L’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini si serve, fin dai suoi esordi, di una modalità peculiare di scelta e messa in scena delle figure attoriali, usufruendo di una singolare mescolanza tra comparse, non professionisti, amici e intellettuali vicini al regista-scrittore, e attori celebri dello star system italiano e internazionale. Se ai corpi della borgata, agli attori non professionisti e alle figure ricorrenti del suo cinema è stata dedicata una certa attenzione critica, ancora poco indagato è il ruolo di divi e attori professionisti nella sua opera, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta in poi (cfr. Rigola 2012-2013). Forse i casi più emblematici riguardano Anna Magnani, Orson Welles e Totò, ma tutto il cinema pasoliniano offre un vero e proprio campionario di attori trasversali utilizzati in ruoli differenti, in veste di protagonisti, comprimari, o come semplici meteore all’interno dei film (da Adriana Asti a Femi Benussi, da Alida Valli a Silvana Mangano, passando per Massimo Girotti, Caterina Boratto, Paolo Bonacelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia). Interrogare l’incidenza del professionismo attoriale in Pasolini significa a nostro avviso fare i conti con l’assenza di attorialità, o meglio con la subordinazione degli attori allo spirito pasoliniano che fa da sfondo alle pellicole. Nell’attrito tra l’ideologia dell’autore e la performance depotenziata degli attori professionisti risiede probabilmente un nodo euristico ancora tutto da esplorare.