Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale.
Sonia Bergamasco, attrice e regista, ha una formazione artistica poliedrica: diplomata in pianoforte al Conservatorio di Milano e in recitazione alla Scuola del Piccolo Teatro, ha esordito in Arlecchino servitore di due padroni diretto da Giorgio Strehler nel 1990, per poi collaborare con Carmelo Bene, Theodoros Terzopoulos, Massimo Castri, Antonio Latella, Thomas Ostermeier e Jan Fabre. Ha diretto spettacoli in cui musica e recitazione si fondono, tra i quali Il Ballo (dal romanzo breve di Irène Némirovsky) e L’uomo seme (riscrittura da Violette Ailhaud), realizzati in collaborazione con il Teatro Franco Parenti. Nel 2017, al Piccolo di Milano, ha diretto Louise e Renée, ispirato a Balzac e con drammaturgia di Stefano Massini. Nel 2022 ha interpretato Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella, ruolo che le è valso numerosi premi (Ubu, Le Maschere del Teatro Italiano e Hystrio).
Sul grande schermo ha esordito nel 1994 con il cortometraggio Miracoli di Mario Martone. Alcuni dei film che hanno reso nota l’interprete al pubblico sono L’amore probabilmente (2001) e La meglio gioventù (2003), che le è valso il Nastro d’Argento come Miglior Attrice. Ha lavorato poi con Liliana Cavani, Gennaro Nunziante, Marco Tullio Giordana, Bernardo Bertolucci, Roberta Torre, Riccardo Milani, solo per citare alcuni dei registi e delle registe più frequentate.
Tra i riconoscimenti a lei tributati il Premio Duse, il Premio Flaiano, il Premio Alida Valli, il Ciak d’oro, oltre a candidature ai David di Donatello. Nel 2024 ha ricevuto il Premio Gian Maria Volontè per l’eccellenza artistica. Sempre nel 2024 è protagonista del film La vita accanto di Marco Tullio Giordana (premio Miglior Attrice alla Mostra del Cinema Mediterraneo di Valencia).
In televisione è conosciuta dal grande pubblico per l’interpretazione di Livia nel Commissario Montalbano, ma anche per ruoli da protagonista in fiction quali Tutti pazzi per amore e Una grande famiglia. A marzo 2025 è uscito il film Il Nibbio in cui Bergamasco interpreta Giuliana Sgrena.
Autrice oltre che attrice, Bergamasco ha pubblicato la raccolta di poesie Il quaderno (La nave di Teseo, 2022) e Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice (Einaudi, 2023).
Duse, the Greatest è il suo primo film–documentario, che segna un ulteriore passo avanti nella sua carriera di regista cinematografica. Al film–documentario, prodotto da Propaganda Italia, Quoiat Films, Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Cinema, candidato al David di Donatello, è stato conferito nel 2025 il Nastro d’Argento speciale come Miglior Opera Prima.
Duse, The Greatest è un’indagine su una delle attrici più amate da Sonia Bergamasco e dal mondo intero; un viaggio alla ricerca di quel misterioso quid che ha reso Eleonora Duse la matrice della recitazione moderna pur senza che ella abbia lasciato testimonianze audiovisive che potessero fare scuola e raccontarci la sua voce, il suo stile. Questa carenza di fonti visive ha costretto l’attrice e regista del film a utilizzare come anima del documentario le fotografie e le lettere (ampia è la corrispondenza di cui gli archivi Duse dispongono). Queste ultime, lette in voice over, fanno da sfondo narrativo ai ritagli e alle immagini del suo unico film muto, Cenere, del 1916, insieme a immagini del suo funerale. Alle testimonianze d’epoca si intrecciano poi le riprese della vita di oggi, dei luoghi amati e frequentati da Duse e ripercorsi da Bergamasco. In questa narrazione, Eleonora Duse appare allo stesso tempo presente e sfuggente, avvolta da un’aura che le restituisce una dimensione mitica, iconica, divistica, di quel divismo però anticonvenzionale e fuori dagli schemi che l’ha resa unica nel panorama spettacolare novecentesco. Sullo schermo scorrono immagini di luoghi in cui Duse ha vissuto e portato in scena le sue opere, da Asolo a New York, alternate a inquadrature ravvicinate sui corpi, sui volti, sulle mani di chi continua oggi a studiare la sua eredità e a ‘farsi attraversare’, come direbbe Bergamasco, dai personaggi che ella ha incarnato: attrici come Elena Bucci, Ellen Burstyn, Helen Mirren, Valeria Bruni Tedeschi; ma anche studiose e studiosi come Annamaria Andreoli, Maria Paola Pierini, Mirella Schino, Emiliano Morreale, Ferruccio Marotti. Ciascuno di loro si confronta con l’enigma di una recitazione che, come ricorda ancora Bergamasco, era tanto sofisticata da sembrare invisibile, una tecnica così raffinata da perdersi e apparire spontanea, un approccio recitativo basato sul sottotesto, sulle pieghe sottili del gesto e della voce. Attraverso i ricordi delle persone intervistate, emerge come Duse abbia rivoluzionato il rapporto tra interprete e spettatore, introducendo una recitazione interiore, capace di scomparire in scena ma al tempo stesso di scuotere profondamente la sensibilità del pubblico. Lee Strasberg, futuro padre spirituale dell’Actors Studio, alla domanda su che cosa facesse Duse per incantare lo spettatore risponde nel film che «non faceva nulla», ossia semplicemente diventava la figura che stava portando in scena, senza «recitarla»; Charlie Chaplin, dopo averla vista a New York, la definisce «la più grande artista mai vista». La regia di Bergamasco si muove con garbo, alternando immagini del passato a frame contemporanei in una coreografia visiva che rende palpabile il corpo sensibile dell’attrice, grazie all’aiuto del primo piano su micro–gesti e sguardi che appaiono in tutta la loro apparente naturalezza, in tutto il loro rifiuto dell’artificio scenico che muove verso l’affermazione della verità dei sentimenti.
