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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
Abstract: ITA | ENG

Il presente contributo intende prendere in esame il cinema di Michele Gandin riflettendo sulla dinamica performativa del documentario, tra la rimessa in scena di gesti antichi, solenni, senza tempo, atta a restituire una dimensione astorica e ancestrale al rito, e l’azione pratico-politica tesa a sollecitare e promuovere una presa di coscienza, di emancipazione da parte della popolazione del Sud.

This paper aims to examine Michele Gandin's cinema by reflecting on the performative dynamic of the documentary, between reenacting ancient, solemn, timeless gestures, apt to restore an ahistorical and ancestral dimension to the ritual, and the practical-political action aimed at soliciting and promoting an awareness, emancipation on the part of the population of the South.

 

Dopo aver lavorato come assistente di Vittorio De Sica in Teresa Venerdì (1941) e, l’anno seguente, in Un garibaldino al convento (1942), Michele Gandin nel dopoguerra affianca l’attività documentaristica, concentrandosi prevalentemente sulle classi subalterne, gli emarginati, la comunità contadina e i bambini, a quella di critico cinematografico per il periodico «Cinema» (Gandin, 1950). Nel 1950, sulle pagine della rivista, il regista traccia gli elementi portanti della sua poetica, suggerendo ai lettori di cogliere il lato nascosto della realtà, prima con una macchina fotografica e in seguito con la macchina da presa, il dettaglio e tutto ciò che una visione superficiale non permette di vedere (Antichi 2023). Gandin sostiene che la fotografia sia uno strumento più adatto rispetto al cinema per effettuare una prima indagine del reale, sia perché la fotocamera è «enormemente più maneggevole e più rapida nell’uso, meno visibile», in grado di «poter agire in qualsiasi condizione di spazio e di luce», sia perché, sostituendo una realtà in movimento con una realtà immobile, «permette alla macchina da presa un lavoro di analisi – nell’interno dell’inquadratura – altrimenti impossibile. […] Senza contare che un’immagine – se fermata intelligentemente ad un momento X – ha quasi sempre una capacità rivelatrice molto maggiore della stessa immagine in movimento e permette quindi impensati approfondimenti psicologici e sociali» (Gandin, 1950, p. 153).

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L’opera documentaria di Luigi Di Gianni prende le mosse dalle ricerche dell’etnologo Ernesto De Martino e mostra un notevole interesse per le pratiche magico-religiose, ancora presenti nel Meridione tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta. Magia Lucana (1958), documentario d’esordio, presenta stilemi caratteristici della prima fase della sua produzione, quali il rigore formale delle inquadrature e l’organizzazione ‘registica’ degli eventi, le cui scene vengono rievocate dagli stessi individui che li vivono quotidianamente, quasi come un film di finzione. Il male di San Donato (1965) costituisce una svolta stilistica che segna l’apertura alle riprese ‘frontali’ degli eventi e l’utilizzo del sonoro in presa diretta. All’oggettività della disciplina etnografica, Di Gianni contrappone la poetica della soggettività come parte integrante della realtà catturata dalla macchina da presa. Il suo sguardo autoriale trascende l’impostazione storico-sociale della scuola demartiniana, proponendo una prospettiva diversa sulle pratiche magico-rituali, non più legate a necessità materiali o frutto della superstizione, bensì rifugio da un’angoscia metafisica (che ha legami con la filosofia di Heidegger), un foucaultiano strumento di tecnologia del sé contro l’inquietudine esistenziale, che sembra anticipare le conclusioni ritrovate negli scritti di De Martino, pubblicati postumi.

Luigi Di Gianni’s documentary work takes its cue from the research of ethnologist Ernesto De Martino and demonstrates a notable interest in the magical-religious practices that persisted in Southern Italy between the late 1950s and early 1970s. Magia Lucana (1958), his debut documentary, exemplifies the stylistic hallmarks of the first phase of his production, including the meticulousness of the shots and the ‘directorial’ organization of the events, which are re-enacted by the very individuals who experience them, almost like a fictional film. Il male di San Donato (1965) represents a stylistic turning point that marks the opening to the ‘frontal’ filming of events and the use of live sound. Against the objectivity of ethnographic methodology, Di Gianni counterpoints the poetics of subjectivity as an integral aspect of the reality captured by the camera. His authorial perspective transcends the social-historical approach of the Demartinian school, proposing an alternative view on magical-ritual practices. These are no longer linked to material necessity or the result of superstition. Instead, they offer a refuge from a metaphysical anguish (which has links with Heidegger's philosophy) and can also be seen as a Foucaultian instrument of self-technology against existential uneasiness. This approach seems to anticipate the conclusions found in De Martino’s posthumously published works.

