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Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale. 

On 2 April 2025, Sonia Bergamasco held a masterclass for the Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere at the Università di Pisa, as part of the courses in Storia del Teatro e dello spettacolo and Storia del cinema italiano. The focus of the meeting was the film Duse – The Greatest, directed by Bergamasco in 2024, one hundred years after the death of the diva, included in the programme of the Arsenale film club.

 

Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale.

Sonia Bergamasco, attrice e regista, ha una formazione artistica poliedrica: diplomata in pianoforte al Conservatorio di Milano e in recitazione alla Scuola del Piccolo Teatro, ha esordito in Arlecchino servitore di due padroni diretto da Giorgio Strehler nel 1990, per poi collaborare con Carmelo Bene, Theodoros Terzopoulos, Massimo Castri, Antonio Latella, Thomas Ostermeier e Jan Fabre. Ha diretto spettacoli in cui musica e recitazione si fondono, tra i quali Il Ballo (dal romanzo breve di Irène Némirovsky) e L’uomo seme (riscrittura da Violette Ailhaud), realizzati in collaborazione con il Teatro Franco Parenti. Nel 2017, al Piccolo di Milano, ha diretto Louise e Renée, ispirato a Balzac e con drammaturgia di Stefano Massini. Nel 2022 ha interpretato Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella, ruolo che le è valso numerosi premi (Ubu, Le Maschere del Teatro Italiano e Hystrio).

Sul grande schermo ha esordito nel 1994 con il cortometraggio Miracoli di Mario Martone. Alcuni dei film che hanno reso nota l’interprete al pubblico sono L’amore probabilmente (2001) e La meglio gioventù (2003), che le è valso il Nastro d’Argento come Miglior Attrice. Ha lavorato poi con Liliana Cavani, Gennaro Nunziante, Marco Tullio Giordana, Bernardo Bertolucci, Roberta Torre, Riccardo Milani, solo per citare alcuni dei registi e delle registe più frequentate.

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Presentazione dello speciale dedicato al centenario della scomparsa di Eleonora Duse esito della Giornata di studi DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (a cura di Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) svoltasi il 4 dicembre 2024 all’Università di Pisa. Entrambi gli studi, qui proposti, presentano un’indagine su aspetti meno indagati dalla critica in merito al gesto recitativo di Duse o al gesto ‘immaginato’ per Duse. Sempre nel contesto di tali celebrazioni quale occasione di approfondimento e ripensamento del magistero dusiano, il 2 aprile 2025, all’Università di Pisa, le docenti Chiara Tognolotti ed Eva Marinai hanno incontrato l’attrice e regista Sonia Bergamasco alla presenza delle/gli studenti triennali e magistrali dei corsi di storia del cinema e storia del teatro per parlare del film Duse The Greatest.

Presentation of the special issue dedicated to the centenary of Eleonora Duse's death, the result of the study day DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (curated by Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) held on 4 December 2024 at the University of Pisa. Both studies presented here investigate aspects of Duse's acting style or the 'imagined' style attributed to her that have been less explored by critics. Again in the context of these celebrations as an opportunity to explore and rethink Duse's heritage, on 2 April 2025, at the University of Pisa, Chiara Tognolotti and Eva Marinai met with actress and director Sonia Bergamasco in the presence of undergraduate and postgraduate students of film history and theatre history to discuss the film Duse The Greatest.