Il film diventa così una sorta di ponte tra passato e presente, tra istanze di una generazione di antenate e fondatrici – che ha combattuto battaglie importanti sul fronte delle conquiste artistiche e politiche – e quelle della nuova generazione, che non può affermare sé stessa prescindendo dalla memoria di chi l’ha preceduta. Nonostante la consapevolezza di non poter arrivare a una verità definitiva su questa artista leggendaria, figura complessa e che rifugge le definizioni, Bergamasco riesce a rievocarne il ricordo attraverso un ordito sottile di parole, forme, emozioni e senza farne un ritratto celebrativo, bensì ricollocando l’attrice nel nostro immaginario con forza sorprendente. Duse, The Greatest solleva domande sulla natura del mestiere dell’attore, sul corpo come memoria, sul senso di una presenza che vive ancora, a cento anni dalla morte, attraverso i gesti, l’energia e il silenzio di un’artista che continua a parlarci ancora oggi.
Eva Marinai, Chiara Tognolotti
Trascrizione dell’incontro a cura di Lindita Adalberti.
Eva Marinai: La sceneggiatura del film è stata realizzata da Sonia Bergamasco insieme a Maria Paola Pierini, nostra collega all’Università di Torino, studiosa di storia del cinema, di storia e teoria della recitazione. La prima domanda riguarda la costruzione del racconto a partire dagli indizi che avete raccolto.
In effetti sembra una sorta di giallo, perché si sta parlando di un’attrice che non è più in vita, per cui si cerca di ricostruire il suo mondo attraverso indizi, segni, fonti d’archivio: tante immagini, tante fotografie, memorie e ricordi di luoghi, di spettacoli, seguendo l’itinerario tracciato dalle molte studiose e dai molti studiosi che si sono occupati di lei. Tu, Sonia, ti sei confrontata con un’attrice che amava sottrarsi alle interviste e alle riprese.
Quindi come è avvenuto l’incontro con questa grande attrice? Qual è stato il processo creativo iniziale?
Sonia Bergamasco: Il mio desiderio di raccontare Eleonora Duse non aveva niente a che vedere con il centenario. Mi sono avvicinata al racconto cinematografico in un processo, perché la mia conoscenza di lei è avvenuta per ‘immagine’, quando frequentavo la Scuola del Piccolo. L’ho vista e non sapevo ancora chi fosse, ma già il suo sguardo mi ha chiamato e mi ha parlato. Questo è stato, per me, l’inizio.
Poi nel tempo tutto quello che leggevo su di lei – ha scritto moltissime lettere – mi risuonava, perché sentivo che era qualcosa che mi riguardava; e riguardava il mestiere che io stavo cominciando a fare. Lei mi stava parlando, mi stava nutrendo e mi stava aiutando a trovare anche il coraggio di fare quello che volevo fare, perché era anche una narrazione splendidamente aperta e non convenzionale, dotata di un’espressione creativa dirompente. Se voi avete visto le sue lettere – anche da un punto di vista estetico – sono pittoriche, e rendono l’espressione che sta dentro a queste parole, anche nella forma. Quindi ho sentito sempre più vicinanza e gratitudine per questo percorso d’artista e nel tempo, lavorando, desideravo trovare il modo di restituire parte di quello che stavo ricevendo.
Inizialmente il luogo più naturale di restituzione, per me, era quello teatrale, ma non ho mai avuto il desiderio di raccontarla immergendomi nel personaggio di Eleonora Duse. Non mi è mai venuto in mente, forse per una forma di rispetto. La prima e l’ultima idea sono sempre state quelle di riuscire ad avvicinarla attraverso lo sguardo degli altri, di tutti quei testimoni del passato – suoi contemporanei – che hanno avuto la fortuna di vederla, magari di incontrarla, di esserle amici. Raccontarla attraverso le testimonianze per riuscire a comporre questo ritratto possibile di una grande artista.