All’interno della cerchia dei registi demartiniani, Luigi Di Gianni si distingue per uno sguardo sulle pratiche magico-rituali derivante da una dimensione filosofica, squisitamente esistenziale, ancor prima che estetica e documentaria. La compresenza di realtà e finzione nelle sue opere non è solo scelta stilistica e simbolica, ma diventa strumento imprescindibile per un’indagine del reale. È su questo terreno ibrido, “onirico” – per citare il suggestivo contributo di Gaudiosi (2023, pp. 39-46) – che il suo cinema percorre sentieri inesplorati, si costituisce come forza rivelatrice del rapporto tra uomo e mondo.

In questa direzione, si è scelto di analizzare alcune sequenze di Magia Lucana (1958) e Il male di San Donato (1965), entrambi incentrati su riti arcaici, episodi di possessione e fascinazione, e segnanti due fasi differenti della sua produzione. Partendo dalla potenza evocativa dei fotogrammi in bianco e nero, si cercherà di mostrare come – nonostante le importanti differenze – i documentari di Di Gianni siano entrati in dialogo con le teorie De Martino e ne abbiano superato l’impostazione storico-sociale, anticipando una concezione metafisica, esistenziale, della ritualità, che emerge negli ultimi scritti dell’etnologo napoletano.

 

1. Magia lucana

Nuvola,

nuvola scura,

ca se venut’à ffa?

Va’ via, vattinne luntano, vattinne a lu bosco.

Ristuccia, ristuccia

Vattinne da chilla parte scura, dove non canta lu gallo

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L’articolo, che ha lo scopo di introdurre l’omonimo fascicolo monografico, indaga la ricezione del mito di Prometeo, nella sua mobilità non solo diacronica e diatopica, ma anche intermediale. Nel ripercorrere le recenti acquisizioni metodologiche degli studi intermediali, e nel sottolinearne la crescente importanza, il contributo mette in luce la prolifica fortuna della figura di Prometeo attraverso diversi media, dalla letteratura e il teatro fino al cinema, i videogiochi e i meme contemporanei, che ne determinano trasformazioni sostanziali. L’instabilità, caratteristica costitutiva della fortuna del mito, nel caso di Prometeo è legata anche alla mancanza di un solido e unico testo sorgente; la cangiante molteplicità del Titano lo rende una figura emblematica per analizzare i meccanismi complessi della ricezione intermediale.

The article, which aims to introduce the current monographic issue, explores the reception of the mythical figure of Prometheus from an intermedial perspective. By retracing recent methodological developments in intermedial studies and emphasizing their growing significance, the contribution highlights the prolific reception of Prometheus across different media, including literature, theatre, cinema, video games, and contemporary memes, all of which contribute to significant transformations of the myth. Instability, a defining characteristic of the myth’s reception, in the case of Prometheus is also linked to the absence of a single authoritative source text. The Titan’s multiplicity thus makes him an emblematic figure for analysing the complex mechanisms of intermedial reception.

Una didascalia in sovraimpressione nella sequenza iniziale di Oppenheimer informa lo spettatore, eventualmente ignaro di trovarsi di fronte all’ennesima metamorfosi del mito, che «Prometheus stole fire from the gods and gave it to man. For this he was chained to a rock and tortured for eternity». Il riferimento al Titano, già presente nel titolo della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin sulla quale è basata la sceneggiatura del film di Christopher Nolan (American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, 2005), rientra in una casistica verso la quale già Schelling attirava l’attenzione: «La mitologia è essenzialmente qualcosa che si muove».[1] Immunizzato dalla catastrofe del nazismo nei confronti delle ipostatizzazioni del mito, Hans Blumenberg avrebbe neutralizzato il «mito della mitologia» risolvendo quest’ultima nella storia dei suoi effetti: «L’originario rimane un’ipotesi, l’unica base per verificare la quale è la ricezione»;[2] assunto in seguito echeggiato dalla mitocritica più avvertita, che muove dall’ipotesi «d’un sens non inhérent au(x) mythe(s), mais généré en perpétuelle réinvention à partir de la situation du sujet énonciateur».[3]

