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Sebbene La Montagne infidèle (1923) nasca come reportage, ci si rende subito conto che più che soddisfare il bisogno d’informazione e di istruzione previsto da questo genere di film, il lavoro di Epstein presenta una portata di valore teorico e non è un caso se di lì a qualche anno il cineasta pubblicherà il fondamentale Il cinematografo visto dall’Etna (1926). Si è qui scelto, in particolare, di strutturare in sette voci la riflessione sul paesaggio che attraversa il film e che si rivela coerente con la visione epsteiniana del rapporto tra il cinema e il mondo naturale poi espressa e sviluppata dal teorico francese negli scritti degli anni successivi. La voce ‘Paesaggio-teoria’ apre la nostra analisi ricordando come per Epstein il concetto di paesaggio conservi una matrice romantica filtrata però dal modernismo degli anni Venti e soprattutto sia connesso alla ricerca fotogenica nelle sue diverse articolazioni. Le altre voci entrano quindi nel dettaglio della fotogenia del paesaggio abbinandolo a termini tematici e formali salienti nel film e nella teoria del cinema di Epstein: ‘Paesaggio-primo piano’, ‘Paesaggio-personaggio’, ‘Personaggio-metamorfosi’, ‘Paesaggio-corpo’, ‘Paesaggio-suono’, ‘Paesaggio-storia’.

Although La Montagne infidèle (1923) was created as a reportage, one soon realises that more than satisfying the need for information and education expected of this kind of film, Epstein’s work has a theoretical value and it is no coincidence that a few years later the filmmaker would publish the seminal The Cinema Seen from Etna (1926). We have chosen here, in particular, to structure in seven headings the reflection on the landscape that runs through the film and which proves to be coherent with the Epsteinian vision of the relationship between cinema and the natural world later expressed and developed by the French theorist in his writings of the following years. The heading ‘Landscape-Theory’ opens our analysis by recalling how for Epstein the concept of landscape has its roots in Romanticism filtered however by the modernism of the 1920s and above all is connected to photogenic research in its various articulations. The other entries then go into detail about the photogénie of the landscape by matching it with thematic and formal issues in Epstein's film and film theory: ‘Landscape-close-up’, ‘Landscape-character’, ‘Landscape-metamorphosis’, ‘Landscape-body’, ‘Landscape-sound’, ‘Landscape-history’.

 

*Il testo è stato concepito congiuntamente dalle due autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Laura Vichi ha redatto le voci numero: 1. Paesaggio-teoria, 2. Paesaggio-primo piano, 6. Paesaggio-suono e 7. Paesaggio-storia. Chiara Tognolotti ha curato le voci numero: 3. Paesaggio-personaggio, 4. Paesaggio-metamorfosi e 5. Paesaggio-corpo. Un caloroso ringraziamento va alla Filmoteca de Catalunya per i fotogrammi de La Montagne infidèle (variante Pathé-KOK).

 

Per me, il luogo per pensare la più amata macchina vivente

fu quella zona di morte quasi assoluta che circondava,

a uno o due chilometri di distanza, i primi crateri.

Jean Epstein

Paesaggio-teoria [fig. 1]

Sin dai suoi primissimi film e scritti, Jean Epstein dedica un’attenzione particolare al paesaggio e al suo trattamento. Il cineasta, mutuando da Blaise Cendrars il concetto di ‘danza del paesaggio’ (Epstein [1921] 2019a, p. 236, traduzione nostra), individua in quest’ultima una soluzione eminentemente cinematografica legata a una visione modernista: il paesaggio, rilavorato dal cinema e reso fotogenico soprattutto grazie al movimento che le riprese e il montaggio gli conferiscono, provoca sensazioni fisiche e associazioni mentali che lo rendono interessante e coinvolgono lo spettatore (Branca, Busni, Vichi 2024). Nello stesso tempo, Epstein recupera la concezione romantica del paesaggio come «stato d’animo» (Epstein [1921] 2000, p. 92) e come proiezione dell’interiorità, integrandola alla visione determinata dal dispositivo cinematografico. In tal modo, l’esperienza romantica del sublime scaturita dall’esperienza dell’eruzione vulcanica diviene, grazie al cinema, un «sublime tecnologico» (Wild 2012, p. 121, traduzione nostra) che può essere visto, nell’unione delle sue componenti oggettiva e soggettiva, come una declinazione della fotogenia. A La Montagne infidèle (1923), che risponde alla richiesta di Pathé di mostrare l’Etna attraverso il cinema, Epstein sovrappone dunque la propria visione e aggiunge una dimensione teorica invertendo i termini della sua missione e firmando l’atto di nascita de Il cinematografo visto dall’Etna.