I contributi che qui presentiamo rientrano nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della scomparsa di Eleonora Duse. Numerosi sono stati gli eventi nazionali e internazionali dedicati alla grande attrice nell’anno appena trascorso. Tra questi anche la Giornata di studi DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (a cura di Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) svoltasi il 4 dicembre 2024 all’Università di Pisa, cui hanno partecipato docenti, ricercatrici e studiose impegnate nelle attività didattiche del Dottorato di Ricerca interuniversitario Pegaso in Storia delle Arti e dello Spettacolo delle Università di Firenze-Pisa-Siena.1

I saggi di Eva Marinai (La danza mancata di Eros e Thanatos. Hofmannsthal, Duse e Craig per Elektra) e Aline Nari (Corporeità danzanti e coreografie d’attrice: Eleonora Duse e la danza) rielaborano, ampliandole, le comunicazioni presentate nella Giornata di studi suddetta. Aline Nari, in particolare, sta per pubblicare un saggio dal titolo Un “cantone” tutto per sé: libri e femminismo spirituale di Eleonora Duse, che riflette in modo più approfondito sulla partecipazione della divina al fermento della danza di inizio Novecento e alle istanze emancipazioniste che esso traduce, già argomento dell’articolo di cui sopra. Entrambi gli studi, qui proposti, presentano un’indagine su aspetti meno indagati dalla critica in merito al gesto recitativo di Duse o al gesto ‘immaginato’ per Duse (in riferimento alla mancata realizzazione dell’Elektra pensata per lei).

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Oggetto di ammirazione da parte degli spettatori coevi, obiettivo di studio e imitazione per le giovani attrici del suo tempo, tensione inesausta per i fotografi che hanno cercato di immortalare, il gesto della Duse, al pari della sua voce, ha certamente attirato l’attenzione della critica che a questo riguardo ha sottolineato la consapevolezza dell’attrice riguardo all’aspetto comunicativo della postura e dell’azione corporea.  Per quanto riguarda i rapporti tra Duse e la nuova danza, che si afferma in Europa tra XIX e XX secolo, essi sono rintracciabili nei personaggi che d’Annunzio immagina per lei, nell’amicizia con Isadora Duncan, ma anche in occasioni mancate che riguardano il suo lavoro di attrice: il ballo di Nora in Casa di bambola o la danza immaginata per lei da Hofmannsthal nell’Elektra.  Oltre a questi aspetti, l’analisi di alcune sequenze del film Cenere, suggerisce l’ipotesi di poter valutare quale influenza abbia avuto la nuova danza nella capacità di Duse di affidare al corpo la propria grafia emotiva. Dovendo consegnare la propria arte a una pellicola priva di sonoro, Duse affronterà infatti una preparazione fisica inedita il cui risultato è non solo straordinariamente espressivo dal punto di vista attoriale, ma in alcune sequenze il controllo della dinamica, la cura della postura e dell’intensità dell’azione ci inducono a leggere il suo movimento come danza, una danza presaga che contiene le anticipazioni del futuro.

Object of admiration for contemporary spectators, target of study and imitation for younger actresses of her time, inexhaustible tension for photographers who tried to immortalize it, Duse's gesture has certainly attracted the attention of critics who have underlined the actress's awareness of the communicative aspect of posture and bodily action. As regards the relationship between Duse and the new dance, which was established in Europe between the 19th and 20th centuries, they can be traced inside d'Annunzio’s dramaturgy, in her friendship with Isadora Duncan, but also in missed opportunities regarding her work as an actress: Nora's dance in Doll's House or the dance imagined for her by Hofmannsthal in Elektra. In addition to these aspects, the analysis of some sequences of the film Cenere (Ashes), suggests the hypothesis of evaluating the influence of new dance on Duse's physical writing. In delivering her art to a silent film, Duse will in fact face an unprecedented physical preparation whose result is not only extraordinarily expressive from the acting point of view, but in some sequences the control of dynamics, the care of posture and the intensity of the action lead us to read that movement as a dance, a presaging dance that contains the anticipations of the future.

