutezza dei fotogrammi. Lungi dall’essere solo ‘tracce vaporose’ (Nacache 2006, p. 19) di una mitografia leggendaria e inafferrabile, questi documenti rinviano alla concretezza di un rapporto di complicità capace di illuminare lo stile del regista, di sollecitarne l’ispirazione fino al punto di sospendere le riprese di Teorema in attesa che Betti si convinca a interpretare Emilia. Questo episodio è solo uno dei tanti aneddoti che è possibile ripescare grazie alla spinta affabulatoria di Betti, sempre pronta a suggerire nuovi spunti pur di ribadire in pubblico la forza del suo legame con Pasolini, ma ciò che più conta è la reciprocità dello scambio performativo e artistico, ovvero la possibilità per il regista di ‘giocare’ con le diverse maschere della sua ‘pupattola bionda’. La relazione artistica fra Betti e Pasolini appartiene allora a quelle che Nacache definisce «associazioni privilegiate» (Nacache 2003, p. 79), contraddistinte da un’intesa ‘amorosa’, una collaborazione appassionata. Quel che scaturisce da tali ‘associazioni’ è «la permanenza di uno sguardo su un volto» (ibidem) e con essa una galleria di piani e sequenze che contrappuntano la declinazione dell’atto cinematografico. Per capire quali siano gli effetti della prolungata esposizione dell’attrice allo sguardo del suo ‘autore’ basta ancora una volta affidarsi alle sue dichiarazioni, sempre puntuali nel riferire la natura del loro legame.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Partendo da alcune osservazioni sull’attorialità nel teatro contenute nel Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, il contributo approfondisce, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e le riflessioni relative a funzione e pratica dell’attore teatrale.

Starting from some observations on theatrical actorship contained in Manifesto per un nuovo teatro of Pasolini, the article explores, in particular, the difference between Pasolini’s ideas on the nature of cinematographic actorship and the thoughts related to the function and the practice of theater actor. 

 

Benché non abbia mai trattato il tema in maniera sistematica, Pasolini ha elaborato una serie di riflessioni sulla sua pur limitata esperienza di attore, di spettatore che assiste a differenti performance attoriali sia in sede teatrale sia cinematografica, e soprattutto sulla sua pratica di direttore di attori nonché di responsabile del casting dei propri film, dalle quali è possibile estrapolare una vera e propria teoria dell’attore. È quanto hanno dimostrato ampiamente Stefania Rimini e Maria Rizzarelli in un loro recente saggio (2021), riccamente documentato e articolato.

Le considerazioni che seguono, in certi casi, ne riprendono le suggestioni, cercando di integrarle approfondendo, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e quelle relative a funzione e pratica dell’attore teatrale. La vastità del tema e l’estemporaneità delle considerazioni di Pasolini, recuperate da una pluralità di fonti eterogenee, rendono impossibile qualsiasi pretesa di sistematicità, che può essere invece recuperata in interventi specifici sul rapporto con particolari figure di attori ai quali Pasolini era particolarmente legato. Ci auguriamo che le riflessioni proposte possano essere considerate una sorta di ‘secondi sondaggi’ per una doppia teoria pasoliniana dell’attore, il cui valore euristico consiste principalmente nel far affiorare con maggiore evidenza la distanza che separa, nella sua concezione, il cinema dal teatro, non solo sotto il profilo semiologico e culturale ma – verrebbe da dire – ontologico ed esistenziale.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.

Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.

Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.

La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Il saggio è un primo stimolo alla riflessione sulle forme e le strategie della museologia d’opera per i musei del XXI secolo attraverso il caso studio del Museo Zeffirelli a Firenze. Esso ripercorre la nascita e gli obiettivi del patrimonio del regista, scenografo e costumista fiorentino, rimessi in ‘opera’ dal 2015 dalla Fondazione Zeffirelli Onlus e dal nascente Centro Internazionale per le Arti e lo Spettacolo realizzato all’interno del Complesso di San Firenze nella città natale. Archivio, museo e scuola, esso lavora oggi in maniera complementare alla trasmissione della sua opera divisa fra cinema, teatro e opera. Partendo dal riconoscimento dei rapporti legati alla cultura visuale dell’artista si analizzano qui le strategie espositive e le attività legate ai percorsi operistici.

This paper aims to stimulate a reflection on the museology of opera during the 21st century through the study case of the Zeffirelli Museum in Florence. The essay analyses the birth and the objectives of the heritage collected by the director, set and costume designer. They are reused since 2015 by the Fondazione Zeffirelli Onlus and the International Centre for the Arts and the Performing Arts, set up inside the Complesso di San Firenze in his hometown. As an integrated archive, museum, and school, it now works on the transmission of his heritage divided between cinema, theatre and opera. For this reason, the analysis starts from the recognition of the visual culture embedded inside the opera paths and exhibition activities of the intermedial museum.

La vita non è che un continuo passaggio di esperienze,

da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare

a chi viene dopo di noi.

Franco Zeffirelli

1. Dai materiali d’archivio al museo intermediale

Messa in movimento, trasmissione e ricezione di un’esperienza molteplice sono i motivi guida espressi dal regista fiorentino Franco Zeffirelli a proposito della raccolta (durante la sua vita) e della destinazione di una serie di materiali legati alla propria attività e all’arte dello spettacolo in toto. Votandosi a questi principi, ha promosso con forza il riconoscimento di quest’insieme patrimoniale come ‘vivente’, non solo per l’azione di conoscenza storica che esercita nel presente verso il futuro ma, si legge tra le righe del suo pensiero, per la capacità di accogliere e far percepire i caratteri stessi della vita e delle arti.

Dal 2015 parte di questi materiali[1] sono gestiti e rimessi in opera a Firenze dalla Fondazione Zeffirelli Onlus, nata in quell’anno proprio con l’obiettivo di «promuovere la cultura e l’arte, attraverso la tutela e la valorizzazione di beni di interesse artistico e storico».[2] Sulla scorta del pensiero dell’artista, l’istituzione ha destinato i propri spazi all’incontro, lo studio e la produzione artistica attraverso il patrimonio zeffirelliano.

Così nella città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Firenze, nel corso del 2015 è stato istituito il CIAS - Centro Internazionale delle Arti dello Spettacolo,[4] che oggi ospita e anima al suo interno un archivio, una biblioteca, un museo, una sala musica da centocinquanta posti che funge anche da spazio di proiezione ed esposizione (nello splendido ex oratorio dei padri filippini caratterizzato da alcuni palchi laterali che ne fanno quasi un teatro), un bookshop, alcune aule dedicate alla didattica (ma tutti gli spazi sono riutilizzati in tal senso), laboratori e un’area ristorativa. In questi spazi si svolgono un insieme di attività formative, artistiche e di progettazione. Le diverse parti, che includono anche la direzione curatoriale, sono pensate come sezioni complementari di uno stesso corpo, sia per gli scambi tra biblioteca, archivio e museo (anche in termini di visite guidate dedicate), sia e soprattutto per gli ulteriori percorsi che fruitori e studiosi possono attivare autonomamente passando da una parte all’altra.[5]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13