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Nel film Banditi a Orgosolo (1961), ambientato nel cuore della Sardegna, nel Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta costruisce un racconto in cui i personaggi entrano costantemente in rapporto con l’ambiente circostante creando una interazione intensa che permette l’evolversi della storia narrata. Il paesaggio è inizialmente interlocutore e benevolo compagno di viaggio dei due protagonisti, ma nella seconda parte del film diventa antagonista quando le forze dell’ambiente, secondo un concetto di Deleuze, agiscono su di loro imponendo una reazione che non sarà vincente: la natura del luogo, intesa in senso mitico, ha il sopravvento sul tentativo di sfuggire alla legge dello Stato e a quella non scritta di quel preciso mondo in cui vivono.

In the film Banditi a Orgosolo (1961), set in the heart of Sardinia, in the Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta constructs a tale in which the characters constantly enter into a relationship with their surroundings, creating an intense interaction that allows the narrated story to evolve. The landscape is initially the interlocutor and benevolent travelling companion of the two protagonists, but in the second part of the film it becomes antagonistic at the moment when the forces of the environment, according to a concept by Gilles Deleuze, act on them, imposing a reaction that will not be successful: the nature of the place, understood in a mythical sense, has the upper hand over the attempt to escape the law of the State and the unwritten law of that precise world in which they live.

Sulla vetta di Punta Sulitta i corpi di Michele e di Peppeddu, i protagonisti di Banditi a Orgosolo (1961), si stagliano sul cielo terso e grigio, spruzzato di qualche nuvoletta. Il Supramonte barbaricino è tutto intorno e sullo sfondo il massiccio calcareo del Corrasi, bianco, quasi un deserto, fa pendant con il cielo [fig. 1]. In questo paesaggio immenso è proprio lo spazio aperto, quasi un ossimoro visivo, a segnare confini insuperabili che isolano i due fratelli in una intimità austera. Il tono cinereo, con una dominante grigia dovuta in primis alla pellicola in bianco e nero che non valorizza il consueto splendore del cielo sopra la Sardegna, segna l’atmosfera che regna fra i due fratelli: pacata e allo stesso tempo amara. È uno dei rari momenti di intimità in cui il carattere burbero e schivo di Michele non condiziona il rapporto con il ragazzino. I due parlano fra loro di rapporti familiari, del padre che è morto cadendo in un precipizio molti anni prima mentre seguiva le capre, dell’inscindibile legame che unisce il lavoro con la vita quotidiana tanto da identificare l’uno nell’altra. D’altronde la vita del pastore identificata con il proprio lavoro è un filo rosso che attraversa tutto il film, il mestiere è la natura della propria vita, di padre in figlio senza possibilità di interruzione.

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Il saggio è un tentativo di rileggere in prospettiva ecocritica il cinema di Vittorio De Seta. In questa chiave, i primi documentari realizzati in Sicilia a metà degli anni Cinquanta, anticipano molte riflessioni recenti sulla cosiddetta Antropocene, attorno al rapporto fra uomo e animale, per esempio, e alla tutela dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra forme di vita differenti.

The essay is an attempt to reread Vittorio De Seta’s cinema from an ecocritical perspective. In this key, the first documentaries made in Sicily in the mid-1950s anticipate many recent reflections on the so-called Anthropocene, around the relationship between humans and animals, for example, and the protection of the environment, understood as a system of relationships between different forms of life.   

Per chiunque si occupi di documentario – da regista o da studioso – il lavoro di Vittorio De Seta rimane, ancora oggi, con ogni evidenza, un punto di riferimento imprescindibile. Nei primi corti degli anni Cinquanta, così come nei film successivi, sono presenti, infatti, già molti degli elementi con i quali il documentario contemporaneo non smette, ancora oggi, di confrontarsi: per esempio, l’idea che del reale esso possa offrire non una semplice documentazione (più o meno neutrale), ma un vero e proprio racconto, a partire dalle storie che è la vita «colta sul fatto» a suggerirci (Vertov 2011).