I testimoni e la letteratura critica hanno provato a indagare il mistero della seduzione che Eleonora Duse esercitava sul pubblico anche grazie al movimento espressivo di tutta la sua persona: un movimento che, come quello di una danzatrice, irradiava da un centro – coincidente con il motore psichico del personaggio – per propagarsi con intensità fino alla periferia delle mani, coinvolgendo la perdita di equilibrio, l’inciampo, il cambiamento repentino di direzione.[1] Nelle varie fasi della propria evoluzione artistica, Duse esprime sulla scena un movimento corporeo molto diversificato, in cui la sensualità del felino si alternava all’agitazione nervile dell’isterica, il gesto automatico si declinava nella posa ieratica della vestale. La consapevolezza di Duse riguardo il linguaggio corporeo ci suggerisce quindi di riconoscere come danza alcuni suoi ‘stati’ di presenza o sequenze gestuali e di immaginarla danzare quando i personaggi interpretati lo richiedevano. Tuttavia, sebbene l’integrazione tra materiali fotografici, recensioni e testimonianze, riveli come il corpo scenico di Duse sia attraversato dai fermenti della danza del suo tempo,[2] le danze di Eleonora Duse sono danze mancanti, mancate o addirittura presunte e presaghe, sottotraccia al lavoro d’attrice e anticipazioni del futuro, come avrò modo di chiarire. Dunque, per quanto indiziario, il discorso su Eleonora Duse e la danza ci sembra contribuire da un lato alla trasversalità degli studi che la riguardano, dall’altro sottolineare l’attualità del suo ruolo di intellettuale, attenta anche all’evoluzione delle corporeità danzanti del suo tempo.

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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L’articolo analizza un corpus di opere documentarie sul Sud Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta – Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi – in cui è data centralità al lavoro femminile in relazione all’ambiente e alle sue risorse naturali e umane. Le opere restituiscono, attraverso similitudini e differenze di approcci estetici, un comune intento di elaborazione della drammaturgia documentaria in ottica narrativa che mette in luce ritualità e forme di agency reciproca tra società femminile e paesaggio.

The article examines a corpus of documentary works on Southern Italy between the 1950s and 1960s - Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), the episode Braccianti del Sud of the investigation La donna che lavora (Ugo Zatterin and Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) and Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicated to Calabrian olive pickers - in which the centrality is given to women's work in relation to the environment and between natural and human resources. The films reveal, through similarities and differences in aesthetic approaches, a common intent of elaborating documentary dramaturgy from a narrative perspective that highlights rituals and forms of mutual agency between female society and the landscape.

 

 

La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.

La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza intima, ma non per questo priva di una sua venatura politica.

La paesologia non è la paesanologia, non è idolatria della cultura locale.

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

 

 

 

 

1. Drammaturgie meridiane del lavoro femminile

Franco Cassano, nel celebre studio sul paesaggio meridiano (2003), ha messo in luce l’importanza di considerare il Sud prima di tutto come un «soggetto del pensiero» autonomo e centrale (p. 3). Basterebbe questo indirizzo per comprendere tanto cinema documentario che fra il 1948 e il 1968 ha tentato di valorizzare alcune figure umane che hanno animato quel mondo. Questa prospettiva, che il sociologo spinge verso la necessità di evitare l’«anomia generalizzata» (p. 5), sembra riassumere l’impegno di un corpus di opere con al centro l’immagine della vita delle donne lavoratrici di alcuni paesi del Meridione fra gli anni Cinquanta e Sessanta: Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi.

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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In che modo il cinema di famiglia contribuisce ad amplificare un immaginario? Se la fotografia ha già documentato le mutate abitudini degli italiani (le relazioni nello spazio pubblico e in quello privato, i riti di passaggio, i momenti di aggregazione identitaria e comunitaria, etc.) ecco che i rituali dell’autorappresentazione sociale, ripresi dall’occhio del cinema amatoriale acquisiscono uno statuto di viva testimonianza e di traccia. L’intervento intende produrre degli esempi in tal senso attraverso un excursus nel cinema di famiglia rivolto al paesaggio del meridione, così come rappresentato all’interno dei fondi di cinema di famiglia dell’Archivio Nazionale dei Film di Famiglia di Bologna.