Se la «mobilità diacronica e diatopica»[4] del mito in generale è ormai un dato acquisito, non lo è altrettanto, o non a sufficienza, la dimensione mediale di tale mobilità. Come ha osservato una studiosa particolarmente sensibile alla questione, «le jeu des prismes interprétatifs est parfois d’une complexité qui repose bien plus que de l’intertextualité littéraire».[5] Ovviamente non godono più di credito semplificazioni come quella che relegava il mito alla sfera dell’oralità, attribuendo alla scrittura un’implacabile funzione demitizzante; per quanto, naturalmente, si continui ad attribuire un ruolo fondamentale all’oralità nei circuiti intermediali dell’antico.[6] È però un dato di fatto che l’attenzione all’intermedialità del mito stenta ancora ad affermarsi, per quanto da questo studio potrebbero trarre beneficio non solo le ricerche sulla tradizione del classico (alle quali aggiunge alcune tessere il contributo di Guido Milanese presente in questo fascicolo), ma anche gli stessi studi di intermedialità, troppo spesso appiattiti su un ‘presentismo’ dimentico del radicamento e della profondità storica delle questioni.

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14. Colchide (vari ambienti) Interno. Esterno. Giorno Medea. Rito lunare. La luna è legata alle corna delle vacche e alla fecondità. È legata al serpente. È legata alla spirale. È legata soprattutto alle acque. Nell’insieme questo complesso “solidale” rappresenta anch’esso una unità della fecondazione e della morte. Medea sa tutto questo. E officia, ispirata e quasi fanatica, il rito.

Questo è il breve brano del trattamento del film Medea (1969) dove, a pagina 32 dell’edizione Garzanti del 1970 (curata da Giacomo Gambetti), Pier Paolo Pasolini descrive il secondo rituale che la maga della Colchide avrebbe dovuto celebrare dopo quello, di crudele cannibalismo, consacrato al dio Sole che viene mostrato nel film. Il trattamento reca il primitivo titolo del film, Visioni della Medea, appropriato ad un lungometraggio che avrebbe dovuto essere ancora più visionario di quanto non sia la versione definitiva. Infatti da questa sono scomparse numerose sequenze previste nel testo preparatorio: le ‘visioni’ orgiastiche; i sogni ‘regressivi’ di Medea che a Corinto, ormai respinta da Giasone, sogna i sacrifici umani della Colchide; la sua abitazione a Corinto invasa da animali; le apparizioni del dio Sole che ha assunto sembianze antropomorfe e in particolare quella del primitivo finale, dove avrebbe dovuto condurre con sé la maga infanticida. Sono tutte sequenze che Pasolini aveva immaginato e che ha realizzato (con l’eccezione delle orge) ma che ha tagliato dall’edizione definitiva del film, probabilmente perché alcune non lo soddisfacevano e forse anche in seguito alle richieste del produttore Franco Rossellini, presumibilmente preoccupato dall’eventualità che il film superasse le due ore di durata (la versione definitiva dura 111’).

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Dopo due volumi dedicati rispettivamente a François Truffaut e George Simenon, la collana Ricerche di Marsilio ha ospitato nel 2023 una nuova riflessione sui rapporti fra letteratura e cinema, assumendo questa volta come privilegiato punto di indagine l’opera di Max Ophuls. L’occasione per accostarsi a un autore che, come subito sottolineano i curatori Denis Brotto e Attilio Motta, «ha da sempre legato il suo nome all’attenzione letteraria» (p. 7) prende le mosse da un convegno tenutosi presso l’Università di Padova nel 2020. Solo per citare qualche esempio, capolavori come Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman, 1948) o Il piacere e l’amore (La ronde, 1950) sono notoriamente trasposizioni di celebri testi: nel primo caso, una novella di Stefan Zweig, nel secondo, un dramma teatrale di Arthur Schnitzler. Se poi si abbraccia la produzione di Ophuls nella sua interezza, il legame con la letteratura appare evidente anche in termini strettamente numerici. Ben due terzi delle sue pellicole sono infatti adattamenti di opere firmate da grandi scrittori della tradizione europea, soprattutto tedesca e francese.