Nel corso degli anni, in coincidenza con il periodo delle chiusure che tutti voi ricorderete, ho pensato invece che il cinema fosse il luogo giusto per raccontare questa assenza. Noi abbiamo foto, lettere e testimonianze di altri, ma di lei viva – in movimento – abbiamo un solo film muto del 1916, che si intitola Cenere. Poi abbiamo alcune riprese dei suoi funerali, di cui non sapevo l’esistenza, e sono saltate fuori da questo magico cappello del tempo, proprio l’anno scorso.
Per il resto niente perché, come dicevamo prima, era un’artista che, al contrario di molti altri suoi contemporanei – una per tutte Sarah Bernhardt – si sottraeva al mondo del giornalismo e a quel tipo di pubblicità per tanti invece ricercata e desiderata. Perché? Io mi sono data alcune risposte. Questo è, però, il dato essenziale della sua biografia d’artista. Mettere al centro di un film un fantasma è una bella sfida e questo abbiamo fatto io e Maria Paola Pierini, lavorando a una scrittura che ci ha impegnate per un anno. Il filo rosso di questa narrazione è il corpo dell’attrice, il suo corpo assente. Attraverso di lei volevamo raccontare qualcosa del mestiere dell’attore di oggi. Il film è punteggiato anche da incontri con artisti che non l’hanno mai vista, come noi, che però sono stati ispirati da lei e continuano a esserlo; e anche di artisti che si fanno domande sul mestiere al presente, anche attraverso questo grande percorso d’artista: attraverso Eleonora Duse per arrivare noi.
Eva Marinai: Il titolo dello spettacolo teatrale che hai fatto precedentemente è Eleonora Duse e noi, giocando sul rapporto tra questo mito e la nostra esperienza di persone, di donne o di attori e attrici. Nello spettacolo teatrale leggevi le lettere…
Sonia Bergamasco: Questa è stata una richiesta della Fondazione Giorgio Cini che è una miniera preziosissima di lettere, manoscritti, copioni e costumi. Mi è stato chiesto – sempre per il centenario – di pensare a una lettura. Tra l’altro è uscito un libro che sicuramente voi conoscete: Illustre Signora Duse di Marianna Zannoni (che lavora alla Fondazione Cini), che raccoglie cento lettere a lei inviate. È un bellissimo libro e da quelle ho estratto alcune lettere.
Chiara Tognolotti: E quindi questo lavoro indiziario somiglia molto anche alle ricerche che conduciamo noi su attori e attrici del passato. Tu dicevi: il mestiere dell’attore, dell’attrice e il corpo… In effetti il titolo del tuo libro pubblicato per Einaudi nel 2023 è Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice. Come vedi il tuo corpo di attrice in relazione al corpo di Eleonora Duse?
Sonia Bergamasco: È una bella domanda!
Chiara Tognolotti: Quello che mi ha sedotto è stato pensare a te come attrice, come regista, che ti confronti con questo straordinario mito.
Sonia Bergamasco: Sono alcuni anni che lo sguardo sul mio lavoro comincia a diventare anche uno sguardo di ritorno, come un rispecchiamento, per cercare di cogliere alcuni meccanismi del mestiere. È importantissimo, per chi di voi fa o farà l’attore, riuscire ad avere consapevolezza di quello che si sta facendo, nel momento in cui lo si sta facendo. Il qui e ora, cioè la massima apertura e, nello stesso tempo, la possibilità di controllo: lo dice Eleonora Duse magnificamente ed è proprio un meccanismo fondamentale della recitazione quello di essere completamente dentro alla materia e consapevole di quello che stai facendo. Anche guardarti è uno sguardo strabico.
Questa è stata una mia necessità negli ultimi anni, poi la scrittura del libro è successa anche abbastanza casualmente. Mi è stato chiesto di scriverlo e ho colto l’occasione proprio perché stavo lavorando al documentario. Quindi, avere la possibilità di convogliare temi che poi sarebbero confluiti nel documentario era una possibilità molto bella e importante per me. Nel libro c’è anche un capitolo Duse e quindi sicuramente il corpo per me è stato sempre al centro dell’indagine e anche del problema.
Il ‘problema corpo’: per questo discorso parto, infatti, dal corpo del bambino che si guarda allo specchio per cercare di trovarsi, di conoscersi e, nello stesso tempo, di andare oltre. Prima di tutto c’è un riconoscersi per riuscire, poi, ad amministrare tutte le energie del corpo, perché c’è una quota di fisicità e di materialità evidente nel lavoro.
Il corpo stesso è un labirinto e queste vie devono intrecciarsi e parlarsi per riuscire a raccontare una storia e a sprigionare energie creative. È un corpo a corpo, con le energie che possono essere anche contrastanti. In questo senso guardare al lavoro di un grande artista è anche un modo di oggettivizzare questo sguardo, di vedere attraverso il percorso dell’altro come se l’è sbrogliata con questi temi.