How does family cinema contribute to amplifying an imaginary? If photography has already documented the changing habits of Italians (relationships in public and private spaces, rites of passage, moments of identity and community gathering, etc.), the rituals of social self-representation captured by the eye of amateur cinema gain the status of living testimony and trace. This essay aims to provide examples in this regard through an excursus into family cinema focused on the landscapes of the South of Italy, as represented within the family cinema collections of the National Family Film Archive in Bologna.

Sono vari gli studi che negli ultimi decenni hanno tentato di definire una specificità dei film di famiglia (Aasman 1995; Odin 2001; Simoni 2007; Sangiovanni 2013; Simoni 2013; Cati 2013), nella cornice del tema che ci si prefigge qui di esplorare, ovvero come questo genere filmico possa contribuire a definire un immaginario del Sud Italia. Ci sono tre aspetti preliminari da sottolineare.

I film di famiglia esistono in copia unica realizzati, cioè, con pellicole invertibili che non necessitano la stampa di copie, pertanto si portano dietro un velo di irripetibilità, un’aura, argomento su cui Paolo Caneppele insiste molto nel suo libro Sguardi privati

Il secondo tratto proprio dei film di famiglia è quello della ‘traccia’ che Caneppele prende in prestito ancora una volta dalle parole di Benjamin: «La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza, per quanto possa essere vicino ciò che essa suscita. Nella traccia noi facciamo nostra la cosa; nell’aura essa si impadronisce di noi» (Benjamin 2000, p. 53). Aura e traccia concorrono a far sì che, mentre rivediamo un Home Movies, il passato ritorni presente evocato dal rituale della fruizione: nonostante quell’epoca non ci appartenga più veniamo chiamati a interagirvi. Tra passato e presente si forma un chiasma, un campo di forze attrattive, lo spazio compreso (o compresso) tra due epoche, tra l’allora e l’ora, che torna a sciogliersi e vibrare, rivelandosi. In che rapporto è preso il racconto del Sud Italia in questa tensione tra differenti temporalità? Come con il cinema di famiglia si plasma, si amplia, si spezza? È un confronto pacifico, conflittuale, apre nuovi orizzonti di ricerca?

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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A partire dalle sperimentazioni subacquee della Panaria Film, obiettivo di questa indagine è quello di provare a riflettere sulla ‘non-indifferenza’ degli elementi naturali, ovvero sulla possibilità che possa essere tracciata una reciprocità tra forma del territorio – la sua con-formazione ‘elementare’ – e la materialità dell’immagini cinematografiche. Seguendo i lavori dei ‘ragazzi della Panaria’ – in particolare Cacciatori Sottomarini (1946) e Tonnare (1947) – e del cine-occhio ‘anfibio’ realizzato da Francesco Alliata Principe dei Villafranca, l’analisi interroga le modalità attraverso cui l’elemento acquatico possa essere considerato tanto elemento identitario quanto elemento formale, ossia in grado di dare forma ad un preciso sguardo cinematografico.

Starting from the underwater experiments of Panaria Film, the aim of this research is to reflect on the ‘non-indifference’ of the natural elements, i.e. the possibility of establishing a reciprocity between the form of the territory  ̶ its ‘elemental’ conformation  ̶ and the materiality of cinematic images. Following the works of the ‘Panaria boys’  ̶  in particular Cacciatori Sottomarini (1946) and Tonnara (1947) - and the ‘amphibious’ cinematic eye created by Francesco Alliata, Prince of Villafranca, the analysis explores how the aquatic element can be considered both as an element of identity and as a formal element capable of shaping a specific cinematic gaze.

 

Una volta a Messina c’era una madre che aveva

un figlio a nome Cola che se ne stava a bagno

nel mare mattina e sera.

La madre a chiamarlo dalla riva: «Cola! Cola!

Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?»

E lui a nuotare sempre più lontano.