Prima e meglio di altri, De Seta mostra che questo tipo di narrazione, non diversamente da quelle ‘di finzione’, richiede un ampio lavoro di messa in forma, che i suoi film espongono in modo evidente. Inventando una forma nuova di racconto e rifiutando certi canoni stilistici consolidati (primo fra tutti, l’uso della voce off), De Seta rompe così con una idea di documentario (inteso come mezzo di informazione, utile alla veicolazione di un messaggio, in molti casi propagandistico) che, in Italia almeno, si era consolidata, non a caso, in epoca fascista, a partire dalla fondazione dell’Istituto Luce, e in seguito trasferitasi, senza troppi cambiamenti, nei documentari realizzati nell’immediato dopoguerra. A questo proposito si pensi ai documentari realizzati per un format di successo come «La settimana Incom» che, dopo la guerra, analogamente al passato, anticipavano la proiezione in sala dei film ‘a soggetto’ (Sainati 2001). Se si ha presente la produzione degli anni Cinquanta in Italia, si coglie, senza ombra di dubbio, l’importanza dirompente – sotto molti aspetti – dei primi lavori che De Seta gira in Sicilia, poco più che trentenne.

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Il presente contributo intende prendere in esame il cinema di Michele Gandin riflettendo sulla dinamica performativa del documentario, tra la rimessa in scena di gesti antichi, solenni, senza tempo, atta a restituire una dimensione astorica e ancestrale al rito, e l’azione pratico-politica tesa a sollecitare e promuovere una presa di coscienza, di emancipazione da parte della popolazione del Sud.

This paper aims to examine Michele Gandin's cinema by reflecting on the performative dynamic of the documentary, between reenacting ancient, solemn, timeless gestures, apt to restore an ahistorical and ancestral dimension to the ritual, and the practical-political action aimed at soliciting and promoting an awareness, emancipation on the part of the population of the South.

 

Dopo aver lavorato come assistente di Vittorio De Sica in Teresa Venerdì (1941) e, l’anno seguente, in Un garibaldino al convento (1942), Michele Gandin nel dopoguerra affianca l’attività documentaristica, concentrandosi prevalentemente sulle classi subalterne, gli emarginati, la comunità contadina e i bambini, a quella di critico cinematografico per il periodico «Cinema» (Gandin, 1950). Nel 1950, sulle pagine della rivista, il regista traccia gli elementi portanti della sua poetica, suggerendo ai lettori di cogliere il lato nascosto della realtà, prima con una macchina fotografica e in seguito con la macchina da presa, il dettaglio e tutto ciò che una visione superficiale non permette di vedere (Antichi 2023). Gandin sostiene che la fotografia sia uno strumento più adatto rispetto al cinema per effettuare una prima indagine del reale, sia perché la fotocamera è «enormemente più maneggevole e più rapida nell’uso, meno visibile», in grado di «poter agire in qualsiasi condizione di spazio e di luce», sia perché, sostituendo una realtà in movimento con una realtà immobile, «permette alla macchina da presa un lavoro di analisi – nell’interno dell’inquadratura – altrimenti impossibile. […] Senza contare che un’immagine – se fermata intelligentemente ad un momento X – ha quasi sempre una capacità rivelatrice molto maggiore della stessa immagine in movimento e permette quindi impensati approfondimenti psicologici e sociali» (Gandin, 1950, p. 153).

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L’opera documentaria di Luigi Di Gianni prende le mosse dalle ricerche dell’etnologo Ernesto De Martino e mostra un notevole interesse per le pratiche magico-religiose, ancora presenti nel Meridione tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta. Magia Lucana (1958), documentario d’esordio, presenta stilemi caratteristici della prima fase della sua produzione, quali il rigore formale delle inquadrature e l’organizzazione ‘registica’ degli eventi, le cui scene vengono rievocate dagli stessi individui che li vivono quotidianamente, quasi come un film di finzione. Il male di San Donato (1965) costituisce una svolta stilistica che segna l’apertura alle riprese ‘frontali’ degli eventi e l’utilizzo del sonoro in presa diretta. All’oggettività della disciplina etnografica, Di Gianni contrappone la poetica della soggettività come parte integrante della realtà catturata dalla macchina da presa. Il suo sguardo autoriale trascende l’impostazione storico-sociale della scuola demartiniana, proponendo una prospettiva diversa sulle pratiche magico-rituali, non più legate a necessità materiali o frutto della superstizione, bensì rifugio da un’angoscia metafisica (che ha legami con la filosofia di Heidegger), un foucaultiano strumento di tecnologia del sé contro l’inquietudine esistenziale, che sembra anticipare le conclusioni ritrovate negli scritti di De Martino, pubblicati postumi.