Il costante dialogo con queste due letterature affonda certamente le radici nella biografia stessa del regista. Quando Maximilian Oppenheimer – tale il vero nome del cineasta – viene al mondo da una famiglia di origine ebraica agli inizi del Novecento, la natia Alsazia è una regione fortemente ambita sia dalla Germania sia dalla Francia. Multiculturalismo e cosmopolitismo saranno quindi tratti destinati a plasmare l’apprendistato del giovane artista. Senza contare, naturalmente, la drammatica condizione di esule a cui Ophuls verrà costretto, analogamente a tanti altri colleghi, dall’avvento del nazismo. Una condizione, quest’ultima, che culminerà, dopo diversi spostamenti tra Francia, Svizzera e Italia, con un soggiorno hollywoodiano dalle alterne fortune. Infine, nell’immediato dopoguerra, il ritorno in Europa segnerà l’inizio di una breve ma fecondissima stagione. Seppur interrotta dalla prematura scomparsa del regista, questa fortunata fase sarà di lì a poco ampiamente celebrata dall’innovativo approccio dei Cahiers du cinéma.

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Il campo di indagine delineato dalle scritture delle attrici si è arricchito negli ultimi anni degli apporti provenienti sia da analisi ad ampio raggio, sia da approfondimenti dedicati a specifici casi di studio. Si inserisce pienamente nel terreno critico tracciato da tali scritture, ovvero dalle ‘divagrafie’, il volume di Federica Piana Vite di carta e pellicola. La produzione autobiografica delle attrici italiane, edito nel 2023 per ETS e accolto nella collana del Forum FAScinA (Forum Annuale delle Studiose di Cinema e Audiovisivi) diretta da Lucia Cardone e Mariagrazia Fanchi.

A partire da un nutrito corpus di riferimento, costituito da testi autobiografici scritti da diverse attrici italiane, il lavoro dell’autrice mira innanzitutto a fornire una adeguata cornice teorica. L’individuazione delle chiavi di lettura attraverso le quali procedere poi a un esame delle singole produzioni si giova, infatti, nelle prime sezioni del volume, di un excursus di carattere metodologico che, da una parte, recupera alcuni snodi fondamentali di un dibattito afferente a una consolidata tradizione di studi come quella relativa al genere dell’autobiografia; dall’altra, mette a fuoco le peculiarità emerse da acquisizioni critiche recenti e più strettamente legate all’orizzonte divagrafico. La parabola disegnata dai primi capitoli della trattazione si mostra atta a precisare, quindi, una serie di presupposti fondamentali che attraversano i testi delle attrici. Aspetti cruciali delle scritture autobiografiche quali l’edificazione soggettiva del proprio io attuata mediante una rielaborazione memoriale del proprio vissuto, la complessa dialettica tra realtà e finzione che si invera in seno allo statuto paradossale dell’autobiografia – un genere letterario sospeso, com’è noto, tra un polo storico-documentario e il versante della fictio romanzesca – il ricorso agli espedienti della narrazione, figurano anche tra i fondamenti delle divagrafie e creano una base teorica attraverso la quale procedere a una più chiara comprensione delle occorrenze formali e tematiche tipiche delle produzioni delle dive.

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Nel 2023 sono usciti per Scalpendi tre volumi dedicati al rapporto tra Giovanni Papini e le arti visive a cura dello storico della critica d’arte Tommaso Casini: Scritti sull’arte e gli artisti, Giovanni Papini e il «non finito» cinematografico (co-curato da Gianluca Della Maggiore) e Giovanni Papini e il visibile parlare, nel quale sono raccolti gli atti del convegno omonimo tenutosi presso l’Università IULM di Milano nel 2022. Il contributo intende proporre una sintetica panoramica relativa a questa operazione di riscoperta della produzione critica dell’intellettuale toscano condotta attraverso il fil rouge tematico del ritratto e dell’autoritratto, figurativo e letterario, offrendo a chi legge la possibilità di entrare in relazione con una concezione singolarmente attuale dell’atto critico. 

In 2023 three volumes dedicated to the relationship between Giovanni Papini and the visual arts were published by Scalpendi, edited by the historian of art criticism Tommaso Casini: Scritti sull’arte e gli artisti, Giovanni Papini e il “non finito” cinematografico (co-edited by Gianluca Della Maggiore) and Giovanni Papini e il visible parlare, in which the proceedings of the conference held at the IULM University of Milan in 2022 are collected. The contribution intends to propose a concise overview relating to this operation of rediscovery of critical production of the Tuscan intellectual conducted through the thematic fil rouge of portrait and self-portrait, figurative and literary, offering the reader the possibility of entering into a relationship with a singularly current conception of the critical act. 

Il biografo seleziona quanto gli serve a comporre una forma

che non assomigli a nessun’altra.

