4.2. ‘Visioni’ sottomarine. Sulle sperimentazioni subacquee della Panaria Film

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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A partire dalle sperimentazioni subacquee della Panaria Film, obiettivo di questa indagine è quello di provare a riflettere sulla ‘non-indifferenza’ degli elementi naturali, ovvero sulla possibilità che possa essere tracciata una reciprocità tra forma del territorio – la sua con-formazione ‘elementare’ – e la materialità dell’immagini cinematografiche. Seguendo i lavori dei ‘ragazzi della Panaria’ – in particolare Cacciatori Sottomarini (1946) e Tonnare (1947) – e del cine-occhio ‘anfibio’ realizzato da Francesco Alliata Principe dei Villafranca, l’analisi interroga le modalità attraverso cui l’elemento acquatico possa essere considerato tanto elemento identitario quanto elemento formale, ossia in grado di dare forma ad un preciso sguardo cinematografico.

Starting from the underwater experiments of Panaria Film, the aim of this research is to reflect on the ‘non-indifference’ of the natural elements, i.e. the possibility of establishing a reciprocity between the form of the territory  ̶ its ‘elemental’ conformation  ̶ and the materiality of cinematic images. Following the works of the ‘Panaria boys’  ̶  in particular Cacciatori Sottomarini (1946) and Tonnara (1947) - and the ‘amphibious’ cinematic eye created by Francesco Alliata, Prince of Villafranca, the analysis explores how the aquatic element can be considered both as an element of identity and as a formal element capable of shaping a specific cinematic gaze.

 

Una volta a Messina c’era una madre che aveva

un figlio a nome Cola che se ne stava a bagno

nel mare mattina e sera.

La madre a chiamarlo dalla riva: «Cola! Cola!

Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?»

E lui a nuotare sempre più lontano.

Italo Calvino, Cola Pesce

 

 

 

 

Sul soffitto a volta del Teatro di Messina Vittorio Emanuele II è raffigurata una scena tratta dalla leggenda di Cola Pesce (o Colapesce), il giovane ragazzo ‘mezzo uomo e mezzo pesce’ che venne mandato dal Re a vedere cosa si nascondeva lì dove il mare era più profondo. Dopo aver nuotato attorno alla Sicilia, Cola disse al Re che Messina poggiava su tre colonne, una delle quali, erosa dal fuoco dell’Etna, era in procinto di cedere. Diverse sono le versioni della leggenda, ma tutte hanno un tragico epilogo: Colapesce si immerge un’ultima volta – per recuperare la corona del Re o, nella versione più celebre, per sorreggere la colonna che sta per cedere sotto il peso della città – e non fa più ritorno in superficie.

Commissionato nel 1985 dall’allora consulente del teatro Gioacchino Lanza Tomasi, il maestoso affresco è una delle ultime – nonché più grandi – opere realizzate da Renato Guttuso, e mostra il giovane Cola, attorniato dalle sirene, ritratto nell’attimo che precede la sua immersione nelle acque dello Stretto, a rappresentare il rapporto simbiotico che intercorre tra la Sicilia e il suo mare.

Nel 1946 Francesco Alliata Principe di Villafranca si trova a bordo di una delle barche che compongono la tonnara: insieme ai tonnaroti, sta aspettando che i tonni entrino nel labirinto di reti che porta alla ‘camera della morte’. Il nobile palermitano, tuttavia, non è lì per pescare: da mesi ormai vive insieme ai pescatori per effettuare le riprese nelle tonnare, immagini che sarebbero poi servite all’amico e regista Pino Mercanti, impegnato in quel momento con la realizzazione del suo film, Malacarne (1946). Mentre il giovane regista tiene tra le mani la sua Arriflex cercando di adeguarsi al crescendo parossistico della mattanza, un’idea comincia a farsi largo nella sua mente: riprendere gli eventi dalla superficie non basta più, ma come fare a registrare ciò che sta accadendo sotto l’acqua?