Luigi Di Gianni’s documentary work takes its cue from the research of ethnologist Ernesto De Martino and demonstrates a notable interest in the magical-religious practices that persisted in Southern Italy between the late 1950s and early 1970s. Magia Lucana (1958), his debut documentary, exemplifies the stylistic hallmarks of the first phase of his production, including the meticulousness of the shots and the ‘directorial’ organization of the events, which are re-enacted by the very individuals who experience them, almost like a fictional film. Il male di San Donato (1965) represents a stylistic turning point that marks the opening to the ‘frontal’ filming of events and the use of live sound. Against the objectivity of ethnographic methodology, Di Gianni counterpoints the poetics of subjectivity as an integral aspect of the reality captured by the camera. His authorial perspective transcends the social-historical approach of the Demartinian school, proposing an alternative view on magical-ritual practices. These are no longer linked to material necessity or the result of superstition. Instead, they offer a refuge from a metaphysical anguish (which has links with Heidegger's philosophy) and can also be seen as a Foucaultian instrument of self-technology against existential uneasiness. This approach seems to anticipate the conclusions found in De Martino’s posthumously published works.

All’interno della cerchia dei registi demartiniani, Luigi Di Gianni si distingue per uno sguardo sulle pratiche magico-rituali derivante da una dimensione filosofica, squisitamente esistenziale, ancor prima che estetica e documentaria. La compresenza di realtà e finzione nelle sue opere non è solo scelta stilistica e simbolica, ma diventa strumento imprescindibile per un’indagine del reale. È su questo terreno ibrido, “onirico” – per citare il suggestivo contributo di Gaudiosi (2023, pp. 39-46) – che il suo cinema percorre sentieri inesplorati, si costituisce come forza rivelatrice del rapporto tra uomo e mondo.

In questa direzione, si è scelto di analizzare alcune sequenze di Magia Lucana (1958) e Il male di San Donato (1965), entrambi incentrati su riti arcaici, episodi di possessione e fascinazione, e segnanti due fasi differenti della sua produzione. Partendo dalla potenza evocativa dei fotogrammi in bianco e nero, si cercherà di mostrare come – nonostante le importanti differenze – i documentari di Di Gianni siano entrati in dialogo con le teorie De Martino e ne abbiano superato l’impostazione storico-sociale, anticipando una concezione metafisica, esistenziale, della ritualità, che emerge negli ultimi scritti dell’etnologo napoletano.

 

1. Magia lucana

Nuvola,

nuvola scura,

ca se venut’à ffa?

Va’ via, vattinne luntano, vattinne a lu bosco.

Ristuccia, ristuccia

Vattinne da chilla parte scura, dove non canta lu gallo

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L’articolo, che ha lo scopo di introdurre l’omonimo fascicolo monografico, indaga la ricezione del mito di Prometeo, nella sua mobilità non solo diacronica e diatopica, ma anche intermediale. Nel ripercorrere le recenti acquisizioni metodologiche degli studi intermediali, e nel sottolinearne la crescente importanza, il contributo mette in luce la prolifica fortuna della figura di Prometeo attraverso diversi media, dalla letteratura e il teatro fino al cinema, i videogiochi e i meme contemporanei, che ne determinano trasformazioni sostanziali. L’instabilità, caratteristica costitutiva della fortuna del mito, nel caso di Prometeo è legata anche alla mancanza di un solido e unico testo sorgente; la cangiante molteplicità del Titano lo rende una figura emblematica per analizzare i meccanismi complessi della ricezione intermediale.

The article, which aims to introduce the current monographic issue, explores the reception of the mythical figure of Prometheus from an intermedial perspective. By retracing recent methodological developments in intermedial studies and emphasizing their growing significance, the contribution highlights the prolific reception of Prometheus across different media, including literature, theatre, cinema, video games, and contemporary memes, all of which contribute to significant transformations of the myth. Instability, a defining characteristic of the myth’s reception, in the case of Prometheus is also linked to the absence of a single authoritative source text. The Titan’s multiplicity thus makes him an emblematic figure for analysing the complex mechanisms of intermedial reception.