M. Schwob

Lo stralcio è tratto da un racconto scritto da Giovanni Papini apparso per la prima volta su La Riviera Ligure nel marzo del 1912, Il ritratto profetico: una narrazione a metà tra il fantastico e l’autobiografico inserita all’interno della prima sezione (‘Articoli vari’) che compone il volume Sull’arte e gli artisti, edito da Scalpendi con la curatela dello storico della critica d’arte Tommaso Casini. Il libro, che segue un criterio cronologico, raccoglie una serie piuttosto eterogenea (tanto per provenienza quanto per forma) di scritti pubblicati tra il 1903 e il 1957, dedicati ai maestri del Rinascimento (Leonardo, Leon Battista Alberti, Michelangelo), ad artisti contemporanei e ad amici (Soffici, Spadini, Viani, Picasso, Dalì, etc.) ma anche a questioni estetiche di ordine generale.

Sull’arte e gli artisti vede la luce insieme ad un altro testo, Papini e il “non finito” cinematografico, edito sempre da Scalpendi e curato da Casini, stavolta in collaborazione con Gianluca della Maggiore. I due lavori sono l’esito di un più vasto progetto di riscoperta di questo complesso e trascurato intellettuale affetto da un «dongiovannismo cerebrale»[2] che non poteva esimerlo dall’interessarsi diffusamente del polimorfico universo visuale tanto del suo passato che del suo presente. Prima tappa di questo rinnovato interesse casiniano era stata l’organizzazione del convegno tenutosi nell’ottobre del 2022 presso l’Università IULM di Milano, dal titolo Il visibile parlare. Giovanni Papini e le arti visive, i cui atti vengono oggi pubblicati dalla medesima casa editrice, contribuendo ad aggiungere un ulteriore tassello utile a ri-comporre il ritratto critico di una figura quanto mai centrale per il dibattito culturale dei primi decenni del Novecento italiano.

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In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, il 28 agosto 2023, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Belpoliti, curatore del volume Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni (Mondadori 2023). Proponendo un insieme eterogeneo di testi saggistici, lo studio mette a fuoco un ampio spettro di questioni legate al rapporto tra Calvino e la visualità, e porta a maturazione un progetto che trova in un lavoro di quasi trent’anni fa – L’occhio di Calvino (Einaudi 1996; nuova edizione ampliata 2006) – il suo punto di partenza. L’incontro si muove dunque lungo l’itinerario rappresentato dagli sconfinamenti figurativi e audiovisivi del macrotesto dello scrittore, con la guida di chi per primo ha mostrato il rilievo del ‘guardare’ calviniano.

Videointervista a cura di: Alessandro Di Costa, Giancarlo Felice, Enrico Riccobene (riprese e montaggio), Maria Rizzarelli, Giovanna Santaera 

 

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Se i rapporti tra i nostri scrittori del Novecento e l’arte cinematografica, così densi, sono stati declinati soprattutto a colpi di soggetti (anche preterintenzionali) e sceneggiature per il grande schermo, le relazioni che col cinema intrattiene il centenario Calvino occupano un posto particolare – in quanto prevalentemente nutrite da recensioni, riflessi sull’immaginario privato nonché strategie narrative che risentono, volenti o nolenti (come per tutti gli autori del nostro secondo Novecento), della concorrenza della settima arte (viene subito in mente, in proposito, l’incipit del Sentiero, e dunque le prime parole in assoluto dello scrittore editato: «Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti […] giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri…»).

Si tratta di aspetti in verità già toccati e criticamente sviluppati in occasione di un ormai lontano convegno di studi (San Giovanni Valdarno, 1987) poi confluito nel relativo volume di atti L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, 1990; e più tardi anche dalla monografia di Vito Santoro, Calvino e il cinema del 2012 (in mezzo lo studio di Maria Rizzarelli, Sguardi dall’opaco: saggi su Calvino e la visibilità del 2008, che ha però un raggio d’azione più ampio, nel senso che indaga un modo di vedere e relazionarsi con le cose, da parte dello scrittore, che ha a che fare anche con la pittura e con la fotografia). Davide Maria Zazzini aggiorna dunque, in concomitanza con l’uscita di nuovi studi e documenti che riguardano l’autore (monografie, omaggi, ricordi), una bibliografia già consistente, ripercorrendo in dettaglio un rapporto a quanto pare intenso e duraturo al quale sono da ricondurre anche alcune tematizzazioni narrative (nella Speculazione, in Marcovaldo) e più d’una trasposizione intermediale (per la televisione o per il cinema). E lo fa rivelando da una parte una profonda conoscenza della storia del cinema, delle sue tecniche, dall’altra una minuta coscienza dell’opera (così vasta) calviniana.

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