È con questa domanda che prende il via l’avventura dei ‘ragazzi della Panaria’, quattro giovani di ‘buona famiglia’ – Francesco Alliata di Villafranca, Quintino di Napoli, Pietro Moncada e Renzino Avanzo, ai quali poi si aggiungerà Fosco Maraini – tutti accomunati da due grandi passioni: il mare e il cinema.

Sarebbe facile tessere un filo immaginario che dalle avventure subacquee di Colapesce – qui poste come overture – porta fino alle sperimentazioni pionieristiche della Panaria, cedendo a un ritorno nostalgico ai miti della Sicilia. Così come non sarebbe errato scorgere nella postura cinematografica dei ‘cacciatori sottomarini’ il rinnovarsi di un gesto antico – quello del tuffo di Cola così come viene raffigurato da Guttuso – la ritornanza di una forma visiva che riappare ri-mediandosi attraverso corpi e – potremmo dire – formati diversi [fig. 1]. Ma non è sufficiente. È infatti ugualmente difficile non intra-vedere, nelle vicende di Cola, un rapporto destinale che lega insieme non solo la Sicilia al suo mare, ma anche a una modalità di visione subacquea che nell’esperienza della Panaria si traduce in un ‘cine-occhio’ anfibio, configurato proprio a partire dall’elemento acquatico.

Se il cinema italiano, nel confrontarsi con il paesaggio naturale della penisola, «non si è limitato a rappresentare le bellezze e gli scempi che lo caratterizzano, ma ha saputo agire più in profondità: ha raccolto ed elaborato in sé la sfida della natura, identificando in ognuno dei quattro elementi uno specifico statuto estetico del mondo» (Zucconi 2014, p. 440), il compito di questa indagine è dunque provare a individuare come l’acqua possa essere considerato tanto elemento identitario quanto elemento formale, ossia in grado di dare forma a un preciso sguardo cinematografico. Non si tratterà, insomma, di indagare semplicemente la modalità attraverso cui le immagini hanno rappresentato il paesaggio marino – e delle isole Eolie in particolare – ma come il cinema si sia fatto carico di una sovreccedenza degli elementi naturali in grado di influenzare gli stessi processi compositivi. Dal cinema alla Natura, e ritorno.

Ripartiamo allora dalla barca su cui si trova il giovane Francesco Alliata, ormai ossessionato dalla realizzazione di una sequenza esplicitamente richiesta da Pino Mercanti: la scena vede il protagonista del film tuffarsi in acqua per raccogliere una stella marina che giace sul fondale, «un gesto simpatico, in relazione con il mare» (Cafiero 2008, p. 29). Ma il giovane regista non si accontenta di filmare dalla barca: l’idea è seguire il protagonista lungo tutta la sua immersione, filmarlo mentre raccoglie la stella marina e poi seguirlo ancora mentre nuota verso la superficie [fig. 2]. Sono due i problemi da risolvere: il primo, è che non è possibile entrare nella ‘camera della morte’ insieme ai tonni – troppo pericoloso, ma anche sacrilego rispetto alla complessa liturgia delle mattanze; il secondo è capire come proteggere la Arriflex e soprattutto scoprire se, una volta sott’acqua, la pellicola si sarebbe poi impressionata. Sebbene fossero Renzo Avanzo e Pietro Moncada a fare da ponte con il mondo delle attrezzature subacquee, è lo stesso Francesco Alliata a progettare la custodia stagna che, non senza difficoltà, avrebbe poi permesso la buona riuscita dell’esperimento. Così, i quattro amici decidono di partire per le Isole Eolie, dove Alliata filmerà per 45 giorni senza sapere se, dei 3.000 metri di pellicola, si sarebbe riuscito a salvare almeno un fotogramma. Durante le riprese, Alliata fece il tentativo di sviluppare un pezzo della pellicola in una bacinella, ma l’acqua troppo calda – e l’impossibilità di reperire del ghiaccio sull’isola – fece scogliere tutto, lasciando la sola celluloide trasparente. (Cafiero 2008, p. 73).