Eva Marinai: A proposito di questo ‘corpo a corpo’ vorrei cercare di mettere in comunicazione lo stile e la modalità che tu hai usato per la regia di questo film con il contenuto e quindi con la storia di questa grande attrice e della sua biografia artistica. In particolare, punto l’accento sul grande rispetto che hai usato nel raccontare questa storia, che mi pare emerga anche dal fatto che tutta la narrazione avviene come sottovoce. Hai una recitazione che utilizza quello che in teatro, di solito, definiamo ‘il sottotesto’.
Chiunque si sia occupato di Eleonora Duse ha messo in evidenza che lei raccontava quelle che vengono chiamate le ‘controscene’, cioè quello che avviene nel momento in cui siamo di schiena, di tre quarti; raccontava, dunque, questo sottrarsi di cui parlavamo prima. A me è sembrato che ci fosse un incontro tra il tuo modo di raccontare questa storia e il modo di recitare di Eleonora Duse, cioè una modalità che volesse in qualche modo accompagnare il racconto in modo premuroso, delicato, una modalità molto dusiana. Potremmo dire con una raffinatezza del dettaglio, facendo primi piani – a volte – anche di ciò che è nascosto, come i puntini di sospensione delle lettere. Trovo affinità tra il tuo modo di guardare Eleonora Duse e il suo modo di recitare...
Sonia Bergamasco: Io non l’ho pensato in questi termini, naturalmente, però mi sono messa alla ricerca. È diventata una vera e propria indagine sulle tracce e un’indagine amorosa, perché io mi sono innamorata di lei e del suo mondo; e quindi sì, anche rispettosa, ma non in senso formale. Non me lo sono posto come principio di partenza e quando mi chiedevano: «perché c’è così poco D’Annunzio?». C’è così poco D’Annunzio perché io stavo con lei e perché Eleonora Duse non è semplicemente l’amante di Gabriele D'Annunzio – com’è il cliché tutto italiano, purtroppo ancora al presente – ma è una grande artista che ha incontrato, in un periodo importante della sua vita, un altro grande poeta. Avevano un progetto d’arte per un teatro di poesia e hanno avuto una storia d’amore importante, ma questo non può definire la donna e l’artista: non mi basta, non ci può bastare. D’Annunzio ha lo spazio che, per me, deve avere in un racconto in cui lei è protagonista. Non è un biopic, non segue la sua storia di vita e arte. Per questo ci sono i libri degli studiosi e delle studiose. Noi abbiamo la fortuna di avere, qui in Italia, Mirella Schino che – una per tutti – ha dedicato la vita a studiare Eleonora Duse: allora leggiamo i suoi libri e scendiamo in profondità, ma compito del cinema è altro.
Perché ho scelto la possibilità del cinema per raccontare una grandissima artista di teatro?
Intanto perché lei ha incrociato il cinema. Lei – incredibilmente la ‘donna senza scuole’ – è nata nel teatro, perché a quattro anni, per la prima volta, ha recitato in Cosetta dei Miserabili; è figlia di gente di teatro che girava per l’Italia molto faticosamente e non con esiti brillantissimi. Ha conosciuto il teatro nella sua fatica, nei suoi dati deteriori, di ferocia, però lei che, probabilmente, ha imparato a leggere veramente leggendo i copioni, è diventata caposcuola. Stanislavskij guardava a lei come punto di riferimento insieme ad alcuni altri attori italiani: era un punto di riferimento come corpo di scena nuovo. Lee Strasberg, giovane ventenne che la vede negli Stati Uniti, la fa diventare un’icona della nuova scuola di recitazione cinematografica, e quindi caposcuola involontaria internazionale. Anche perché era un’epoca in cui – come sapete – giravano il mondo con il teatro e quindi venivano visti sia dai nuovi artisti del cinema che dagli artisti di teatro.
Eva Marinai: Tra l’altro in alcune interviste è stato definito un critofilm, secondo il termine coniato da Carlo Ludovico Ragghianti. Peraltro, ‘staccarla’ da D’Annunzio mi pare che sia un’intenzione di tutte le artiste che si sono confrontate con Eleonora Duse: Elena Bucci – che è tra l’altro anche una delle protagoniste del tuo film – ma anche Marta Dalla Via e Silvia Gribaudi hanno realizzato lo spettacolo teatrale su Duse in cui hanno cercato di non raccontare il rapporto con D’Annunzio, non perché si volesse censurare, ma proprio perché era già fin troppo raccontato. Spesso viene definita come la musa di Gabriele D’Annunzio e questo, in un certo senso, la limita e ne limita gli orizzonti.
Sonia Bergamasco: Ma noi l’abbiamo raccontato, non è che abbiamo censurato Gabriele D’Annunzio…
Eva Marinai: Certo, non si poteva non raccontare, però senza dargli il peso di essere fondamentale nella biografia dell’attrice...
Chiara Tognolotti: Io vorrei chiederti – a proposito di grandi attrici e di grandi modelli – di Monica Vitti: tu ne parli nel libro e, sia io che Eva, abbiamo avuto occasione di lavorare su Vitti. C’è qualcosa di questa straordinaria attrice che trovi consonante col tuo modo di recitare?