Italo Calvino, Cola Pesce

 

 

 

 

Sul soffitto a volta del Teatro di Messina Vittorio Emanuele II è raffigurata una scena tratta dalla leggenda di Cola Pesce (o Colapesce), il giovane ragazzo ‘mezzo uomo e mezzo pesce’ che venne mandato dal Re a vedere cosa si nascondeva lì dove il mare era più profondo. Dopo aver nuotato attorno alla Sicilia, Cola disse al Re che Messina poggiava su tre colonne, una delle quali, erosa dal fuoco dell’Etna, era in procinto di cedere. Diverse sono le versioni della leggenda, ma tutte hanno un tragico epilogo: Colapesce si immerge un’ultima volta – per recuperare la corona del Re o, nella versione più celebre, per sorreggere la colonna che sta per cedere sotto il peso della città – e non fa più ritorno in superficie.

Commissionato nel 1985 dall’allora consulente del teatro Gioacchino Lanza Tomasi, il maestoso affresco è una delle ultime – nonché più grandi – opere realizzate da Renato Guttuso, e mostra il giovane Cola, attorniato dalle sirene, ritratto nell’attimo che precede la sua immersione nelle acque dello Stretto, a rappresentare il rapporto simbiotico che intercorre tra la Sicilia e il suo mare.

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Numerosi documentaristi del secondo dopoguerra hanno raccontato l’antica pratica della pesca nel Sud Italia. Partendo dai capolavori di Vittorio De Seta girati nelle acque siciliane, questo contributo si sofferma su alcuni esempi che mostrano la crescente attenzione che in quegli anni era rivolta verso il mondo marino e verso la sfida estetica che esso costituiva per la macchina da presa.  

Il nostro corpo scopre un mondo quando accetta di affidarsi senza paura al moto della risacca, quando contemplando il cielo stesi sul mare immergiamo le orecchie nel suo ventre sonoro, accettando di appartenergli con fiducia filiale. In questo esercizio, nella confidenza con la grammatica dell’acqua c’è un’antica saggezza, il suggerimento della possibilità di un altro tempo. Senza l’infinito del mare si va a fondo, risucchiati dal vortice del nostro antropomorfismo (Cassano 2003, p. 17).

Queste parole di Franco Cassano dedicate al pensiero meridiano, un pensiero nato nel Mediterraneo «che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare» (Cassano 2003, p. 5), potrebbero funzionare come perfetto decalogo per un cinema documentario che volesse misurarsi, come ha più volte fatto nel corso del secondo dopoguerra, con il racconto della pesca sopra e sotto la superficie marina. Un invito alla comunione con l’elemento acquatico che negli anni Cinquanta, in una filmografia sterminata che si è occupata della pesca e della cultura del mare (Blasco 1990), si può ritrovare specialmente nei cortometraggi di Vittorio De Seta sui pescatori siciliani.

Fin dal suo esordio con Lu tempu di li pisci spata (1954), e poi nei successivi Isole di fuoco (1954), Contadini del mare (1955) e Pescherecci (1958), De Seta racconta la difficile vita sul mare e una pratica ancestrale come la pesca attraverso la contemplazione e l’ascolto della natura con i suoi ritmi arcaici. Il rischio dell’antropomorfismo paventato da Cassano è aggirato da film che informano senza progettare, e che collocano i soggetti nell’invariabile ciclo dei rapporti con la natura (Bertozzi 2014, p. 157). De Seta sviluppa infatti il racconto attorno a un tempo non umano che scandisce l’esistenza dei pescatori, rispettosi conoscitori della ‘grammatica dell’acqua’; un tempo che è contemporaneamente quello del pesce spada e quello del cinema (sul rapporto tra umano e non umano in De Seta cfr. Alcantara 2023). Lu tempu di li pisci spata è articolato nelle tre fasi dell’attesa, della caccia e del ballo serale, ed è segnato da un crescendo del montaggio che si fa sempre più rapido, a partire dall’avvistamento della preda che spezza la stasi dei rematori fino alla cattura e alle note delle canzoni popolari che rallegrano il termine di una giornata di fatiche [fig. 1]. Una partizione che ritorna in Isole di fuoco, cortometraggio girato a Stromboli dove è l’attesa dell’eruzione a catalizzare l’attenzione e le speranze della comunità marinara.