Il risultato di questa prima spedizione è, come è noto, Cacciatori Sottomarini (1946), in cui vediamo le gesta di pescatori ‘di nuovo genere’ (Avanzo, Moncada e Quintino di Napoli) alle prese con l’inseguimento dei pesci, la scoperta dei fondali, ma soprattutto con la forza letteralmente ‘elementare’ delle isole, capace di condizionare non solo le loro azioni – la riuscita o meno della battuta di pesca, la fuga dall’isola durante l’eruzione del vulcano – ma la stessa forma filmica, nel segno di una grammatica cinematografica degli elementi.

È possibile, in questo senso, stabilire una reciprocità tra media e ambiente, ovvero riconoscere una agentività della natura stessa capace di esercitarsi sulle forme del cinema? È possibile, insomma, assumere una corrispondenza tra la forma del territorio, la sua con-formazione ‘elementare’ e la materialità dell’immagine? Nell’assecondare il movimento dell’acqua, nel compromettersi con l’elemento acquatico il cinema, sin dalle sue prime sperimentazioni, si è sganciato dall’immobilità della terra per affrancarsi a una ‘meccanica dei fluidi’, nel senso individuato da Deleuze. Se per il filosofo francese il movimento in acqua – che a differenza del movimento sulla terra non è tra due punti ma tra due movimenti – si ritrova in quello della stessa cinepresa, Deleuze ci suggerisce anche un secondo passaggio: nell’identificare una predilezione nei confronti dell’acqua del cinema francese tra le due guerre, Deleuze sottolinea come «l’astratto liquido è anche l’ambiente concreto di un tipo di uomini, di una razza di uomini che non vivono esattamente come i terrestri, che non percepiscono e non sentono come loro» (Deleuze 2016, ed. ebook, capitolo 5). In questo senso, il movimento della macchina da presa corrisponde a uno spostamento nello spazio che traccia modi di vivere peculiari, cifra di una postura esistenziale che marca una differenza tra gli uomini che vivono legati alla fissità della terra e chi invece risponde alla mobilità del mare. E del resto, nel cinema il mare racconta lo spazio del possibile (Bernardi 2004, pp. 67-68), mentre il limite tra terra e acqua segna lo spazio del dramma, del conflitto: come scrive Franco Cassano «la filosofia e il mare interrompono l’autarchia della terra» (Cassano 2003, p. 26).

Se questo è vero in Cacciatori sottomarini, questa contrapposizione diventa ancora più netta in Tonnara (1947), in cui la macchina da presa filma il lavoro dei tonnaroti, la loro fatica, la ritualità che scandisce il tempo in mare in attesa dell’arrivo dei tonni. Alliata segue i gesti dei pescatori, ne assume il punto di vista: la macchina da presa è in posizione rilevata per osservare gli spostamenti dell’acqua attraverso lo specchio [fig. 3] poi, per la prima volta nella storia del cinema, entra dentro la ‘camera della morte’ facendosi prolungamento anfibio dell’occhio dei tonnaroti e, ugualmente, lasciando spazio al dispiegarsi del potenziale creativo della natura stessa [fig. 4]. E ancora: il legame di Turi, il protagonista di Malacarne che «nuota come un pesce», può essere espresso solo attraverso quella precisa inquadratura sottomarina che Francesco Alliata ha promesso a Pino Mercanti – e che, in seguito, verrà estratta dal girato realizzato alle isole Eolie per Cacciatori Sottomarini: come Colapesce, Turi si tuffa per raggiungere il fondale. Poi, una volta raccolto il suo tesoro, torna in superficie dalla sua Mariastella; Cola, invece, è rimasto ormai da secoli a guardare ciò che accade nel profondo del mare, reggendo sulle spalle l’intera Sicilia.

 

 

Bibliografia

S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2004.

G. Cafiero, Il principe delle immagini. Francesco Alliata di Villafranca pioniere del cinema subacqueo, Milano, Magenes, 2008.

F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 2003.

G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Torino, Einaudi, 2016, ebook ed.

F. Zucconi, ‘Geografia’ in R. De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. I, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 433-503.