Sonia Bergamasco: Magari! Monica Vitti è un punto di riferimento. Sicuramente ha pensato tanto a Duse come tante della sua generazione: Anna Magnani, una per tutte. Monica Vitti la citavo nel libro – oltre a pensarla sempre – proprio perché lei, che è stata insegnante in Accademia, si è dedicata molto anche alla pedagogia ed è passata dal teatro al cinema. Non ha mai abbandonato il teatro ed è passata dalla commedia – da Antonioni – alla grande commedia italiana con questa elasticità di un corpo di scena libero; e io amo moltissimo la possibilità, nel nostro mestiere, di muoversi liberamente tra i generi e nell’espressione senza catalogazioni. Quindi mettere al centro l’espressione e poi andare dove ti porta questa espressione. Anche perché poi la grande commedia è proprio il nutrimento essenziale del cinema e quindi lei è stata e continua a essere un riferimento assoluto, anche per la mia generazione e per le nuove generazioni.
Sulla voce, poi, ci siamo soffermati molto anche nel film. Monica Vitti ha una voce sui generis, assolutamente anticonvenzionale. Eppure quanta vita, quanto racconto in questo timbro così rotto, così musicale, così mosso. Facevo l’esempio anche di Marlon Brando: luoghi e tempi diversi, ma con una fisicità importante e prorompente che dialoga con una vocalità che non ti aspetti, cioè con questa vocina un po’ nasale, un po’ arretrata come timbro, che diventa magicamente qualcosa che fa volare.
Eva Marinai: E anche la voce di Eleonora Duse era definita nasale…
Sonia Bergamasco: Sulla voce hanno detto di tutto e io rispondo dal mio punto di vista, che erano le voci delle sue donne, delle donne che lei attraversava proprio perché nelle testimonianze importanti e dettagliate di poeti, di scrittori, di registi, di attori lei viene attraversata. Lei è quel tipo di interprete che si lascia attraversare: non impone il suo modo, ma si lascia attraversare. In questo, la voce – che è corpo – se tu ti lasci attraversare risponderà a quel corpo nuovo a cui tu lasci spazio. Ci sono tante voci, abbiamo tante voci a cui dare voce.
Eva Marinai: E qui la musica ci insegna…
Chiara Tognolotti: Infatti stavo proprio pensando a quello. Tu la usi spesso questa parola: ‘attraversare’, ‘farsi attraversare’, anche nel libro. È molto bella questa idea e mi fa venire in mente anche il ruolo che la musica ha avuto nella tua formazione, e anche nel tuo modo di recitare.
Sonia Bergamasco: Dovendo scrivere questo libro sono partita dal mio dato biografico per sottrazione, anche perché non è minimamente un’autobiografia, sarebbe ridicola e non era quello che mi è stato chiesto. Nel corso delle prime stesure mi è stato chiesto, sempre di più, di mettere in rapporto anche la mia esperienza con quello di cui parlavo, per essere più chiara. Da qui è venuta anche la necessità di fare un racconto più personale proprio per essere più chiara nello spiegarmi, perché è un lavoro molto pratico quello che facciamo e quindi ha bisogno di esempi pratici. E sì, la musica è la mia prima esperienza di lavoro e di studio. Al Conservatorio mi sono diplomata in pianoforte e poi è venuta la scuola di recitazione in cui pensavo di aver chiuso con la musica, mentre tutto quello che avevo incamerato e fatto mio del linguaggio musicale si è tradotto per la scena.
Mi sono resa conto di quanto questo linguaggio musicale avesse a che fare con l’ascolto. Un’altra cosa di cui parlo molto è l’ascolto, perché l’ascolto – che sta alla base di ogni gesto musicale – il silenzio, prima del suono, è anche materia prima del ‘fare in scena’, sul set. L’ascolto dell’altro, l’ascolto di sé stessi, prima di tutto, della situazione del luogo, delle luci, delle temperature. Mettersi in ascolto, anche nella vita – direi – è fondamentale. Quando uno non riesce a mettersi in ascolto sono guai, perché poi succedono cose molto brutte e quindi sì, il principio dell’ascolto, che è un principio musicale, è sicuramente quello che mi ha guidato nel percorso di studio…
Eva Marinai: E di lavoro di creazione, anche teatrale.
Sonia Bergamasco: E poi tu mi dicevi prima, Eva, che sentivi che vivo musicalmente il film. Quello è stato proprio un desiderio importante fin dall’inizio, proprio perché mi appartiene e appartiene molto anche al racconto artistico di Eleonora Duse, che non aveva studiato musica ma che aveva una profonda musicalità; ha frequentato Arrigo Boito, un grande musicista, compositore e librettista ed è stato un importantissimo incontro della sua vita, è un incontro d’amore e poi d’amicizia fondamentale e quindi c’è anche quel dato nel film.