Una didascalia in sovraimpressione nella sequenza iniziale di Oppenheimer informa lo spettatore, eventualmente ignaro di trovarsi di fronte all’ennesima metamorfosi del mito, che «Prometheus stole fire from the gods and gave it to man. For this he was chained to a rock and tortured for eternity». Il riferimento al Titano, già presente nel titolo della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin sulla quale è basata la sceneggiatura del film di Christopher Nolan (American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, 2005), rientra in una casistica verso la quale già Schelling attirava l’attenzione: «La mitologia è essenzialmente qualcosa che si muove».[1] Immunizzato dalla catastrofe del nazismo nei confronti delle ipostatizzazioni del mito, Hans Blumenberg avrebbe neutralizzato il «mito della mitologia» risolvendo quest’ultima nella storia dei suoi effetti: «L’originario rimane un’ipotesi, l’unica base per verificare la quale è la ricezione»;[2] assunto in seguito echeggiato dalla mitocritica più avvertita, che muove dall’ipotesi «d’un sens non inhérent au(x) mythe(s), mais généré en perpétuelle réinvention à partir de la situation du sujet énonciateur».[3]

Se la «mobilità diacronica e diatopica»[4] del mito in generale è ormai un dato acquisito, non lo è altrettanto, o non a sufficienza, la dimensione mediale di tale mobilità. Come ha osservato una studiosa particolarmente sensibile alla questione, «le jeu des prismes interprétatifs est parfois d’une complexité qui repose bien plus que de l’intertextualité littéraire».[5] Ovviamente non godono più di credito semplificazioni come quella che relegava il mito alla sfera dell’oralità, attribuendo alla scrittura un’implacabile funzione demitizzante; per quanto, naturalmente, si continui ad attribuire un ruolo fondamentale all’oralità nei circuiti intermediali dell’antico.[6] È però un dato di fatto che l’attenzione all’intermedialità del mito stenta ancora ad affermarsi, per quanto da questo studio potrebbero trarre beneficio non solo le ricerche sulla tradizione del classico (alle quali aggiunge alcune tessere il contributo di Guido Milanese presente in questo fascicolo), ma anche gli stessi studi di intermedialità, troppo spesso appiattiti su un ‘presentismo’ dimentico del radicamento e della profondità storica delle questioni.

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14. Colchide (vari ambienti) Interno. Esterno. Giorno Medea. Rito lunare. La luna è legata alle corna delle vacche e alla fecondità. È legata al serpente. È legata alla spirale. È legata soprattutto alle acque. Nell’insieme questo complesso “solidale” rappresenta anch’esso una unità della fecondazione e della morte. Medea sa tutto questo. E officia, ispirata e quasi fanatica, il rito.

Questo è il breve brano del trattamento del film Medea (1969) dove, a pagina 32 dell’edizione Garzanti del 1970 (curata da Giacomo Gambetti), Pier Paolo Pasolini descrive il secondo rituale che la maga della Colchide avrebbe dovuto celebrare dopo quello, di crudele cannibalismo, consacrato al dio Sole che viene mostrato nel film. Il trattamento reca il primitivo titolo del film, Visioni della Medea, appropriato ad un lungometraggio che avrebbe dovuto essere ancora più visionario di quanto non sia la versione definitiva. Infatti da questa sono scomparse numerose sequenze previste nel testo preparatorio: le ‘visioni’ orgiastiche; i sogni ‘regressivi’ di Medea che a Corinto, ormai respinta da Giasone, sogna i sacrifici umani della Colchide; la sua abitazione a Corinto invasa da animali; le apparizioni del dio Sole che ha assunto sembianze antropomorfe e in particolare quella del primitivo finale, dove avrebbe dovuto condurre con sé la maga infanticida. Sono tutte sequenze che Pasolini aveva immaginato e che ha realizzato (con l’eccezione delle orge) ma che ha tagliato dall’edizione definitiva del film, probabilmente perché alcune non lo soddisfacevano e forse anche in seguito alle richieste del produttore Franco Rossellini, presumibilmente preoccupato dall’eventualità che il film superasse le due ore di durata (la versione definitiva dura 111’).