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L’articolo esplora il ruolo del fuoco come elemento visivo fondamentale per la costruzione di una mitologia dello sviluppo industriale nella cultura visuale dell’Italia del ‘miracolo economico’. Attraverso le sue diverse rappresentazioni si configura infatti un’immagine stabile che sintetizza l’idea di progresso del tempo: la ciminiera che svetta contro il cielo azzurro con una fiamma alla sua sommità, che diventa una vera e propria icona di questo periodo. Partendo dai lavori della Panaria Film realizzati nell’immediato secondo dopoguerra, dove il fuoco è incluso dentro un tempo arcaico e mitico prima di Prometeo, il saggio affronta le trasformazioni di questa icona in alcuni casi di studio esemplari che riguardano sia il nord sia il sud Italia, per analizzare infine alcuni esempi che propongono invece una lettura critica del mito del progresso industriale attraverso un lavoro di decostruzione iconografica del fuoco. Con questo percorso il saggio intende mostrare la rilevanza di una prospettiva elementale per sviluppare un’analisi storico-culturale nella cornice della nuova teoria dei media. 

This paper explores the role of fire as a fundamental visual element for the construction of a mythology of industrial development in the Italian visual culture of the ‘economic miracle’. In fact, through its different representations a stable image is configured that summarizes the idea of progress of the time: the chimney standing out against the blue sky with a red flame at its top, which becomes an icon of this period. Starting from the works of Panaria Film produced immediately after the Second World War, where fire is included in an archaic and mythical time before Prometheus, the essay addresses the transformations of this icon in some exemplary case studies that concern both Northern and Southern Italy, to finally analyse some examples that propose a critical reading of the myth of industrial progress through the iconographic deconstruction of fire. Through these stages, the essay aims to show the relevance of an elemental perspective to develop a historical-cultural analysis in the framework of the new media theory.

3.3. Il mito del fuoco. Media elementali e modernizzazione italiana

di Giacomo Tagliani

Immersa in un paesaggio fuori dal tempo, una ragazza si incammina sulla battigia con un pentolino di coccio e un paio d’uova. Inginocchiatasi in riva al mare, appoggia il tegame sulla sabbia tra i fumi sulfurei che sgorgano dal sottosuolo per cucinarsi un pranzo frugale [fig. 1]. Una languida melodia d’archi lascia improvvisamente il posto all’allegro fraseggio di un flauto suonato da un giovane pastore che ha abbandonato il gregge attratto dalla ragazza. La voce fuori campo, piuttosto parsimoniosa nel concedersi, commenta ora compiaciuta: «Sulla petraia che ribolle e si scuote ardente, terra impastata di fuoco, tra le gialle rovine di montagne esplose, nascono fauneschi amori. È un mondo umano e mitico assieme». La scena è un momento cruciale di Isole di cenere (1947), uno dei cortometraggi prodotti dalla Panaria Film del Principe Francesco Alliata di Villafranca che ritraggono le Isole Eolie nell’immediato secondo dopoguerra: dopo aver mostrato le difficili – ma tutto sommato felici – condizioni sull’isola di Vulcano, questo amore pronto a sbocciare è infatti interrotto dal risveglio dello Stromboli, «furibonda e fiammeggiante montagna», che ricorda come la vita, in questo lembo del Tirreno, sia sempre contigua alla morte.