Eva Marinai: Il ritmo segue la narrazione e la accompagna. Le musiche del film, tra l’altro, sono originali, no?
Sonia Bergamasco: Sì, Rodrigo D’Erasmo ha scritto le musiche per il documentario. Le ha scritte in una notte, molto ispirato, e ha seguito i riferimenti che gli avevamo dato nel nostro montaggio; li ha fatti suoi e ci tenevo moltissimo che ci fosse un gesto musicale contemporaneo, che non ci fosse niente di polveroso, che non si sentisse che stiamo parlando di qualcosa che non ci riguarda, ma che siamo qui per parlare di noi.
Eva Marinai: Un’altra figura che sia io sia Chiara abbiamo pensato di citare perché importante nel film, anche se è solo un piccolo cameo, è quella di Carmelo Bene: nel film c’è un inserto in cui Bene recita una frase di Eleonora Duse. E la frase è «dal teatro andrebbero tolti gli attori». Questo è interessante e provocatorio…
Sonia Bergamasco: Un altro musicalissimo che non conosceva la musica, non la leggeva eppure era una creatura musicale. Io ho studiato un po’ con lui – un anno e mezzo – e abbiamo fatto l’ultima versione del Pinocchio di Carmelo e sicuramente il suo era un approccio musicale in cui la vocalità era al centro. Il corpo vocale era al centro.
Eva Marinai: Con gli studenti abbiamo detto che Carmelo Bene è uno dei primi – forse – che usa il microfono in teatro ma non perché non avesse voce, al contrario, perché voleva utilizzare i tecnicismi che gli permettevano l’amplificazione della phoné, come amava dire lui.
E, in effetti, il collegamento con Eleonora Duse è interessante, è una lettura originale dato che ha fatto parte della tua vita artistica. C’è questo intreccio sempre frequente tra la tua storia e la storia di Eleonora Duse.
Chiara Tognolotti: Vorremmo adesso dare voce alla platea, chiedere se ci sono domande.
Domanda dal pubblico (n. 1): Ci sono tre aspetti della creazione del film che vorrei approfondire. Il primo è il passaggio di un secolo attoriale: le differenze, anche burocratiche, tra fare l’attrice un secolo fa e farlo adesso. Poi è stato citato anche Charlot. Chaplin è passato dall’essere attore alla regia. Com’è stato, in generale, passare da essere attrice a essere regista? Infine, se possibile, un approfondimento: è stata citata una scaletta sulla preproduzione. Avevate già un elenco delle persone che volevate coinvolgere, come vi siete mossi?
Sonia Bergamasco: Eleonora Duse nasce nel 1858 e quindi stiamo parlando anche della seconda parte dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. A ventotto anni diventa Capocomica e quindi ha una sua compagnia, in un regime teatrale che non prevede aiuti di alcun tipo. Quindi questo lavoro di capocomicato è tutto sulle spalle di chi imprende. È, quindi, un’impresaria che si occupa della scelta dei testi, della scelta degli attori, della scelta delle scene, della scelta dei collaboratori, della pubblicità, delle tournée. Poi, certo, ci sono gli impresari a cui metti in mano tutto il tuo lavoro e ti organizzano le grandi tournée internazionali, però i capocomici avevano sulle spalle una responsabilità enorme e lei se la prende prima dei trent’anni. È già pronta prima dei trent’anni. Dopo pochi anni, pensava di chiudere, ne aveva già abbastanza, perché lei lo conosce profondamente e conosce le miserie, conosce le fatiche del teatro. Prima di diventare Eleonora Duse, è stata una giovanissima che si è scontrata e ha incontrato il mondo teatrale anche nei suoi aspetti deteriori, un ambiente feroce. Lei poi perde la madre molto presto. Il padre, anche lui attore, smette di fare l’attore, si dedicherà alla pittura. È una figura, quella del padre. Lei è sola e quindi alla ricerca da una parte di sé stessa e della sua realizzazione e dall’altra di riuscire a farsi spazio in un ambiente molto duro, credo imparagonabile con quello che noi oggi viviamo. Intanto ciò avviene perché l’ambito teatrale non è mai abbastanza valorizzato e mai abbastanza aiutato, però occorre precisare che ora ci sono gli aiuti dall’esterno che fanno marciare il sistema teatrale, che sulle sue gambe non potrebbe vivere, allora non c’erano. Oggi c’è la possibilità per i Teatri Stabili, prima di tutto, e poi anche per i centri importanti meno strutturati di riuscire a produrre senza morire. E questo non esisteva allora. Se tu sbagliavi dei testi, se sbagliavi delle tournée crollavi, perdevi tutto e quindi ci voleva un grande coraggio. C’era una dedizione totale che dovrebbe essere sempre attuale, perché continua a essere un mestiere estremamente duro, se fatto in un certo modo, però sicuramente imparagonabile a quello che ha vissuto un’artista come Eleonora Duse.