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Dopo due volumi dedicati rispettivamente a François Truffaut e George Simenon, la collana Ricerche di Marsilio ha ospitato nel 2023 una nuova riflessione sui rapporti fra letteratura e cinema, assumendo questa volta come privilegiato punto di indagine l’opera di Max Ophuls. L’occasione per accostarsi a un autore che, come subito sottolineano i curatori Denis Brotto e Attilio Motta, «ha da sempre legato il suo nome all’attenzione letteraria» (p. 7) prende le mosse da un convegno tenutosi presso l’Università di Padova nel 2020. Solo per citare qualche esempio, capolavori come Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman, 1948) o Il piacere e l’amore (La ronde, 1950) sono notoriamente trasposizioni di celebri testi: nel primo caso, una novella di Stefan Zweig, nel secondo, un dramma teatrale di Arthur Schnitzler. Se poi si abbraccia la produzione di Ophuls nella sua interezza, il legame con la letteratura appare evidente anche in termini strettamente numerici. Ben due terzi delle sue pellicole sono infatti adattamenti di opere firmate da grandi scrittori della tradizione europea, soprattutto tedesca e francese.

Il costante dialogo con queste due letterature affonda certamente le radici nella biografia stessa del regista. Quando Maximilian Oppenheimer – tale il vero nome del cineasta – viene al mondo da una famiglia di origine ebraica agli inizi del Novecento, la natia Alsazia è una regione fortemente ambita sia dalla Germania sia dalla Francia. Multiculturalismo e cosmopolitismo saranno quindi tratti destinati a plasmare l’apprendistato del giovane artista. Senza contare, naturalmente, la drammatica condizione di esule a cui Ophuls verrà costretto, analogamente a tanti altri colleghi, dall’avvento del nazismo. Una condizione, quest’ultima, che culminerà, dopo diversi spostamenti tra Francia, Svizzera e Italia, con un soggiorno hollywoodiano dalle alterne fortune. Infine, nell’immediato dopoguerra, il ritorno in Europa segnerà l’inizio di una breve ma fecondissima stagione. Seppur interrotta dalla prematura scomparsa del regista, questa fortunata fase sarà di lì a poco ampiamente celebrata dall’innovativo approccio dei Cahiers du cinéma.

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Il campo di indagine delineato dalle scritture delle attrici si è arricchito negli ultimi anni degli apporti provenienti sia da analisi ad ampio raggio, sia da approfondimenti dedicati a specifici casi di studio. Si inserisce pienamente nel terreno critico tracciato da tali scritture, ovvero dalle ‘divagrafie’, il volume di Federica Piana Vite di carta e pellicola. La produzione autobiografica delle attrici italiane, edito nel 2023 per ETS e accolto nella collana del Forum FAScinA (Forum Annuale delle Studiose di Cinema e Audiovisivi) diretta da Lucia Cardone e Mariagrazia Fanchi.

A partire da un nutrito corpus di riferimento, costituito da testi autobiografici scritti da diverse attrici italiane, il lavoro dell’autrice mira innanzitutto a fornire una adeguata cornice teorica. L’individuazione delle chiavi di lettura attraverso le quali procedere poi a un esame delle singole produzioni si giova, infatti, nelle prime sezioni del volume, di un excursus di carattere metodologico che, da una parte, recupera alcuni snodi fondamentali di un dibattito afferente a una consolidata tradizione di studi come quella relativa al genere dell’autobiografia; dall’altra, mette a fuoco le peculiarità emerse da acquisizioni critiche recenti e più strettamente legate all’orizzonte divagrafico. La parabola disegnata dai primi capitoli della trattazione si mostra atta a precisare, quindi, una serie di presupposti fondamentali che attraversano i testi delle attrici. Aspetti cruciali delle scritture autobiografiche quali l’edificazione soggettiva del proprio io attuata mediante una rielaborazione memoriale del proprio vissuto, la complessa dialettica tra realtà e finzione che si invera in seno allo statuto paradossale dell’autobiografia – un genere letterario sospeso, com’è noto, tra un polo storico-documentario e il versante della fictio romanzesca – il ricorso agli espedienti della narrazione, figurano anche tra i fondamenti delle divagrafie e creano una base teorica attraverso la quale procedere a una più chiara comprensione delle occorrenze formali e tematiche tipiche delle produzioni delle dive.

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