I film della Panaria non sono certo un caso isolato nel panorama documentaristico italiano per quanto riguarda il racconto di un’Italia dove l’arcaicità sopravvive a fianco del desiderio di modernità, ma qui il richiamo alla dimensione mitologica – anche in termini ironici e caricaturali – ha un peso decisivo nel rappresentare un mondo originario nel cuore del Ventesimo Secolo, anche perché è la Sicilia stessa a riattivare il «tempo divino» dei propri vulcani «nel pieno dell’epoca contemporanea» (Di Girolamo, Rimini 2023, p. 89). Effettivamente, la realtà di cui fa esperienza l’anonima protagonista della storia si riduce a pochi tratti essenziali, il padre, l’umile casa, un solo possibile amore, sino alla scena descritta inizialmente, nella quale il mondo si riduce ai quattro elementi fondamentali: acqua, terra, aria, fuoco. Un fuoco, però, non ancora addomesticato, espressione di una condizione pre-prometeica che la nuova epica della nascente modernità industriale stava per spazzare via, mostrando come sia proprio la sottomissione della materia al volere umano a costituire uno degli aspetti fondamentali di quell’ingente coacervo di trasformazioni sociali e culturali meglio conosciuto come ‘Miracolo economico’ (Palmieri 2019, pp. 120-123). Di fatto, una nuova origine dell’umanità, pienamente conforme alla retorica dello sviluppo, che necessita di mitologie adeguate per poter essere inquadrata dentro schemi di senso comprensibili e condivisi.

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Il cinema di Michelangelo Antonioni è pieno di indagini fallimentari votate alla scomposizione: interminabili e inconcludenti esercizi di blow-up finalizzati all’affermazione del cosiddetto ‘mistero dell’immagine’. E se fosse possibile applicare il blow-up ai paesaggi dei suoi film allo scopo di ridurli allo stato elementare (acqua, aria, terra, fuoco)? Quale elemento risulterebbe predominante? E, soprattutto, in che modo lo sguardo del regista-scrittore-pittore si rapporta al fuoco e, in particolare, al vulcano come ultimo enigma simbolico della dimensione meridiana? Dalle isole vulcaniche di L’avventura alle montagne incantate, passando per i numerosi deserti (realistici, emozionali, metropolitani, industriali) del suo cinema – L’eclisse (1962), Il deserto rosso (1964), Zabriskie Point (1970), Professione: reporter (1974) –, l’obiettivo è quello di rintracciare i segni del fuoco e le loro più significative manifestazioni.

 

 

Questa idea si colloca in un posto imprecisato. Qualsiasi riferimento con la realtà è casuale.

Michelangelo Antonioni

 

Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani…

Giulia (Dominique Blanchar), L’avventura (M. Antonioni, 1960)

 

Nel 1966 Michelangelo Antonioni gira Blow-Up, il film che traduce più fedelmente i termini del suo scetticismo nei confronti della realtà. Oltre a comprovare l’irrilevanza narrativa della detection (come topos emblematicamente atopico), l’indagine fallimentare del fotografo protagonista raddoppia a livello del contenuto l’ossessione formale nutrita dell’autore per il cosiddetto ‘mistero dell’immagine’:

 

 

Quello che vi propongo in questa scheda non è altro che un innocente esperimento critico di blow-up, messo in atto nel tentativo di scomporre una porzione di paesaggio rappresentato nel cinema antonioniano fino a ridurlo alla sua dimensione elementare. Qual è l’elemento, in assoluto, più presente?

Essendo il suo sguardo registico contaminato da potentissime infestazioni memoriali, una risposta plausibile potrebbe riguardare la natura selvaggia del Delta (felicemente eternata nel finale di Gente del Po, 1963-67, prim’ancora di diventare prerogativa neorealista per Visconti e Rossellini): le acque del fiume e del mare, fuse in un aggiogante enigma materico, che include anche lo strato uniforme, setoso, del cielo e quello screziato della sabbia [fig. 1]. Acqua, aria e terra, dunque, come elementi riconvocati negli anni da Antonioni in una combinatoria visionaria di climatescapes, tendenzialmente, autunnali, freddi e nebbiosi (Nowell-Smith 2015) – ben poco meridiani, come testimoniano le immagini tratte da film quali Cronaca di un amore (1950), La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), La notte (1961), Identificazione di una donna (1982), Al di là delle nuvole (1995).

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