La seconda domanda era il passaggio di Charlie Chaplin da attore a regista. In teatro la figura del regista – come sapete – non c’era. Gordon Craig, di cui si parla nel film, diventerà uno dei registi che fanno scuola a livello europeo e internazionale. Lui desidera, sopra ogni cosa, collaborare con Eleonora Duse. Per Rosmersholm, in una maniera completamente nuova, viene segnalato come scenografo, quindi la figura del regista si afferma gradualmente e segna poi un punto di crisi rispetto alla grande figura dell’attore che era capocomico, che quindi si occupava anche della messinscena. Poi c’era un direttore che organizzava entrate e uscite, però era tutto nella mente del capocomico. Questa figura viene scalzata da quella del regista, che si afferma nel Novecento.
Non so se avete letto l’autobiografia di Charlie Chaplin: bellissima, formidabile, anche atroce da un certo punto di vista, feroce. Lui la ferocia l’ha conosciuta e credo l’abbia anche applicata. Attraversa il teatro dalle sue forme più piccole, più meschine, fino ad arrivare anche alle creazioni, che poi diventano creazioni cinematografiche, in cui è protagonista e regista, autore a tutto tondo. Come Charlie Chaplin, moltissimi attori e registi hollywoodiani cercano Eleonora Duse. Griffith chiama Eleonora Duse per un suo film – non so se Intolerance o il successivo – e questo incontro non avverrà mai. Per fortuna, dico io, perché l’avrebbe stritolata nel suo film.
Il mio passaggio è stato una necessità. In verità, io avevo la necessità di raccontare questa storia, e volevo scriverla. L’ho presentata a una produttrice, la quale mi ha detto: “Però la devi girare tu!”
Ho avuto esperienze di regia teatrale – mai di cinema – e quindi mi è sembrata una cosa molto complessa e continuo a pensare che sia una cosa molto complessa. Il mondo del documentario è un mondo appassionante, che vive anche di una libertà espressiva, di cui io ho goduto. Sono riuscita a trovare lo spazio per raccontarla a modo mio e quindi mi sono circondata di persone che ho amato, a cominciare dal direttore della fotografia, Cristiano Di Nicola. Tutti molto giovani, che per me sono stati un valore aggiunto, perché oltre a essere veramente nella materia e pronti a far scattare delle nuove idee erano anche lo sguardo nuovo. Io ero dentro, fin troppo immersa nella storia, avevo bisogno di uno sguardo fresco e questo incontro con un’altra generazione – per cui Eleonora Duse non è quello che è per me – è stato importante. I due montatori – Federico Palmerini e Diego Bellante – ho dovuto convincerli che Eleonora Duse fosse così grande e così amata, li ho avvicinati a questa passione che per loro non era non era così viva. La gioia più grande è stata quella che alla fine erano più fan di me. Loro mi davano degli input nuovi e quindi è diventata una storia condivisa.
In un film documentario come questo il lavoro sull’archivio è stato determinante perché è un archivio creativo, come dicevamo di lei. Cosa abbiamo? Il film Cenere… i dettagli, le inquadrature diventano materia di studio. Utilizzare a piene mani l’archivio contemporaneo di Eleonora Duse o scivolando, prima e dopo, sul suo periodo per raccontarla attraverso un impasto che diventa creazione, che diventa una terza cosa.
Eva Marinai: Il lavoro di ripresa e di postproduzione è protagonista. Immaginate cosa si può fare con una ripresa che ti permette di arrivare nel dettaglio della parola, della grafia. Ad esempio, il dettaglio delle mani, che sappiamo essere importantissime per l’attrice. Un conto è vedere una foto. In questo caso, invece, possiamo vedere il dettaglio delle mani che si ingrandisce e viene poi messo in relazione con altri dettagli. Tutto grazie al montaggio. C’è un importante lavoro di montaggio, che vede immagini realizzate al momento della ripresa e immagini d’archivio.
Sonia Bergamasco: Sì, c’è un impasto nell’utilizzo dei mezzi: fotografie, macchina da presa e l’handycam. È una sorta di stratificazione dei segni, che naturalmente non è niente di dichiarato o di teorizzato, ma che nel mio desiderio vuole diventare quella stratificazione di segni che sta alla base del flusso creativo dell’artista. Questo è quello che ho cercato.
Eva Marinai: La sensazione che si ha, guardandolo, è quella di un lavoro in fieri, cioè, sembra che tu stia anche inciampando in alcuni segni.
Sonia Bergamasco: Nei documentari gli incontri sono determinanti per cui sì, c’era un trattamento forte – pensato, strutturato – però poi ci sono gli incontri, quindi cambi strada.
Domanda dal pubblico (n. 2): Qual è il rapporto tra Eleonora Duse e il cinema?
Sonia Bergamasco: Lei chiama il cinema ‘lo specchio che vede le anime’. I primi piani il teatro non ce li ha. Il primo piano è un elemento sconvolgente per un artista che vive il teatro e lo ha vissuto per tutta la sua vita, quindi probabilmente lo teme. Lei fa il suo primo film a cinquantotto anni, era tardissimo – i divi e le dive avevano vent’anni – e quindi fa questa esperienza, ma rimane delusa.
Il cinema delle origini è un cinema degli inizi, quindi è un linguaggio nuovo tutto da scoprire. È una rivoluzione e in questa rivoluzione lei si sente anche spaesata. È incredibilmente emozionante pensare a una grande artista che ha il coraggio di dire queste cose, di dirle a sé e di dirle anche agli altri…
Chiara Tognolotti: E anche di rinunciare alla voce…
Sonia Bergamasco: Lei si inventa la modalità di recitazione a labbra chiuse, mentre nel cinema muto tutti parlano. Invece lei, che vuole cercare una coerenza al suo flusso creativo, si immagina questa possibilità.
Domanda dal pubblico (n. 3): Nel trailer viene detto che le donne, dopo aver visto recitare Eleonora Duse, cambiavano la loro vita. Qual era l’opinione che si aveva, al tempo, su questa attrice, in una società – soprattutto quella italiana – in cui questo mestiere era connotato negativamente? Qual è stato l’impatto che lei ha avuto su una sorta di nascita, forse addirittura di un movimento di emancipazione della donna?
Sonia Bergamasco: Lei è stata vicina ai movimenti femministi, senza mai farsi citare dai gruppi o senza mai diventare una portabandiera, perché la sua vita di donna e d’artista è stata una vita che ha rivendicato da subito l’emancipazione. Lei è stata sposata con un uomo che non ha amato e dal quale si è separata malamente. Dopo aver avuto una figlia – l’unica figlia, Enrichetta – si è separata e non si è mai più risposata e ha vissuto i suoi amori e le sue storie senza dover rendere conto a nessuno. Ha cresciuto da sola questa figlia. Lei era di quegli attori, di quelle attrici così grandi che comunque venivano riconosciuti a livello internazionale, come – diciamo – beni essenziali della società e quindi con una tutela diversa. Il suo desiderio di riservatezza, di solitudine e di emancipazione era un desiderio anche di scartare il pettegolezzo, le parole facili, i cliché e ha vissuto sempre molto liberamente il suo fare d’artista. Aveva la necessità di sentirsi libera.
Lei ha vissuto quel momento del teatro – italiano e internazionale – che era il centro della cultura, ed era una cultura anche popolare. Il teatro era il luogo delle manifestazioni, dell’incontro, del rispecchiamento…questi grandi artisti e artiste quando colpivano erano in grado di muovere le coscienze, come dovrebbe essere, no? Il teatro viveva il suo spazio intero nella società, che poi è stato parzialmente scalzato dal cinema, che è diventata la nuova lingua popolare.
Eva Marinai: Forse possiamo dire a questo punto due parole sulla Libreria delle attrici…
Sonia Bergamasco: La Libreria delle attrici è una delle iniziative che Eleonora Duse dedica alle giovani attrici. Lei mette a disposizione duemila suoi libri, in un palazzo sulla Nomentana che sarebbe dovuto diventare un luogo di incontro, di lettura e di riflessione. Questa libreria viene aperta nel 1914 e – come capirete – dopo poco viene chiusa. Non viene accolta positivamente, anche dalle stesse attrici.
Eleonora Duse aveva vissuto alcuni anni in una sorta di riconoscimento con Gabriele D’Annunzio. Era vista e malvista da alcuni scrittori, artisti, persone della cultura, come appunto compagna o ex di una persona più o meno odiata; e quindi ha patito anche questo sguardo.
Domanda del pubblico (n. 4): Ha pensato di rischiare, di fare un errore, magari di perdersi qualcosa per strada? Questa donna lascia una parte di mistero, perché non potevamo sapere tutto e lei ha recuperato il possibile – credo – per fare questo lavoro. Il rischio, però, che qualcosa vada dimenticato c’è…
Sonia Bergamasco: Il mistero è salvo, resta lì e continua a nutrirci. Ho seguito una delle possibili vie per raccontarla, ho dato spazio ad alcune parti della sua vita che si è mossa su molti piani. Ho raccontato quello che potevo raccontare, secondo le mie possibilità. Sono assolutamente certa di non aver raccontato tutto, ma forse sono anche contenta. Nessuno di noi può raccontare tutto di nessuna persona al mondo e soprattutto di un’artista come lei.
Domanda del pubblico (n. 5): Che impatto ha avuto Eleonora Duse sulla sua vita e sulla sua carriera d’attrice?
Sonia Bergamasco: È un interrogativo che mi continuo a fare e penso che con questo film sicuramente mi sono avvicinata al suo percorso in una maniera amorosa, e quindi non pretende di essere una maniera scientifica. In questa vita d’artista ho percepito il coraggio di mettersi in gioco completamente, con enorme generosità malgrado tutte le difficoltà, malgrado i fallimenti. Anche Eleonora Duse li ha avuti e questo ci aiuta a resistere. Sicuramente lei mi ha stimolato a essere all’altezza dei desideri che sento di maturare.
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